di SERGIO PORTAS
Tutto è esagerato nella mostra di Stefano Soddu nella chiesa sconsacrata di san Sisto. Intanto il sito, la chiesa forse fondata da Desiderio, re longobardo, rifatta nel seicento ai tempi del Borromeo è al Carrobio, dove cardo e decumano romano si incontravano quando Milano era capitale dell’impero. E qui intorno se ne trovano ancora vestigia sotterranee un po’ dappertutto, poco più innanzi le imponenti colonne di san Lorenzo a farne testimonianza imperitura ancora oggi. Più o meno distrutta dai bombardamenti alleati nell’ultima guerra fu Francesco Messina che ebbe l’idea di barattarla a suo cenotafio personale col comune meneghino: io ci metto i soldi per rimetterla in piedi, tu me la lasci in comodato d’uso sino alla mia dipartita da questo mondo. Te la renderò colma dei miei lavori, delle mie statue e ceramiche e dipinti e disegni. Francesco Messina, per i non addetti ai lavori, fu uno dei più grandi artisti dello scorso novecento, nato a inizio secolo in un povero paesino del catanese dal nome fiabesco (Linguaglossa), seguì la famiglia poverissima a Genova, il padre voleva “emigrarsene all’America” ma non trovò il modo (e i pochi soldi) di farlo. Per il resto tutto fece il genio del ragazzo che imparò i rudimenti dell’arte scultorea “a bottega” (leggi pagato per il lavoro di tutti i giorni con un piatto di minestra e poco pane). Finì a Brera e ne divenne direttore, facendo schiattare di rabbia un altro grandissimo del periodo: Arturo Martini, che pure era amico suo. Poi, scontata l’onta di aver vissuto il ventennio fascista da protagonista culturale, si guadagnò l’ammirazione del mondo coi suoi lavori di scultura, e non solo (scriveva persino poesie, anche belle). Tocca citare tra i cento lavori famosi il bronzeo cavallo morente della Rai, almeno la Santa Caterina da Siena ora sul Lungotevere di Castel Sant’Angelo, la statua di papa Pio XII in Vaticano.
Questo suo museo è di norma zeppo dei suoi lavori, trasferiti per ora nella mostra romana di Villa Torlonia. E qui inizia il processo di cui vado dicendovi: a Maria Fratelli, museologa, viene in mente di usare questi “immensi spazi” resosi liberi, per la mostra del Soddu. Questa Maria è una di quelle signore milanesi con la erre alla francese, che da sempre si occupa d’arte per il Comune, scrive una quantità spropositata di libri, è presidentessa della “Casa della memoria”, un’istituzione che per Milano rasenta la santità laica. Si può vederla su You Tube mentre legge parti del libro italiano “più bello del mondo”: la Costituzione uscita dopo il disastroso ventennio fascista e l’ultimo massacro dei sapiens a livello mondiale (sorella Giorgia non se ne abbia a male se sono d’accordo). Usa a pensare in grande, a sfidare le consuetudini per quello che valgono, usandole a molla del cambiamento intelligente.
I risultati spesso sorprendenti. Come un uovo Fabergè di ciclopiche dimensioni dalla struttura a matrioska (quelle vere contenevano anche gallinelle d’oro con occhi di rubini) la chiesa di san Sisto si spalanca per ospitare il ferro adattato ad arte di Stefano Soddu. Checché lui ne dica, il legno sarebbe molto meno duttile, queste grandi sculture vengono poste a dialogare con gli spazi normalmente occupati dalle opere di quel massimo artista che è stato Messina. Quasi a ricordo di quello che è e domani ancora sarà, diverso da oggi, alcune sue ”ballerine” dipinte a colori pastello. Sono qui ancora a presidiare il perimetro. Nè sfigurano a fianco delle 24 grandi opere che sono state scelte per la mostra odierna. Soddu, cagliaritano con parenti a Sarramanna, nasce nel 1946, le colate di ferro le conosce da sempre che il babbo, dirigente d’azienda, lui e i suoi due fratelli in tempi in cui la “prevenzione d’infortuni” era concetto al di là da venire, li ha sempre portati con sé ad assistere a quello spettacolo che più assomiglia a una domestica “lava di vulcano”: la colata di ghisa incandescente che esce dai forni “Bessemer”, dove carbonio e ferro a 1300 gradi si uniscono a formare acciaio, matrice della modernità come la conosciamo.
Cagliari dunque all’inizio per i Soddu, famiglia “bene”, Stefano non proprio innamorato della scuola, eppure una volta arrivati a Milano riuscirà a laurearsi in giurisprudenza. Laurea che tenterà di usare per un dignitoso lavoro da “dirigente”, prima di farsi completamente ammaliare dalla passione che da sempre lo tormenta: l’arte. Complice indispensabile il suo amore giovanile che si perpetua tutt’ora per Gabriella Brembati, che non a caso dirige a Milano una galleria d’arte: la “Scoglio di Quarto”. Dove Stefano, e ora anche il figlio Filippo, sono di casa. I tre erano presenti a Lula il 25 aprile scorso per la quasi inaugurazione del “Mec di Lula”, il costituendo museo d’arte contemporanea, dove ci sarà anche un’opera di Stefano: sempre un ferro con crepa. Con loro, dicono i giornali locali, anche la “famosa” Maria Fratelli. “Geometrie del ferro” si chiama l’antologica milanese, le opere realizzate tra il 2000 e il 2019 sono capaci di una voluta e ricercata antinomia nel riuscito tentativo di coniugare la grande presenza scenica del materiale trattato con un effetto finale di leggerezza estrema.
Nelle installazioni esposte è ben evidente la base geometrica che le sottende, ed altrettanto evidente che il gesto informale che l’artista inserisce, apparentemente disarmonico, che contrasta coll’insieme, è volto a dar loro una dimensione di poesia, riconoscendo loro fin la possibilità di un’anima. “Anima gialla” , esposta per la prima volta all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles nel 2004, è una scultura imponente (200X160 cm) composta da 64 formelle quadrate in acciaio disposte una accanto all’altra sul pavimento, attorno a un contenitore del medesimo materiale ripieno di polvere di pigmenti gialli.
Le cinque “Celle dell’anima” sono del 2000 e paiono seguire il medesimo schema, sempre disposte sul pavimento, contenenti una polvere di colori diversi che deborda su di un medesimo lato: il rosso, il nero, il giallo, il bianco e il verde, disposte dinanzi a un pannello bianco con appesi tre grandi dischi di ferro “con crepa” da cui si irradiano i “Raggi dell’anima”. Ben visibili anche le fenditure delle 5 coppie di grandi ruote mollemente adagiate su di un tappeto rosso, che le “ballerine” di Francesco Messina, ieratiche sui loro piedistalli, sembrano adocchiare con un qualche sospetto. Davanti ad esse , in occasione dell’inaugurazione della mostra, la soprano Silvia Colombini ha “giustapposto” ( usiamo la locuzione che lei preferisce) il lied di Franz Schubert su testo di Goethe “Gretchen am Spinnrade”, l’affannato canto di Margherita all’arcolaio turbata per l’amore per Faust.
L’artista mira ad ottenere un effetto di sinestesia (dal greco: percepire, sentire insieme) e ci riesce mirabilmente, persino nell’evocazione di determinati colori suggeriti dal canto: “Il mio amore è verde” (Mein Liebe ist grun) di Brahms , scritto da Robert Schumann, o il bianco profumato del gelsomino di una canzone cinese che aveva colpito anche Puccini durante la composizione della “Butterfly”. La Colombini è capace di cantare in undici lingue diverse, per lei il giallo è colore dell’amore, di sabbie dorate e di amore lontano parla la canzone giapponese di tale Murashita, come giapponese è la pianista che qui l’accompagna al pianoforte: Asako Watanabe, che ha iniziato a pigiare i tasti bianchi e neri dello strumento sin dai tre anni d’età. Ne risulta una sorta di estraniamento che dura i 20 minuti della “performance” canora, in cui le opere esposte hanno partecipato con la loro “solidità”, rifiutandosi di scomparire dinanzi alla dolcezza del “bel canto”. Sono state “giustapposte”.
Roba che allo “Scoglio di Quarto” fanno spesso, anche con letture di poesie. Che scrive anche Stefano. Lui in verità si cimenta anche con la prosa, nel suo ultimo “Pedramaribentu” è tutto il suo amore per la Sardegna, ma anche in “Shanghai”, un bastoncino per ogni ricordo, un libriccino uscito nel 2013, non ha paura di mettersi a nudo e di esternare le sue fragilità. La sua eterna difficoltà a imparare a memoria le poesie, il nome delle persone, borbottando qualcosa quando deve presentare un amico a un amico. Cantare a messa intruppato nel coro, sperando che nessuno si accorga di quanto è stonato. Insomma Stefano benché abbia sculture in non so quanti musei non se la tira più che tanto. Come lui, siamo dello stesso anno, ho frequentato a Cagliari la spiaggia del Poetto, nei nostri primi cinque anni, quando la sabbia era così bianca che gli occhi bisognava serrarli sino a lasciare una fessura, per tema d’accecamento, che il sole vi rimbalzava furioso.
I salvagenti neri di camere d’aria dei camion. E un profumo di salmastro che tutto avvolgeva sparso a profusione da un mare che gareggiava e vinceva con l’infinito. Giusto settanta anni fa, è passata una vita. Che comunque Stefano non ha nessuna intenzione di cambiare, mantenendo una curiosità progettuale che lo spinge a sperimentare ogni giorno che passa materiali i più strani ed eterogenei, mischiandoli e assemblandoli a stupirsi dell’effetto ottenuto. Ne fanno fede le opere esposte nella seconda e contemporanea mostra allo Spazio Studio Quintocortile di viale Bligny: “Nuove Sperimentazioni 2021-2022” a cura di Alberto Barranco di Valdivieso. Cristalli, Paesaggi, Rovine. Sedici opere che il catalogo chiama “polimateriche”, “pittosculture” su lamine di compensato sulle quali Soddu ha applicato cristalli di rocca, carboni, legni, polveri. Paesaggi della mente appesi ad applicazioni metalliche. Sculture in terracotta dipinta e ferro. Vite parallele le nostre ( non me ne voglia Plutarco): nati nel Campidano di Cagliari a guerra appena finita, gli occhi pieni di meraviglia per una Sardegna madre che ci pervadeva, rapiti (dalle rispettive famiglie) da piccoli in Continente, abbiamo continuato a cercare, estranei in un mondo alieno popolato da barbari che parlavano solo in italiano, le sensazioni di quel primo mondo perduto, un’Atlantide personale dove, da migliaia di anni, i pastori fanno pascolare i loro greggi all’ombra di turrite costruzioni di pietra, e felicità bastante era al mattino bere il latte tiepido munto da poco, che ti impiastrava labbra e mento di bianco, e in parte colava sul bavaglino ricamato a punto croce a colori vivaci. Intingendoci dentro fette di pane abbrustolito, che ancora conservavano il fuoco del caminetto.
Grazie, un bellissimo articolo nel quale mi riconosco pienamene
Ciao Ste,bravo!
Complimenti, bravo!👍👏