di FRANCO ARBA
Maurizio Onnis insieme a Luca Crippa ha fatto della narrazione documentale dei grandi eventi della storia contemporanea la cifra fondamentale della propria produzione. Ne La bambina di Kiev intrecciano sapientemente in una dimensione narrativa importanti testimonianze documentali e resoconti di profughi e vittime della guerra in Ucraina. In L’archivista hanno raccontato la vicenda di Hedy Epstein, che giovanissima ha visto la sua famiglia sterminata nei lager, per poi diventare archivista al processo di Norimberga contro i medici nazisti, e quindi instancabile attivista per la pace. Nel bestseller internazionale Il fotografo di Auschwitz quella di Wilhelm Brasse, il fotografo polacco internato ad Auschwitz a cui si deve la fondamentale documentazione fotografica – 50mila scatti – sulle vittime e i crimini del regime nazista.
Dal 24 febbraio il mondo vive in perenne apnea dopo l’attacco dell’esercito russo all’Ucraina, dietro l’ordine di Vladimir Putin. Oltre alla distruzione di un intero paese, l’operazione militare speciale – ipocrita espressione del conflitto imposta ai media russi – ha causato oltre cinque milioni di profughi. Intere famiglie che dall’oggi al domani hanno dovuto abbandonare la loro vita ordinaria per cercare una forma di sopravvivenza a migliaia di chilometri di distanza.
Per l’editrice Libreria Pienogiorno è uscita da qualche settimana La bambina di Kiev, scritto a quattro mani da Luca Crippa e Maurizio Onnis. Consulenti editoriali, all’attivo due romanzi storici, Il fotografo di Auschwitz, 2013 e L’archivista, 2014, entrambi per Edizioni Piemme.
La bambina di Kiev è la storia di Alisa, la storia di una bambina, di una famiglia e al tempo stesso di migliaia di famiglie nell’incubo del conflitto russo-ucraino. Ne parliamo con Maurizio Onnis, uno dei due autori.
Maurizio, nelle arti marziali il pugno al plesso solare ti spezza completamente il respiro e per lunghi istanti ti pare di non riuscire più a riprenderti. Poi, lentamente, tutto passa. È la stessa sensazione che ho avuto leggendo La bambina di Kiev: diversi capitoli ti mozzano letteralmente il fiato, altri ti danno la possibilità di rifiatare ma poi si rischia di farsi sopraffare dall’incedere degli avvenimenti narrati. La tua impressione attesta che il libro è ben scritto e che riesce ad appassionare il lettore. Ma il merito non va ricercato tanto nella nostra scrittura, ma nella cronaca che ispira il libro, in quei fatti che tutti abbiamo conosciuto dall’inizio di questa guerra. Rivivere quegli avvenimenti dalle pagine di un libro prende letteralmente allo stomaco.
Oltre ai due romanzi precedenti tu e Luca Crippa vi occupate di consulenza editoriale e siete autori di diversi manuali di Storia per gli istituti superiori. Opere che richiedono tempi anche lunghi di preparazione, sedimentazione e produzione. La bambina di Kiev può essere invece definito un instant book, una forma narrativa che risponde spesso a esigenze di mercato. Conoscendoti penso ci sia stata un’urgenza diversa che vi ha spinto a scrivere il libro. Noi lavoriamo per il mercato di massa e confermo che il libro è un instant book, lo potrei definire un manufatto artigianale per un pubblico culturale di massa. Ci è arrivata la richiesta dalla casa editrice il 4 marzo, abbiamo iniziato a lavorarci l’11 marzo terminandolo esattamente un mese dopo, l’11 aprile. Con questi ritmi serrati se non lo si può definire un instant book… L’editrice Libreria Pienogiorno ci ha contatti conoscendo i nostri lavori precedenti e abbiamo accettato perché ci interessava raccontare questo evento. La guerra in Ucraina la stiamo vivendo tutti come cronaca, qui e ora. Ma per chi conosce la Storia, per chi sa cosa c’è dietro questo conflitto, per chi sa che i russi sono arrivati ad Azov alla fine del XVII secolo per la prima volta, per chi conosce i rapporti tra ucraini e russi, questa guerra è un evento che si può già storicizzare e collocare in una cornice più ampia. A noi interessava raccontare questi eventi, razionalizzare, contestualizzare e dare forma narrativa alle vicende umane di quelle prime settimane di guerra. Delle esperienze estreme e definitive di chi è stato travolto da questo conflitto.
Alisa ha dieci anni. Il romanzo di una bambina scritto per noi “grandi”. Ma come fa facciamo noi “grandi” a raccontare questo tipo di storie alle bambine e ai bambini di dieci anni? È la prima volta che nei nostri romanzi raccontiamo di personaggi di tenera età. L’autore fa uno sforzo notevole nella semplificazione del linguaggio per cercare di mettersi nei panni della bambina e dare un’evoluzione al personaggio: per far questo occorre seguire la bambina dal primo giorno di guerra e raccontarla nel suo cammino nel modo più pulito e netto possibile. Il modo migliore per noi “grandi” di raccontare queste storie alle bambine e ai bambini è quello di leggerle assieme a loro spiegandogliele.
IL LIBRO. Alisa ha dieci anni e vive in un condominio popolare alla periferia di Kiev con suo padre Semyon, guida del museo naturalistico, e la madre Polina. Le notizie che giungono dalla tv sono ogni giorno peggiori, ma nessuno vuole credere che i russi attaccheranno davvero la capitale. Tantomeno Olexsandr, suo nonno. Lui è abbastanza anziano da ricordare i racconti dei vecchi sulla Seconda guerra mondiale e non concepisce come quella tragedia possa ripetersi, nel cuore dell’Europa. Di tutto questo si discute la sera del 23 febbraio, a casa della famiglia Melnyk. Poi, un immane boato squarcia la notte, e cambia ogni cosa. Alisa si sveglia di colpo, afferrata da un terrore a cui non sa dare un nome. Che cosa sta succedendo? È questa la guerra, allora? Parte da qui la storia di Alisa, lo straordinario romanzo-verità di una bambina nell’incubo del conflitto russo-ucraino. La storia di una famiglia, e al tempo stesso di migliaia di famiglie. Perché sono ormai oltre 5 milioni secondo l’Alto commissario ai rifugiati delle Nazioni Unite i profughi della guerra in Ucraina, un terzo dei quali minori, ragazzini come Alisa. Una storia di paura. Di bombe. Di fuga. Di affetti barbaramente divisi. Di orrore che non risparmia niente, nemmeno gli ospedali, nemmeno i profughi che attraversano i corridoi umanitari, nemmeno gli animali dello zoo. Una storia di resilienza, anche, e di enorme coraggio. Di vecchi, di donne. Di bambini in viaggio da soli, per centinaia di chilometri, con un numero di telefono scritto dalla mamma sulla mano. Una storia che emoziona, indigna, commuove, che fa comprendere che crimine immane sia la guerra, sempre. Una storia di lotta, infine, di speranza che non si arrende al sopruso, alla morte, alla violenza più feroce. Perché vuole scommettere sugli esseri umani, ancora una volta, e sulla pace.
La canzone ‘All’alba sorgerò‘ da Frozen può essere un buon viatico del libro per i più piccoli. Senz’altro. Anche perché non vorrei si credesse che questo libro raccontasse solo tragedie. Nella vicenda umana che si racconta non mancano la speranza e il coraggio, non manca la resistenza, non manca il desiderio di venire fuori dai guai e rinascere. Rinascere dalle ceneri di un passato tanto brutto della guerra verso un migliore futuro. Tanto più per una bambina che ha davanti a sé l’intera esistenza.
Al sicuro dei nostri salotti, anche per questa guerra, ci arrovelliamo – per l’ennesima volta – tra guerra di difesa e/o di aggressione, tra guerra giusta e/o patriottica. E ci si dimentica che è solo devastazione, sia che si tratti di tedeschi che di russi, per citare il vecchio Nazar di pagina 202. Si tratta di devastazione. Noi non siamo personaggi neutri, siamo individui collocati nella Storia e, anche se viviamo molto lontano, queste vicende ci toccano. Come tutte le altre vicende nei più sparuti angoli del mondo, anche se noi facciamo di tutto per non vederle. Questo ci costringe a posizionarci, a meno che non vogliamo chiuderci nella nostra cameretta. Possiamo rimanere sicuri nei nostri salotti, ma non possiamo rimanere indifferenti e per questo vogliamo che le guerre finiscano. Il libro ha lo scopo di far maturare nelle nostre coscienze questo desiderio.
A proposito di posizionamenti, in Sardegna il dibattito su questo conflitto ha generato un sotto-conflitto – per fortuna solo nei social network – con toni accesi, draconiani e beceri all’interno del vasto movimento indipendentista da cui tu provieni. Non pensi che questi posizionamenti potevano essere più costruttivi, anche nella possibilità di conoscere meglio gli eventi storici che ci hanno portato sino a qua? Invece, la solita caciara, il desiderio di sopraffare l’interlocutore. La questione della guerra in Ucraina è così profonda che genera comunque delle fratture profonde, non solo nel mondo indipendentista. L’unico metodo per non infilarsi in queste diatribe così accese e draconiane, come tu dici, è non intervenire oppure intervenire a ragion veduta, quando si è sicuri di quel che si dice. E si è assolutamente sicuri di quel si dice quando siamo ben informati e abbiamo studiato. Questo capita molto raramente soprattutto quando si parla di cronaca, di eventi lontani da noi, di mondi che non abbiamo mai conosciuto da vicino. A maggior ragione, quando non si conoscono determinate situazioni, sarebbe meglio stare zitti!
Leggendo le vicende di Alisa e della sua famiglia, sapendo che è un romanzo basato su fatti attualissimi, mi sono chiesto cosa avrei fatto io nella stessa situazione. Me lo sono chiesto venendo a contatto con alcune profughe, qui a Bologna, ripensando poi a Kobane, a Groznyj, alla Palestina e a tutti i paesi che conoscono e hanno conosciuto un’invasione violenta. Io penso che mettersi nei panni degli altri sia un dovere. Chiedersi cosa abbiano passato, cosa avremmo fatto nella stessa situazione. La verità è che nessuno di noi può veramente sapere, perché spesso le nostre reazioni in certe situazioni sono diverse da quelle che ci saremmo aspettati. Pensiamo di conoscerci bene e a fondo, ma non è così. Dobbiamo trovarci in determinate circostanze per conoscere bene la nostra reazione. Qui, a Villanovaforru, abbiamo avuto per quasi due mesi una dozzina di profughi che venivano dall’area di Leopoli. I reduci di una casa famiglia, due adulti e dei ragazzi, con storie interessantissime con le quali ci si può confrontare e sulle quali ci si può misurare. Speriamo di non dover mai affrontare quelle situazioni per sapere, e capire poi, di che stoffa siamo veramente fatti.
Molti ucraini che vivevano all’estero hanno lasciato tutto per andare a difendere la patria. In modo provocatorio chiedo allo storico, allo scrittore, al sindaco di un piccolo paese della Sardegna: ha ancora senso parlare di patria? Parlare di patria ha certamente senso, come ha senso parlare di nazione. Nel mio caso ha senso parlare di nazione sarda, come collettività, come popolo che ha una storia, un’identità condivisa. Ma oggi più che mai ha senso parlare di nazione come la si intendeva prima della rivoluzione francese. Il posto in cui sono nato, la piccola comunità in cui sono cresciuto: quella è la mia nazione. Bisognerebbe trovarsi in determinate circostanze per capire come avremmo reagito noi. Io penso che se ci trovassimo nella stessa situazione degli ucraini, la parola patria avrebbe un significato enorme.
ESTRATTO DAL LIBRO: Chi dice che a sei anni un bambino è troppo piccolo per ricordare non sa di cosa parla. Io ricordo tutto. Che sono arrivati un mattino, quando nessuno se li aspettava. Che i tetti delle nostre isbe erano di paglia e bruciavano come fiammiferi. Che uccidevano senza pietà chi non obbediva ai loro ordini. Che misero me e altri bambini a lavorare con le pale per fare una strada. Che mio fratello più grande si rifugiò nei boschi per combatterli e non è mai tornato. Io ricordo tutto e non voglio rivivere niente di quelle cose.