IL CONCETTO DI NATURA NELLA NARRATIVA DI GRAZIA DELEDDA: AL PARLAMENTO EUROPEO DI BRUXELLES, PER CELEBRARE IL PREMIO NOBEL NUORESE

Angelica Grivel Serra al Parlamento Europeo di Bruxelles

di ANGELICA GRIVEL SERRA

Come portare uno sguardo inusuale e ancora efficace sulla figura di Grazia Deledda, sulla quale già splende un florilegio di consolidati studi profondissimi, a enuclearne ora la penna magistrale, quindi la personalità intensa e il fuoco vibrante?

Come posso indagare con occhio nuovo la sua letteratura, quell’arte di comunicare il modo in cui le cose evolvono in vita, diventano carne e sangue?

Tra gli innumerevoli atti che hanno consacrato la scrittrice a icona di attualità, scelgo di osservare il modo in cui Grazia racconta il concetto di natura. Tema sovrano in ogni sua trama, la natura è protagonista solo apparentemente silenziosa di tutto il procedere letterario dell’autrice.

Grazia Deledda parla di natura: ne descrive primariamente l’estetica, tratteggiandone ogni anfratto, dalla bellezza ancestrale alle impetuose degenerazioni. Ma in ogni sua opera, la natura primeggia in quanto motivo etico: mai risulta semplicemente adagiata sul descrittivo. Non solo incanto estremo, dunque, né furia distruttiva. Piuttosto, elemento morale. Perché, nel dire “natura”, Grazia Deledda non forgia mai il lemma nel senso di “ambiente”, parola che, nella sua accezione più letterale, contrassegna il mero “ciò che mi circonda” e che, per infelice slittamento semantico, nel corso della storia dell’uomo, pare aver assunto sempre più il significato di “poiché è attorno a me, l’ambiente è a mia disposizione, è pronto all’uso, riserva inesauribile di ciò che mi occorre”. Messaggio impostosi drammaticamente soprattutto nella contemporaneità.

Laddove invece Grazia Deledda persiste nel racconto della Natura. Due frammenti testuali lo dimostrano (dalle Novelle e da La madre):

“Di giorno, lo sfondo del cielo autunnale, con le sue tinte cangianti e le sue nuvole capricciose; di notte, la grande luna rossastra, le stelle vivissime, i fantasmi tremuli dei pioppi, riprodotti dallo specchio profondo del lago, davano all’isoletta un aspetto fantastico”;

e ancora “Metà della Sardegna si stendeva sotto il monte: quando il vento taceva, un silenzio indescrivibile era lassù, sotto quelle mostruose rocce” .

Ecco, con il suo cupo e biblico scrivere, Grazia Deledda ribadisce con costanza che la natura, per essenza, non è domabile. Né tantomeno al servizio dell’umano. E pertanto è del tutto indipendente dalla manipolazione individuale e collettiva: Natura esige il rispetto che la sua autonomia richiede. La scrittrice è rivoluzionaria anche qui. D’altronde, che lei sia pioniera di rivolgimenti e quindi di rivoluzioni, è fatto che ormai credo abbia lo statuto dell’ovvietà: Grazia Deledda fu, ed è, una eversiva.

Lo è perché fu educata esclusivamente dalla volontà di fare della letteratura la sua vita e dell’esistenza letteratura. Lo fu perché rovesciò tutti gli archetipi che riguardavano la condizione della donna nel frangente storico e culturale in cui visse. Lo è perché ‘quando cominciò a scrivere a 13 anni, fu contrariata dai suoi’, come lei stessa dichiarò nel discorso al conferimento del Nobel.

Ora mi chiedo: cosa devo fare io, da scrittrice prima di tutto sarda di 22 anni, per accogliere appieno il messaggio di cui Grazia Deledda si rende sommo paradigma, per cominciare io, in prima persona, a contribuire al ritorno a quel concetto primordiale di natura, oggi più che mai necessario?

Confido nell’esercizio di un principio che porto con me sin dall’infanzia, trasmessomi fortemente da mia madre, sarda e ogliastrina, culturalmente prossima a Grazia Deledda, e che nel lessico del mio quotidiano è stato ribattezzato ‘codice delle 4 D’. Ed è così costruito, secondo una precisa, ordinata consecutio: per prima la D di determinazione, poi la D di disciplina, la D del decoro, infine la D di dignità. Determinazione, disciplina, decoro, dignità.

Ecco: se le quattro D rappresentano per me un’attitudine morale, che pratico nella teoria come nella pratica dell’esistenza sin da quando ero bambina, in realtà ho scoperto di constatarne la presenza anche in Grazia Deledda, che ne fu incarnazione tanto in scrittura quanto nella vita.

Grazia Deledda è la determinazione del procedere a dispetto di tutte le voci critiche che cercarono si spargere sfaceli e veleno attorno a lei.

È la disciplina dell’estorcere storie da sé, dal mondo, dagli altri. Dalla natura.

È il decoro del suo costitutivo esser Sarda, Italiana, Europea.

E, naturalmente, è la dignità totalizzante. Da non riconoscersi solo per il cruciale Nobel.

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