di GIANRAIMONDO FARINA
Il capitolo ottavo delle “Grandi Utopie sulla Sardegna”, affronta l’ultima riflessione storico- economica e politica della disamina effettuata da Giuseppe Sanna Sanna in merito ai grandi problemi (allora come ora) contemporanei della Sardegna. Si tratta della questione ademprivile. Osservando, quindi, con occhio scientifico e critico l’intera opera monografica dell’ex deputato anelese, ben si può constatare come essa sia stata organicamente e sapientemente costruita. Individuata, meglio di altri suoi contemporanei, la secolare questione sarda, egli è riuscito, poco prima di morire, nella seconda metà del XIX secolo, ad affrontarne i nodi in ogni loro aspetto. Il tutto amalgamando bene sia le doti di sagace e battagliero giornalista sia quelle, poco conosciute, di pensatore economico (motivo per cui, su decisione di due illustri Società scientifiche come la SISE e l’AISPE è stata da poco redatta dal sottoscritto un’apposita nota sul grande uomo anelese per il prestigioso ” Dizionario degli Economisti”, monumentale opera “in fieri” e, a breve, in fase di pubblicazione). Si è partiti dalla base: la questione della continuità territoriale attraverso i problemi dei trasporti interni ed esterni, dovuti anche allo sviluppo ed all’implementazione dei porti isolani. Si è affrontato il “cuore” e “centro” della questione sarda connessa con quella demografica e si è giunti, ora, alla “sostanza”: la questione ademprivile, i cui complessi strascichi permangono tutt’ora. Sanna Sanna, con la chiarezza espositiva che lo contraddistingueva, frutto anche della professione e degli studi svolti, è riuscito in un compito arduo: rendere chiara e comprensibile una problematica atavica difficile da districare persino agli “addetti ai lavori”. Ebbene, quest’ultima e decisiva parte delle “Grandi Utopie” si presenta ben collegata, per essere spiegata, con gli avvenimenti ed i processi storico- legislativi e parlamentari ad essa contemporanei ed in cui era anche profondamente coinvolto Sanna Sanna. Prima di addentrarci nell’analisi critica storico-economica di quest’ultimo passaggio, occorre, però, fare un “passo indietro”, cercando, prima, di spiegare l’origine dell’istituto dell’ademprivio e, poi, di illustrare meglio il dibattito giornalistico e politico pregresso che aveva accompagnato in Sardegna questo tentativo di riforma iniziato nell’VIII legislatura del Parlamento subalpino, prima d’Italia, dopo (1861- 1865). Tentativo di riforma al quale non poteva non rimanere estranea una intelligenza come quella del deputato goceanino.
Partiamo, innanzitutto, dall’ademprivio o, meglio, riprendendo uno studio accurato di G.G. Ortu, che, appunto, partiva dal cattaneano “squallido” ademprivio (G. Ortu, “Carlo Cattaneo e Garibaldi. Federalismo e Mezzogiorno “, a cura di A. Trova, Carocci 2001, pp. 301-336). Il termine, con molta probabilità, deriva dal catalano “adempriu”, ed indicava il diritto riconosciuto a tutti i componenti la comunità del paese, di fare legna, di raccogliere ghiande, di attingere acqua, di mettere gli animali al pascolo, di seminare sulle terre comuni del proprio territorio (quelle demaniali, quelle comunali e quelle baronali) ed anche su quelle private. Si trattava di un diritto molto antico, nato dalle stesse esigenze che la tribù, il clan, il villaggio aveva sentito, di assicurare i mezzi minimi di sussistenza a tutti i propri appartenenti. La gestione collettiva della terra fu, infatti, non soltanto il tratto caratteristico di tutte le antiche società, ma il tratto più originale di tutto il sistema della Sardegna rurale sino ad almeno il 1850.
In questo senso, occorre fare una digressione più specifica propria in merito alla gestione di questi diritti di ademprivio, destinati “ab adimplendis vitae usibus et necessitatibus”, come li definì Giovanni Battista Vico, cioé destinati a soddisfare le esigenze più vitali degli abitanti. Per riguardo a questi diritti, quindi, nel Regolamento 24 febbraio 1839 del Regno di Sardegna, emanato in base all’editto 12 maggio 1838, con cui si stabilivano le norme per la distribuzione dei terreni feudali fra i privati, i Comuni e la Corona, si statuì, all’art. 19, quanto segue: “Le selve ed i boschi, le miniere, gli stagni e le paludi sono di loro natura demaniali: saranno però conservati nelle selve e nei boschi, a favore di Comuni utenti, gli ademprivi di cui i medesimi vi hanno finora goduto”.
In base a ciò, con riferimento proprio ai terreni assegnati al Demanio, quest’ultimo fu, ulteriormente, oggetto di un’altra, controversa legislazione, il Regolamento forestale del regno sardo del 4 novembre 1851. Per la precisione, l’art.66 di tale disposizione puniva con la multa fino a 50 lire sarde il furto di legname nei boschi di proprietà privata e così il taglio delle piante, il pascolo dei bestiami senza licenza del proprietario o dell’usufruttuario dei boschi stessi e qualunque operazione che potesse considerarsi violazione della proprietà altrui. Si eccettuava, però, il caso in cui le operazioni suddette fossero eseguite da persone che avessero negli stessi boschi i diritti di ademprivio. A detta di un attento studioso di storia economica sarda, come il ploaghese Giovanni Maria Lei-Spano, autore dell’importantissima e pioneristica opera, rifinita nel 1922, quando si trovava magistrato proprio a Monza, “La questione sarda” ( di cui, quest’anno, nel silenzio generale, ma non del circolo Sardegna di Monza, si ricorda il centenario), questa eccezione legittimò il diritto di distruzione nella terra ove veniva esercitato.
La legge 15 aprile 1851 introdusse nell’ isola l’imposta prediale abolendo molti contributi gravanti sul suolo, fra cui le decime e la comunione dei pascoli nelle terre ridotte a coltura, ma non colpendo, però, gli ademprivi che, in base agli artt. 15 e 17 della medesima legge rimasero sempre in vigore.
Lo stesso Lei-Spano si trovò ad osservare che sebbene il contenuto del ricordato Regolamento del 24 febbraio 1839 avesse teso, con l’abolizione delle terre feudali e la loro chiusura, a spingere le popolazioni al dissodamento degli stessi fondi, esso non avrebbe potuto raggiungere questo scopo proprio a causa dell’esistenza di diritti di promiscuità, come quelli d’ademprivio, i quali erano serviti, invece, a legittimare la distruzione delle selve demaniali considerate di nessuno e di tutti, proprio perché statali. Lo stesso studioso, autore di una lettura storica e storiografica differente rispetto a quella tradizionale, osservò, nel 1922, che si sentiva sempre più il bisogno di abolire questi diritti di ademprivio che si opponevano al progresso della Sardegna. E per farlo intervenì nuovamente il governo con il regolamento approvato con R.D. 10 aprile 1854, emanato per la riconosciuta necessità dalla servitù degli ademprivi, i boschi e le selve appartenenti al demanio statale in Sardegna.
Tuttavia anche l’applicazione di questo regolamento, come constaterà Alessando Marangoni nella sua voce «Ademprivi», curata nel 1884 per il Digesto italiano, non fece che accrescere la massa già enorme dei beni comunali devastati dal pubblico. Il Regolamento, quindi, a causa delle lentezze con cui avvennero denunce e consegne, e per le pretese esagerate dei comuni per alienarsi di questi diritti, non ebbe l’effetto desiderato. Lo Stato, però, non vide l’ora, d’altro canto, di liberarsi di questi beni ex-ademprivili attribuiti al Demanio: essi, infatti, rimasero infruttuosi e non resero nulla, con addirittura, nel 1860, una sovraimposta comunale e provinciale gravante di 45000 lire che le finanze del neonato Regno d’Italia avrebbero dovuto ripianare.
Un altro interessante tassello si aggiunge alla figura di Sanna Sanna.
Grazie, Gianraimondo Farina!