di SERGIO PORTAS
Via Panfilo Castaldi (chi era costui, verrebbe da direbbe con don Abbondio) è una via neanche troppo larga, dieci metri dalla metro di porta Venezia, che si dipana da corso Buenos Aires verso piazza della Repubblica. Per anni rifugio della prima poverissima emigrazione etiope ed eritrea, oggi è piena zeppa di ristoranti e bar “etnici”, cucina indiana e africana, dal Marocco all’Eritrea, ma anche colombiana e volendo svedese. La notte qui, per i giovani che Milano attira da mezzo mondo e dall’hinterland, finisce letteralmente alle luci dell’alba. Per la gioia dei ristoratori tutti e per la disperazione dei residenti che inutilmente (almeno finora) si riuniscono in comitati per “il sonno notturno”, da garantire come diritto a ogni persona di questo mondo. Il fatto è che, complice il mercato che tutto regola in occidente e non solo, il prezzo delle case al metro quadro nel quartiere ha oramai preso un andamento logaritmico, raddoppiando ogni anno che passa, con cifre che si avvicinano pericolosamente a quelle di via della Spiga e del cosiddetto quadrilatero della moda. E di fermare o per lo meno attenuare questa redditizia “movida”, a tutt’oggi, la “politica milanese” non se la sente proprio, troppi sono gli interessi che verrebbero toccati. Tutto questo per dire che quando ho letto che la mostra fotografica di Antonio Sotgiu, inserita in occasione del 17° “Photofestival” (milanophotofestival.it) meneghino si sarebbe tenuta allo spazio “Kriptos” di via Panfilo Castaldi 26, ho subito pensato che in qualche modo si inserisse nel clima “festivaliero” che caratterizza il posto in cui è sito lo studio che si occupa in modo interdisciplinare di arte, architettura e design. Niente di più sbagliato. E già il titolo avrebbe dovuto mettermi sull’avviso: “A different point of view”. E di questo “punto di vista differente” si faceva garante e madrina del progetto fotografico Giusy Versace, che di arte e soprattutto di solidarietà non deve prendere lezioni da nessuno. Figlia di un cugino dei Versace della moda italiana nel mondo, Wikipedia ne dipana la vita che pareva indirizzata nel medesimo ramo di attività sino all’incidente automobilistico che, a 28 anni di età, la priva di entrambe le gambe. E da allora la sua diventa una storia di riscatto e di volontà di riprendersi la vita che ha davvero dell’incredibile. Con le sue protesi in fibra di carbonio fa tutto e di più: intanto riprende a guidare, ma poi si lancia sulle piste di atletica a macinare record e titoli italiani (ne ha vinti undici). Trova sin il tempo di scrivere una autobiografia: “Con la testa e con il cuore si va ovunque” che esce nel 2013 e che quattro anni più tardi porta in scena in uno spettacolo di prosa, musica e danza. Parte dell’incasso a un’associazione che ha fondato nel 2011per aiutare altri ragazzi “sfortunati” ad avvicinarsi allo sport: “Disabili no limits onlus”. Che lei dei limiti se ne faccia beffe lo dimostra vincendo la decima edizione di “Ballando con le stelle”, cosa che la proietta dapprima nei canali di rete 4 con lo spettacolo “Alive-la forza della vita”, poi sulle reti Rai con la “Domenica sportiva” in seconda serata. Non lascia l’attività sportiva, campionati mondiali paralimpici di Doha in Qatar (ottava nella finale), l’anno dopo siamo nel 2016 è medaglia d’argento agli europei paralimpici di Grosseto. Ancora ottava in finale ai Giochi paralimpici di Rio. Candidata in Parlamento da Forza Italia è eletta alla Camera nel 2018 dove entra a far parte della commissione “Affari sociali con delega alle pari opportunità e solidarietà” e alla commissione bicamerale d’infanzia e adolescenza. Per questa tornata elettorale va con Calenda e viene rieletta. In questo suo spendersi per le persone meno fortunate, nel 2019 alla Camera dei Deputati a Roma promuove una mostra fotografica della “ex modella” Myriam Bon, un’altra “ragazza” che dove passa e agisce è capace di rivoluzionare prassi che sembrano consolidate da sempre. E’ riuscita, pensate, a far passare nel mondo della moda la possibilità che a sfilare non debbano essere sempre ragazze al limite dell’anoressia, ma anche quelle a cui madre natura ha voluto dare curve e curve.
Ha alle spalle una carriera da modella “classica” che ha iniziato a sedici anni anche se, nata e cresciuta a Venezia, frequenta nel mentre “Lettere Moderne” a Cà Foscari. Nel 2010 a fine carriera con un gruppo di colleghe realizza il progetto “Curvy Can”, un’associazione no-profit contro i disturbi alimentari. E si è messa a fotografare, prima nudi di donne “non filiformi”, poi ritratti, soprattutto. E i suoi ritratti, complice Giusy, sono diventati la mostra fotografica “I muri del silenzio” ( poi se ne è anche fatto un libro) che dopo Roma ha girato per l’Italia. Inaugurata in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, le immagini esposte, volti umani in bianco e nero con mani che vanno coprendo occhi e bocche e orecchie, non vedo non sento non parlo, raffigurano espressioni di diverse personalità che condividono l’urgenza della denuncia per un fenomeno che non si placa, una sorta di urlo contro l’omertà. Tre di queste gigantografie sono qui, esposte al piano di sotto, in quella centrale, un lui che si tappa le orecchie, lo sguardo perso in un altrove, è Antonio Sotgiu. Sono presenti ambedue oggi Giusy e Myriam, qui alla mostra del designer di Porto Torres, una più splendida dell’altra, gli occhi che sprizzano intelligenza, traboccanti di bontà d’animo. I sorrisi smaglianti di chi si è scordato ogni tipo di mascherina anti-covid. Sono qui per il loro amico Antonio, che di iniziative contro la violenza sulle donne ne ha preso molteplici, certo la foto per i “muri del silenzio”, ma anche la bambola per “The Wall of Dolls”, un altro muro, questo espressamente contro il femminicidio, inaugurato in via De Amicis nel 2014 su iniziativa di Jo Squillo, oggi è anche una ONLUS. L’intero lavoro che Antonio Sotgiu presenta, leggo dalla locandina, è incentrato sul tema della femminilità. L’autore lo indaga usando come strumento della sua visione il cellulare, un po’ come fece Andy Warhol con la polaroid, suggerendo al visitatore una sorta di percorso fotografico pensato in un crescendo consapevole. Partendo da una serie di foto di donne “standard”, quelle belle e algide delle pagine patinate delle riviste di moda esistenti solo nel fertile immaginario generato dagli stereotipi della comunicazione. Quindi sostanzialmente irreali. A creare uno stacco voluto, una serie di manichini, che servono, a dire di Sotgiu a “misurare” un modello di donna che ha vita in una dimensione dichiaratamente surreale, alla moda di un De Chirico, sotto una serie di mani protese che richiamano Man Ray. Le due fasi del racconto fotografico si contrappongono senza annullarsi, a mò di sintesi hegeliana è inevitabile uno sfociare nell’autenticità della donna reale, con le sue posture non studiate, lo sguardo che ora si cela e ora guarda in macchina con certezza antica. La stessa che si intravvede nelle poche foto di donne in costume sardo, che rimandano a chiesette di poco conto, sperdute nella campagna, il ritorno a casa in stanze scarse di mobili, i letti con la spalliera di legno, la cucina in cui il camino deve necessariamente scaldare tutta la casa. Una “firma sarda” che sottolinea l’identità dell’artista ( a cui tiene molto): la sua formazione segue un tracciato classico e particolare: liceo artistico a Sassari, poi la scuola di moda francese Le Grand Chic, che gli permette dopo di incrociare stilisti che hanno fatto grande la moda italiana, certo quando Gianni Versace lo vuole nel suo staff è un giro di volta che in qualche modo fisserà tutto il suo percorso professionale. “L’aspirazione per ogni creazione è, infatti, il riuscire a cogliere lo spirito del momento per convogliarlo in qualcosa che lo rilanci sempre un po’ oltre”. Scomparso Versace nel modo assurdo e tragico che sappiamo, Sotgiu inizia a collaborare con un altro pezzo da novanta della moda come Alviero Martini e poi si lancia nel mondo del “pret-à-porter” nel gruppo Miroglio-Vestebene. A oggi è in forza presso la Giorgio Armani come coordinatore della linea d’alta moda. Dice Sotgiu: “ Dopo essermi misurato in differenti ambiti della filiera produttiva dell’abbigliamento, ho deciso di dedicarmi alla passione che mi accompagna da sempre: la fotografia. Non mi interessa il collezionismo fine a se stesso, ma un percorso di creazione che trovi forme espressive nuove in quel bellissimo mare magno che definiamo arte. Senza scomodare un aggettivo complesso e controverso come “etica”, mi piace pensare che la moda possa uscire da un percorso lineare che va direttamente dalla esposizione al consumo”. E ancora: “ Mi muove l’ambizione di sfatare il concetto che quello che proviene da attività non strettamente legata alla tecnica abbia un valore minore e sia privo di qualità stilistica, e per questo che in questo progetto fotografico ho scelto solo foto scattate con lo smartphone. La mia è una dimensione che non può prescindere dall’essere artigianale. So bene che i numeri che contano sono quelli che provengono da altri tipi di produzioni; ma ogni volta che uno dei pezzi che ho immaginato, disegnato e fotografato prende forma, sono felice”. Ci sono i parenti di Porto Torres qui a festeggiarlo con un mare di “addetti ai lavori”, il fratello e i nipoti, tutti fieri del successo di questo “artigiano” sardo; cantava Claudio Lolli nel suo album del lontano 1976: “ Ho visto anche degli zingari felici”, io anche un artigiano sardo: felice.