di FILIPPO PACE
La fiducia nella scienza e nel progresso – totale e totalizzante – l’Europa la conobbe per l’ultima volta nell’Ottocento, benedetta anche dalla filosofia di Comte. Non si vuole con ciò negare quanto non siano mancati slanci di euforia e di ottimismo anche successivamente, quanto sottolineare che in letteratura, a ben vedere, dopo il riflusso, la caduta delle certezze, in seguito al Decadentismo, insomma, è sempre stato più difficile inventare mondi utopici. Il Novecento ha tenuto a battesimo, semmai, distopie che hanno segnato epoche e immaginario: Orwell, Crichton, Bradbury, Dick hanno lanciato il loro grido d’allarme ai contemporanei per arrivare a noi. I pericoli? L’alienazione e la manipolazione delle masse; l’intelligenza artificiale che sfugge al controllo degli uomini; la disumanizzazione et similia.
Le utopie – ed è facile pensare ai vari Thomas More o Campanella, tanto per evocare due fra i più autorevoli esempi in tale senso – non trovano spazio come in passato nella letteratura europea e, in particolare, in quella italiana. Soprattutto quelle rivoluzionarie. Questo è un aspetto interessante, specie se si pensa a quanti e quali eccezionali frutti ha dato vita il cosiddetto romanzo antistorico, vera e propria antitesi dell’utopia rivoluzionaria: I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo, I Viceré, I vecchi e i giovani, Il Gattopardo, Il giorno del giudizio… testimonianze corrusche che smentiscono qualsiasi fede nel progresso e nella scienza. Non stupisce che i vari Lampedusa, Verga, Pirandello e compagnia propongano tale visione pessimistica poiché da sempre ascritti alla categoria dei reazionari (semplifichiamo, ovviamente) ma stupisce notevolmente che la sostanziazione di trasfigurazioni di utopia rivoluzionaria sia particolarmente sofferta, se non proprio assente, negli scrittori che si riconoscono progressisti e, sostanzialmente, di Sinistra.
Dov’è l’utopia rivoluzionaria nei romanzi di oggi?
Questa domanda – e le riflessioni abbozzate che l’hanno preceduta – mi accompagnano costantemente. Anche i film che sono stati presentati all’ultima Mostra di Venezia non sono che il calco dei nostri tempi di crisi, e i temi della morte e dell’alienazione hanno attraversato numerose pellicole.
Ho dunque cercato l’utopia rivoluzionaria anche nell’ultimo romanzo pubblicato da Maggie S. Lorelli, Castelvecchi editore, ed è sulla scorta di tale ricerca che propongo una chiave di lettura relativa al libro della poliedrica scrittrice, docente, pianista e giornalista. Mi riferisco a The Human show. Titolo antifrastico, perché lo spettacolo che va in scena ha ben poco di umano ed è declinato in inglese, lingua che invade il periodare dell’autrice. E se fosse già questo un segnale di pericolo? La lingua italiana tarlata da termini inglesi come a evidenziare la condizione di subalternità che la cultura italiana (il codice espressivo, in questo caso, sarebbe la sua sineddoche) ha (o deve avere?) nei confronti di quella che produce l’immaginario (l’impero americano). D’altronde, la Roma rappresentata è ormai un teatro in rovina che mette in scena la sua gloria perduta e dal quale si vuole andare via. Ecco perché il protagonista Filippo Pace (giuro, siamo omonimi), ex librario malinconico e svuotato dalla morte di Anna, vuole partire. La città eterna ridotta a simulacro barbaro di sé stessa: non si passeggia più, il selvaggio riaffiora, così come il malessere che la rende invivibile.
Siamo in un futuro non molto lontano, in cui non si vive, ma si sogna di fuggire su Nexus (vi viene in mente Blade Runner?) e magari di incontrare la sensibile e triste Marya…
Il libro dialoga con il precedente dell’autrice, Automi, ma l’esito artistico è superiore e si configura come una ricognizione sofferta di alcuni fra i temi più attuali di oggi: l’intelligenza artificiale e la nascita delle emozioni; il pericolo che il sovrabbondante narcisismo inibisca l’amore verso gli altri; l’immaginario manipolato e asservito; la nascita del metaverso; i viaggi interstellari; la depressione come habitus di generazioni che navigano inconsapevolmente verso l’abisso. La prosa si muove con taglio ancipite fra l’indagine psicologica e la minuziosa ricognizione giornalistica (che denota quanto lavoro di ricerca vi sia dietro la composizione dell’opera) e il ritmo si mantiene costante, con improvvise impennate ellittiche dopo lo stupro di un automa ai danni di Marya, come se l’irruzione della violenza più brutale imponesse una maggiore propensione al non detto.
Tutti i personaggi del libro sono corrosi dalla solitudine, monadi angosciate che esperiscono fatalmente l’heiddeggeriana gettatezza nel mondo. Anche il sesso concorre e restituire tale dimensione plumbea e cupa del vivere: sebbene spesso rappresentato (a volte anche inconsapevolmente esibito) si pone sempre come delusorio, frustrante, alienante. In tal senso uno dei passi maggiormente stranianti e riusciti del libro si rivela l’amplesso fra due automi, di fronte ad un pubblico che osserva lo spettacolo con grottesca golosia. Il sesso, in The human show, può provvisoriamente tingersi di toni meno corruschi quando è associato all’acqua oppure se declinato attraverso cascami romantici che trascolorano nel sensualismo.
Ma, ritornando alla domanda iniziale, dov’è l’utopia rivoluzionaria?
Il mondo descritto da Lorelli è indubbiamente dominato dalle rivoluzioni (tutto è ‘rivoluzionario’: gli automi, i viaggi interstellari, le scoperte scientifiche), ma queste non portano mai ad un miglioramento della vita dell’uomo, né dal punto di vista emotivo né, soprattutto, da quello sociale. La scala gerarchica non varia: chi sta sopra comanda, decide, ha i soldi (ma è comunque infelice) e chi sta sotto sopravvive, subisce, sogna i paradisi artificiali che vengono preparati. Fantascientifici panem et circenses, insomma. Tutto cambia, ma niente cambia. La visione del progresso e della Storia che emerge da The human show ha questo sapore gattopardesco.
E allora: se l’utopia sociale e collettiva non trova realizzazione, nonostante la simpatia per gli ultimi da parte dell’autrice, e nonostante l’evidente culto della tolleranza nei confronti del diverso, qual è il contraltare positivo all’incubo presentato nel libro?
Qui sta il nocciolo: la rivoluzione è individuale. Parte dalla solitudine, dalla consapevolezza, dal desiderio di libertà. Dal non dimenticare le emozioni.
Non rivoluzione, niente simboli per cui lottare, ma una sorta di individualismo umanistico che forse ha nei libri tanto cari a Filippo Pace (il personaggio) la chiave per dare il senso all’essere, in una società disorientante come quella dei social.
Così, il libro diventa una parabola catartica sulla solitudine che è anche un invito a non omologarsi e a ribellarsi all’effimero: un atto di coraggio portato avanti con coerenza, passione e dedizione.