di SERGIO PORTAS
Adzovios a Lùvula, incontri a Lula nel centro di Milano, che più centro non si può, visto che per arrivare alla fondazione Matalon in foro Bonaparte sono cinquanta metri dalla metro che ti porta anche al castello degli Sforza, e che se invece, lasciandotelo alle spalle, prendi per via Dante, finisci quasi inesorabilmente in Duomo. Fondazione-museo questo spazio voluto dall’artista Luciana Matalon, nasce nel 2000: “con l’obiettivo di creare uno spazio appositamente pensato per la ricerca e la promozione dell’arte contemporanea”. Soffitto a specchi, pavimenti dipinti in modo sontuoso, opere della Matalon sparse per ogni dove, niente di più in contrasto con le foto appese alle pareti candide: la gente di Lula, milletrecento abitanti a un tiro di schioppo da Nùoro. In territorio di Baronia, dice Mariangela Dui, che a Lula ci è nata e ci vive (tra le sue altre innumerevoli attività vi dirige anche un B&B assolutamente originale), il paese è posto ai piedi della catena montuosa del Montalbo, uno scenario di boschi millenari, nuraghi e domus de janas sparsi dappertutto, e miniere, oramai chiuse all’umana attività, blenda e galena e argentite, l’argento pei maestri orafi di Orosei. Miniere in corsa per diventare sito internazionale che studi le onde gravitazionali, quelle che per essere percepite hanno bisogno di strumenti che non vengano disturbati neppure da un battito di ciglia. Miniere fucine di comunisti, dove la “lotta di classe” non la studi nei testi di quell’ebreo tedesco che la teorizzò a metà ‘800, ma ti tocca viverla giorno dopo giorno, picconando sottoterra per dodici ore al giorno. Per le otto ore ci vorranno i morti sparati dalle “forze dell’ordine”. E te ne viene un amore per la montagna che custodisce gelosamente i suoi tesori minerali, per i boschi che la circondano, per la gente che condivide il tuo destino, una sorta di impronta dell’anima. L’anima del paese, incredibilmente appesa alle pareti milanesi del “Matalon”. Ma andiamo con ordine visto che, presenti assieme alla Dui e ad Angela Madesani, che di mestiere fa la storica d’arte e insegna a Brera, nonché all’istituto italiano di fotografia, e all’europeo di design, scrive per cento giornali e pubblica altrettanti libri, sono anche i due autori delle foto appese ai muri: Nello e Gianmarrco Taietti: padre e figlio. Richiamati dal suono dell’organetto i visitatori sparsi per i 700 metri quadri del museo si accalcano ( sedie per tutti non cene sono) in uno spazio in cui campeggia una gigantografia di vecchi seduti sui gradini la chiesa del paese, quasi tutti a barritta in testa, tutti comunque con una espressione assolutamente seria, quasi guardassero con perplessità il pubblico che a sua volta li fissa da Milano. Dice Nello Taietti che ai primi di gennaio del 2019 se ne andava per la strada che da Posada va verso Torpè, e scendendo da sant’Anna, un posto magnifico, arriva quasi per caso a Lula. E questi vecchi li trova così, con la medesima espressione di adesso, perplessi: e questo cosa mai vorrà dalla nostra vita. Ebbe l’intuizione di sedersi lui pure sui gradini poco comodi in verità e di mettersi a chiacchierare del più e del meno. Fu la chiave che gli aprì la loro confidenza, la loro curiosità, di sapere cosa ci facesse un continentale a Lula ancora in pieno inverno, non si era ancora in tempo di carnevale, quando la maschera del posto: su Battileddu, sporco il viso di fuliggine e sangue di montone, tutto mastrucato, fazzoletto nero sul capo, attira visitatori da quando è stata riesumata a metà del secolo scorso. La semplicità di Nello piacque al paese, questo gli permise di dar sfogo alla sua mania di vita. La fotografia.
Dice la Malesani che le foto di Nello l’hanno fatta tornare indietro nel tempo, si sente che il suo lavoro è stato stimolato dai grandi fotografi che la Sardegna hanno immortalato sin dall’inizio del ‘900. Era il 1927 quando August Sander, uno dei più importanti e intensi fotografi del XX secolo (suo padre era carpentiere nell’industria mineraria tedesca), sbarcò nell’isola e venne colpito dall’alterità dei territori e della gente che li viveva, scattò trecento fotografie per un volume “Sardegna” che poi non fu pubblicato. In rete se ne possono vedere alcune: paesaggi per lo più senza presenze umane, strade di polvere, donne che lavano i panni nel fiume. Le foto di Nello, dice, non sono un reportage, denotano che vi sia un “primum” che privilegia le relazioni umane. Oggi che viviamo un mondo in cui tutti fanno “selfie” ci rendiamo conto che ci troviamo davanti, guardando queste foto, in un’altra modalità di vita. C’è una grande umanità che non si mette in mostra, molte sono le donne che cucinano, che lavorano. Moltissimi gli anziani, la gente mangia, beve, chiacchiera. Si lascia la morte alle spalle. La vita continua. Gianmarco ha avuto vita più facile nell’approcciarsi a Lula, gli è bastato dire, a quelli in cui si imbatteva, che era figlio di Nello, è così del resto che ci si presenta agli sconosciuti da noi: “seu su fillu de… su nepodi de…”. E’ più che sufficiente perché tu venga accettato, adottato persino. Mai dimenticherò quei pastori, in cui mi imbattei un mattino con il loro gregge sui prati di Campeda, erano di Dualchi, il paese di nonno Domenico: “Sei un Cherchi? Un Cherchi di Dualchi, e allora bevi con noi”. Abbiamo fatto notte. Per dovere di cronaca non posso tacere che i vuoti delle birre erano mucchio notevole. Comunque Gianmarco ci tiene a dire che ogni sua foto, prima dello scatto, ha avuto un permesso preventivo. Lui nasce a Milano nel ’71 e si laurea in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera. E benché eserciti il suo talento anche nel campo della grafica e della comunicazione è nella fotografia che ha trovato il senso del suo cammino artistico. Tocca a Mariangela Dui dare un giudizio sul lavoro complessivo dei due fotografi, lei che è anche corrispondente per la “Nuova Sardegna” e scrittrice “in limba”: la sua “Meledda” ( Condaghes, 2005) ha vinto il premio Grazia Deledda, sezione opera prima in lingua sarda. Scritta in “luvulese” , con qualche concessione all’editore spaventato che nessuno potesse capire tutto fino in fondo. E’ del ’51 Mariangela , una memoria di ferro, è lei che mi ricorda di esserci già incontrati alla sua prima venuta in Milano, giusto un quattro anni fa. Ha fatto il liceo artistico a Cagliari ed è lì che ha capito quanto fosse importante mantenere viva, parlandola, la lingua che ci ha accompagnato dalla nascita, così che ai suoi due figli ha da subito parlato e in sardo e in italiano. E per scrivere “Meledda” è andata a riscoprire modi di dire che si erano persi nelle favole delle nonne. Ha reso giustizia alla fotografia di Nello e Gianmarco: cose belle dal profondo del cuore. Ci si riconosce in esse, in quella Lula dal suono così sudamericano (e se dio vuole un Lula sarà prossimo presidente del Brasile dopo tal Bolsonaro). Vi riconosce le caratteristiche della comunità. Con una parola (che non mi piace molto): “paesitudine”: una semantica del vivere residenti e resilienti, a passo lento. Cercando di vivere la vita per quella che vale, radicati come olivastri alla terra, e se queste radici vengono tranciate, semplicemente moriamo. Siamo un po’ pagani noi sardi, abbiamo in Lula tre chiese “cittadine”, gestite da una sorta di “triade”, che devono provvedere alla buona vita di agricoltori, allevatori di ovini, allevatori di mucche. Festa grande è quella dell’Assunta a metà agosto, ma anche a settembre per la Madonna del miracolo, san Nicola e san Matteo, ci si tassa tutti e tutti mangiano e bevono gratis, per due giorni interi. Cene a base di pecora bollita e sanguinaccio. A due chilometri dal paese l’edificio di culto più famoso: il santuario di san Francesco d’Assisi, che i nuoresi vorrebbero essere cosa loro , la Deledda ne scrisse pagine intense nel suo “Elias Portolu”. Che dirvi dell’effetto che a me hanno fatto le foto. Le donne anziane, quasi tutte a fazzoletto nero in testa, mi riportano al tempo dei miei calzoni corti, potrebbero essere tutte mie nonne e mie zie: “fillu miu” mi chiamavano, figlio mio, e bastava per sentire che ero benvenuto in questo mondo.
Le facce sono spesso scavate da rughe profonde, che raccontano di una vita che a ogni sorgere di sole è stata scandita dal lavoro, attingere acqua al fiume, spigolare nei campi, fare il pane e i dolci della festa. Tirare su figli mocciosi, insegnare alle figlie la “virtù”. Andare a messa la domenica. Tzia Rosa e tzia Elene e forse una delle più anziane, attrice per caso nel film di Tognazzi “Una questione d’onore” del 1965, Raimonda Fois, tzia Rimunna. Che uno che si chiama Raimondo, come tale Garau, per i Lulesi, non può essere che Munneddu. Ci sono anche i giovani naturalmente, sorridono più dei loro babbi e nonni, splendidi nei costumi tradizionali a spasso per le vie del paese, durante le manifestazioni di Cortes Apertas. Francesco “Checco” Demontis con l’inseparabile organetto, capace di far ballare alle feste ogni presente a qualsiasi età sia arrivato. Lula, dice ancora Mariangela, è un patrimonio di sardità. E Nello Taietti: “Abito in riva al mare, ma in estate vengo a Lula, mi sdraio, e la notte osservo le stelle”.