di MARCO PIRAS-KELLER
La lettura di un intervento di Paolo Pulina del 22 luglio sul sito della Fondazione Sardinia mi stimola a ripescare alcune mie riflessioni di oltre 30 anni fa, quando ero attivo al Circolo dei sardi di Bologna, e che fissai nel periodico che pubblicavamo, Sa Stria. Le riflessioni di Pulina sono attuali e, necessariamente, fanno riferimento a situazioni diverse da quelle mie di 30 anni addietro, quanto alla figura sociale del sardo di fuori, al ruolo della Regione Sardegna e a tanti altri aspetti messi in evidenza. Nondimeno, ritengo possa essere di qualche interesse, riandare alle considerazioni sul tema dei sardi di fuori che poteva fare nel passato un attivista delle associazioni dei sardi in Italia.
Il testo che propongo è abbastanza fedele rispetto alla versione del 1990. Di questa distanza temporale dovrà tenere conto chi legge anche perché ci sono stati in questi 30 anni cambiamenti molto forti. Qualcosa è cambiato anche nelle regolamentazioni regionali riguardanti i sardi di fuori. (Lucerna, agosto 2022)
S. Giorgio di Piano è un centro a nord di Bologna, sulla strada per Ferrara, con una numerosa comunità di sardi. All’interno di una festa popolare gestita dalla comunità sarda locale ha attirato la mia attenzione una coppia di ragazze di forse 15-16 anni, chiaramente appartenenti alla tribù dark, come manifestava l’abbigliamento e l’acconciatura dai capelli alle scarpe, che ballavano il ballo sardo con la disinvoltura e doverosa compunzione di chi lo ha imparato da bambino, come cosa propria, naturale. Non potevano essere che sarde. In effetti, i genitori lo sono; loro sono nate e cresciute a S. Giorgio di Piano.
Forse che c’ è qualcosa di strano o di stridente nel fatto che due dark, figlie di sardi, nate in Emilia, ballino il ballo sardo con la stessa naturalezza con cui può farlo una ragazza qualsiasi ragazza in una qualche occasione in Sardegna?
Alla ricerca dei tratti distintivi
L’ ‘avvenimento’ di cui parlo si può enunciare in vari modi, il che è lo stesso che dire che lo si può leggere in vari modi, o, ancora, che può avere vari significati:
– ‘due ragazze ballano il ballo sardo’
– ‘due ragazze sarde ballano il ballo sardo’
– ‘due dark ballano il ballo sardo’
– ‘due ragazze dark sono sarde’
– ‘due dark sarde ballano il ballo sardo’
Ma potrebbe anche essere:
– ‘due ragazze di S. Giorgio di Piano ballano il ballo sardo’
– ‘due dark di S. Giorgio di Piano, figlie di sardi …’ e così via fino ad esaurire tutte le possibili combinazioni tra i tratti distintivi che entrano in ballo: si potrebbe provare a farlo come gioco a incastri.
Quali sono, dunque, i tratti decisivi per fondare l’identità di queste ragazze? Il luogo di provenienza dei genitori? Il luogo dove sono nate e cresciute? La frequentazione, per quanto saltuaria, del luogo di origine dei genitori, andando in Sardegna ogni estate? Che altro? Questi e altri elementi combinati insieme in varia percentuale? Lasciamo le domande in sospeso e vediamo un’altra situazione.
I sardi e il doppio
Una coppia di nostri amici sardi, sulla cinquantina, dopo vent’ anni di lavoro a Bologna, verso il 1985 tornano in Sardegna con un loro figlio per impiantare un’attività di ristorazione; un altro figlio che più dell’ altro identifica la sua matrice culturale nella Sardegna sceglie di rimanere a Bologna. Rientrare in Sardegna è stato da sempre il loro obbiettivo. Ancora non è stato allacciato loro il telefono (né la corrente elettrica, dopo mesi!), per cui, per sentire come vano le cose, chiamiamo al posto di telefono pubblico vicino, chiedendo di parlare con i signori ‘tali’.
«Chi? – rispondono all’ altro capo del filo – I Bolognesi?»
Quando torniamo in Sardegna – è esperienza comune – siamo ‘i bolognesi’, ‘i milanesi’. Qui a Bologna, Torino, Milano, siamo ‘i sardi’; a Zurigo, a Düsseldorf, siamo i sardi o gli italiani, dipende dalla conoscenza che uno può avere dell’articolazione regionale e etnica dello Stato italiano.
Ciò che si presenta e ritorna come elemento fisso in queste considerazioni è il doppio. In ogni caso è evidente, in chi sta fuori della propria terra per un certo numero di anni, l’acquisizione di nuovi comportamenti, l’abbandono di altri, la sintesi di certi altri ancora; insomma, il costituirsi di una nuova identità complessa o più articolata, se si vuole. Si badi che la coscienza della propria identità di origine, della sardità, in questo caso, è più sviluppata tra i sardi che sono fuori della Sardegna perché viene ad opporsi (nel senso strutturalista) a fare i conti concretamente, dal punto di vista comportamentale, linguisticamente, eticamente ecc. con una realtà altra, coinvolgente, incalzante, in quanto è quella dove si vive quotidianamente.
Ma torniamo alle dark. Quanti dark ci sono a Cagliari, Sassari, ma anche nei piccoli centri della Sardegna? Qualcuno di questi, probabilmente ballerà anche il ballo sardo. Ma è un qualcosa d’altro rispetto a una ragazza dark nata e cresciuta in un piccolo centro padano, pur se da genitori sardi.
Cosa ne facciamo di questi sardi?
La domanda è diretta particolarmente ai sardi di Sardegna, ai politici, agli amministratori, agli uomini di cultura sardi che avrebbero potere di elaborare politiche, strategie economiche e culturali e che agiscono senza tenere in conto come soggetti e interlocutori, o come variabili, i sardi fuori di Sardegna.
«Ma sono poi sardi?» si chiederanno. Quando anche io, banalmente, quasi stupidamente, ho chiesto alle dark in questione se si sentivano sarde o meno, mi hanno risposto, se non con aria di sufficienza, quasi con comprensiva commiserazione, che, certo, tali si sentivano. Non è cosa necessariamente scontata.
Ci sono anche quelli che nascondono la propria origine, che si vergognano della propria lingua evitando di usarla e provando fastidio se qualcuno si rivolge loro in sardo; e, addirittura, scimmiottano l’italiano del luogo dove vivono, spesso con incredibile abilità mimetica nel cogliere e riprodurre le pur minime sfumature della fonetica locale. Cose risapute, noiose da ridiscutere, ma di cui, comunque, tenere conto.
Due esempi non bastano certo a costruire un’immagine esauriente del soggetto che è il sardo che vive e lavora fuori della Sardegna, l’ immagine del suo mondo.
Guardiamoci intorno. Prendiamo il panorama vario dei sardi di Bologna che conosciamo, che ci vengono in mente: il professionista affermato, l’artigiano più che benestante, quello meno benestante, la donna di servizio sola, quella sposata col marito artigiano o operaio, i postini, i ferrovieri, i commercianti più o meno ‘sistemati’, gli operai, i poliziotti, carabinieri, guardia carcere, guardia di finanza e la numerosa famiglia degli studenti, ormai quasi tutti studenti-lavoratori (o meglio lavoratori-studenti?): arrivati nel Continente per laurearsi in quattro-sei anni, finiscono per non laurearsi mai o per laurearsi in dieci anni. Moltissimi finiscono per non rientrare mai più in Sardegna.
Tutta questa varia popolazione che, si è detto, viene definita come gli emigrati. Vengono solitamente esclusi dalla definizione gli studenti ed ex tali, nonché, spesso, i professionisti; questi perché ricchi, (mentre l’ ‘emigrato’ è povero per definizione), quelli perché non hanno lasciato la Sardegna per motivi di lavoro. Allo stesso tempo, quando si vuole abbracciare comodamente in una definizione tutti i sardi che sono fuori della Sardegna si parla di emigrati sardi.Ma fino a che punto questa parola soddisfa la necessità di presentare un mondo così vario, di diverse classi sociali, con implicazioni così complesse?
L’emigrato secondo la Regione Sardegna.
Faccio un breve inciso sulla curiosa accezione che ha – ma forse qualcosa, ultimamente è mutato – la parola presso il Fondo Sociale della Regione Sardegna, l’ente fondamentalmente assistenziale dipendente dall’ Assessorato al lavoro. Emigrato viene considerato chiunque abbia risieduto per almeno cinque anni in un comune della Sardegna e abbia poi trasferito la residenza in un altro comune non della Sardegna. Supponiamo che un qualunque cittadino italiano si trasferisca per cinque anni in Sardegna per un qualunque motivo e poi torni al suo luogo di origine o in qualunque parte dello stato italiano: è un ‘emigrato sardo’ e lui e i suoi figli hanno accesso a tutte le eventuali provvidenze della Regione a favore degli emigrati sardi. All’opposto, se uno studente universitario sardo va in un’università del Continente e viene pubblicato un bando di concorso per borse di studio a favore di figli di ‘emigrati’ sardi, anche se lo studente è lui stesso un sardo che lavora fuori della Sardegna, non ha diritto alla provvidenza perché non è ‘figlio di emigrati sardi’. Ne avrà diritto, invece, il figlio del piemontese, emiliano o che si voglia, che ha avuto la residenza in un comune della Sardegna per cinque anni. Non avrà diritto neanche il figlio di un qualunque dipendente da ente pubblico, anche se sardo di nascita emigrato. Per la legge regionale sarda il figlio di un dipendente statale che lavori fuori della Sardegna, non ha diritto, per es. neppure a mandare il figlio nelle colonie estive finanziate dal Fondo Sociale. Chiaramente c’ è un qualcosa di discutibile nella legge.
Ma, al di là di quello che può essere l’aspetto della definizione e individuazione giuridica della figura ‘emigrato’, a me preme qui la sua individuazione culturale.
Abbiamo bisogno di parole nuove.
Forse possiamo ancora parlare di ‘emigrazione’ riferendoci genericamente a un fenomeno che continua a esistere e a interessare, tra gli altri, i sardi, ma possiamo farlo a patto che lo intendiamo in modo diverso da quella che è stata l’emigrazione ‘storica’ dei sardi. Possiamo, se si vuole, usare ancora il termine di emigrato ma non certo pensando all’immagine di dieci vent’anni addietro; e soprattutto, possiamo farlo a patto di avere maturato la coscienza che questo termine non è sufficiente a descrivere e comprendere interamente il soggetto culturale e sociale che è il sardo che vive in territori diversi da quello d’origine.
Ieri era tratto caratterizzante la ricerca del lavoro, il soddisfacimento delle necessità primarie. Anche oggi, in buona parte è quella forse la condizione dominante, ma è un fatto che il ‘vecchio emigrato’ si è ‘sedimentato’, si è creato un ambiente in cui vive, lavora, agisce, diventa elemento funzionale di tale ambiente (sia esso inserito in senso positivo, sia emarginato), ha figli nati e cresciuti fuori della Sardegna; uno dei coniugi può non essere sardo. Il rapporto di questo soggetto col luogo è qualcosa di diverso da quello dell’emigrato di tempo fa. E poi ci sono questi figli, anch’essi sardi, ma a volte anche no, quando diventano subito milanesi, torinesi, romani ecc.
Come si può parlare di ‘emigrati’ e comprendere in un termine così connotato, una realtà sociale, culturale così articolata? Un termine che richiama una realtà mutata, assai più articolata rispetto ai decenni precedenti. Continuare a usarlo in questo modo mi sembra fuorviante o, perlomeno inadeguato.
Insomma, mi pare che questo termine non sia più operativamente utile per descrivere la realtà attuale. Perlomeno è molto riduttivo e inquadra solo una minima parte della realtà che ci interessa, perlopiù legata a una figura sociale di altri tempi. E se vogliamo capirla meglio, questa realtà, dobbiamo cercare anche parole nuove che siano adatte a descriverla.
Dite alla ragazza dark che è un’ ‘emigrata sarda’. Non è assolutamente vero! Anche se è una sarda fuori della Sardegna. E anche dire che è figlia di emigrati sardi è poco caratterizzante e troppo parziale come definizione: ci dà un’informazione poco rilevante e troppo sbilanciata ai fini di una sua individuazione come soggetto culturale. Se si sente sarda, diremo che è sarda. Ma appartiene, comunque, a un mondo che è qualcosa di altro dalla Sardegna; è un fatto certo anche questo.
Potremmo, provvisoriamente chiamare questa realtà ancora tutta da studiare, questa condizione così diversificata e composita, la realtà della diaspora dei sardi anche se ‘diaspora’ rimanda a storie di popoli diversi e con vicissitudini diverse da quelle del nostro popolo. E già in una rivista nata anche quella all’interno del Circolo sardo di Bologna a cavallo degli anni ’80 – ’90 avevamo proposto il nome in sardo di su disterru. Più comodamente e in maniera neutra si potrebbe parlare di sardi di fuori come altra componente del popolo sardo insieme ai sardi di dentro o di Sardegna.
Su disterru. Sardi di fuori
Distérru è un sommovimento; vuol dire anche ‘esilio’, sulla base dello spagnolo ‘destierro’, un termine che in questo senso troviamo anche in preghiere in sardo a proposito dell’‘esilio’ terreno del cristiano. Ma, al di là del fatto che queste accezioni possono avere un che di retorico e al di là del fatto che ‘diaspora’ non ha del tutto l’accezione che noi le attribuiamo, diciamo che diaspora e distérru le assumiamo provvisoriamente come parole e concetti che ci aiutino a definire, a descrivere, capire quella sezione di realtà di cui veniamo parlando. Non è certo una realtà solo dei sardi questa di cui parliamo. A grandi linee sarà simile per altri popoli che vivono una condizione simile. Non sarà, in ogni caso, mai uguale del tutto. Ecco la necessità di un’attenzione specifica e particolare.
Si è detto precedentemente che la coscienza della sardità, di come siamo, di come pensiamo di essere, di come crediamo che ci vedano gli altri, è molto maggiore nei sardi di fuori. Aggiungiamo che, normalmente, questi sono molto attenti a tutto ciò che succede nella terra madre. Avvertono i cambiamenti, seguono le vicende politiche, economiche, la cronaca, le notizie del paese o città da cui provengono, di amici e parenti, anche del vicinato. Questo dato di fatto è molto importante per disegnare l’immagine del sardo di fuori. In spazi di organi di stampa, nelle trasmissioni di radio locali delle varie città d’ Italia gestite da gruppi di sardi, pur se non sempre con continuità, i sardi di fuori hanno spesso fornito e prodotto attente analisi di ciò che succedeva in Sardegna, hanno dato informazione non solo sui fatti contemporanei, ma sulla storia passata, sulle forme d’arte, sulla lingua e letteratura ecc.
Le associazioni dei sardi in Italia e nel mondo.
Si pensi al notevole fenomeno dei circoli e delle associazioni dei sardi in Italia e nei vari paesi d’ Europa e del mondo. Hanno molte carenze quanto a funzionalità e capacità propositive e organizzative, forse, ma non si può negare il grande ruolo che svolgono e che potrebbero svolgere – non di ‘gestione della nostalgia’, si badi (ciò che pure qualcuno fa, forse perché non in grado di gestire altro) – nel mantenere aperto continuamente il dibattito tra i sardi dell’Isola e quelli di fuori, nel portare un confronto tra la Sardegna e la realtà d’ arrivo, nel farsi promotori della diffusione dei prodotti sardi in Italia e negli altri paesi europei, nel contribuire a un dibattito, insieme con i sardi di dentro, sulla necessaria ricomposizione del popolo sardo. Si tratta di associazioni molto diverse tra loro – circa un centinaio solo in Europa – la maggior parte affiliate alle Federazioni dei circoli che ricevono sovvenzioni dal Fondo Sociale della Regione Sarda, altre no; alcune con ruolo trainante rispetto alle altre; certe a alti livelli d’impegno politico, sociale e culturale, altre limitate a attività ricreative, cene sociali ecc. Non pochi di questi circoli riescono a assumere una capacità contrattuale nei confronti degli Enti Locali delle città ospiti o, comunque, a essere un interlocutore e perfino a esprimere amministratori nei luoghi di residenza.
Non si vuole tracciare un quadro idilliaco di queste associazioni, come si vede. Molte sono le pecche, la più grande delle quali, quando si presenta, ci pare, sia quella della riproduzione entro le associazioni, dei modelli di spartizione dei poteri, d’influenze secondo quello che è lo scacchiere dei partiti politici.
Una maggiore collaborazione e confronto tra Governo Regionale e rappresentanze dei sardi della diaspora, potrebbe fare di queste associazioni dei centri culturali di prim’ordine, di vita associativa, di diffusione dei prodotti materiali e spirituali della Sardegna. Ma mentre i sardi della diaspora rivendicano da tanto questo ruolo, la sordità dei governi regionali è assoluta.
Se passiamo dall’ altra sponda del mare, quindi, l’ottica è assai diversa dalla visuale che si ha dal Continente. Si prendano, per esempio, i prodotti a stampa pergli emigrati, provenienti dalla Sardegna, organi dei vari assessorati o di enti più o meno degni di credito: non potrà sfuggire l’arretratezza, il paternalismo e il pressapochismo, nonché il piglio superficiale e – questa volta sì – di gestione della nostalgia (ma torneremo presto e più a fondo su quest’ ultimo aspetto).
Insomma, il quadro che ne risulta potrebbe essere molto migliore: quanti fondi e intelligenze si potrebbero spendere meglio. Interrompo qui il discorso, bruscamente, contando di continuarlo, ma, soprattutto, attendendo altri punti di vista, approfondimenti e proposte che mirino a valorizzare le intelligenze e le capacità dei sardi di Sardegna (o sardi di dentro) e dei sardi di fuori, a farle procedere concordi e insieme per la crescita dei sardi e della Sardegna. (Bologna 1990).
Ho tutti i numeri, meraviglioso!