di PIER GAVINO SEDDA
Il vino fa cantare, di solito. Ma deve essere buono, corposo e nero. In molti paesi che fanno del buon vino rosso, come a Oliena, nel nuorese, non mancano i cantori ed i poeti. In gioventù siamo stati ad Oliena da alcuni amici. Una mattina, prima di pranzo, abbiamo assaggiato il vino di un amico, tanto da farmi improvvisare alcune ottave che uscirono una dopo l’altra, ed a farne le spese fu un amico francese, che da oltre cinquant’anni vive in Sardegna, al mio paese. Non ha potuto replicare anche se capiva il sardo, la nostra lingua. A Oliena cantava Raimondo Congiu (1762-1813) un poeta che scrisse in sardo la passione di Cristo, versi che ancora oggi recitano nei paesi dell’interno dell’isola per la settimana Santa. Quel giorno ad Oliena finimmo ebbri come quando Gabriele d’Annunzio, in un suo articolo del 1909, scrivendo la presentazione per una guida alle Osterie d’Italia di Hans Bart, ripresa poi nel 1910 in un articolo sul Corriere della Sera, intitolato “Un itinerario bacchico”, descrisse la sbronza di Cesare Pascarella, suo compagno di viaggio, assaggiando il Nepente di Oliena, andando di casa in casa con gli amici di Oliena, ed elogiando quel vino. “Hoc nomine vocatur herba quae vino injecta hilaritatem inducit”, dal latino “nepenthes”, significa “che toglie il dolore.” Forse aggiungendo a quel vino un’erba arrivata dall’Egitto che induceva ilarità. Reminiscenze di miti omerici dell’Odissea. Magari lontana parente dell’erba sardonia, un’erba molto velenosa, che dicevano facesse morire con il riso sulle labbra. Erbaliera in Sardegna è anche il nome di una varietà di uva.
Così a Nuoro il poeta Sebastiano Satta è possibile che abbia scritto i suoi canti bevendo il vino di Marreri, ma non solo: “Versatemi il vin di Marreri/Che mi apre le vene del cuore…” ed in altre poesie:
“Ecco gli ospiti amici arsi dal sole, … In dono recan confetture/Di cedro e il moscatello e la vernaccia./Non vino: ché stan chiuse nel celliere/Molte botti, e tutte d’olianese/Ambrosia, che prigioniera intese/Il palpito di venti primavere./Sangue del sole espresso dalle rupi/Calcaree, amaro come il fior del vepro,/Ardente e aulente come su le rupi/Di Puntanidos fiamma di ginepro.” (in Epitalamio Barbaricino);
“Sanguinasti dal cuore del granito,/E dentro un cavo tronco aspro di alburno/Ti franse, o vino, un uomo taciturno/E truce come in funerëo rito./E, o vino, – nella sera, odi? un viburno/Canta a un elce un dionisiaco mito…” (in Il vino). Il vino è presente in molti suoi canti e di vino scrissero anche alcuni suoi compagni di bevute, poeti anche loro. Gente abituata a bere il vino che versavano spesso “a metro”, perché la quantità da versare si misurava sul bancone de sos iscopiles, le bettole di una volta, in lunghezza; più erano i bicchieri disposti sul bancone, più numerosi gli avventori e più si beveva, anche se il bicchiere non era molto capiente e lo chiamavano “ridotta”. Sos iscopiles, chiamati così perché “iscopile” era: “l’insegna inequivocabile, una piccola scopa appesa alla porta delle cantine dei produttori, dove si trovava sicuramente il “bonum vinum” – una sorta di “Est Est Est” delle osterie romane, (che stava ad indicare la presenza di vino ottimo n.d.r.) e la sera vi si riunivano per…discettare, col sussidio di arrosti allo spiedo, di formaggio marcio e di castagne abbrustolite, sulle doverose distinzioni da fare tra il Marreri e su Tuvu e su Grumene (vini rinomatissimi che prendevano nome dalle località dell’agro di Nuoro che li producevano)” (Gonario Pinna). Anche il Canonico nuorese Antonio Giuseppe Solinas (1872-1903) aveva tre grandi passioni: la poesia, la libertà e il vino; il piacere del vino traspare limpidamente da ogni sua strofa. Si lamentava della vita dura del Seminario, a Sassari, pensando alle belle bevute nuoresi; e per fortuna, anche in Seminario, c’era qualcuno, Angelino “il sagrestano di Santa’Appollinare / che sotto il mantello porta il vino” come scriveva in alcuni versi in sardo. Scriveva poesie in nuorese anche Giovanni Antonio Murru (1853-1890), amante del vino, ma capace anche di scrivere in italiano un giornaletto settimanale enologico intitolato Il Filotarasconi. “Le condizioni di abbonamento erano: 24 litri di vino per un anno, litri 48 per un semestre. Il motto ispiratore era: Guerra alla sete! Così, gli asterischi, i filetti, le interlinee erano sostituiti da fiaschi, bottiglie, barilotti, bicchieri, litri, figure di ubriaconi celebri, nasi badiali ecc.” (G. Pinna). In questi locali si riunivano, spesso per bere e cantare: avvocati, insegnanti, pastori, artisti e poeti. Ricordo, anche in tempi recenti, le bevute fatte in quelle bettole, insieme agli amici nuoresi, facendo le ore piccole assieme al Maestro del Coro di Nuoro Giampaolo Mele, cantore e poeta anche lui. Qualche volta mi è capitato di vedere qualcuno che, rientrando dalla bettola, all’alba, non era in grado di aprire la porta di casa perché non riusciva ad inquadrare la serratura. A Neoneli, nel Barigadu, nacque il poeta Bonaventura Licheri (1668-1733) un padre gesuita, anche lui scriveva, come il Congiu, in sardo, preghiere e laudi sacre conosciute e cantate ancora oggi in tutta l’isola. Zona anche quella di ottimi vini rossi prodotti con un miscuglio di varietà locali di uve e per questo molto profumati. Amico del Padre Gesuita Giovanni Battista Vassallo (1691-1776), nato a Dogliani, poeta anche lui, Conte piemontese, con cui girò, per tre volte la Sardegna, villaggio per villaggio, condannando pratiche ed usanze pagane che poterono osservare, attorno ai fuochi fatti per le feste di Sant’Antonio e di San Sebastiano, tra il 16 ed il 19 gennaio, e durante il carnevale, in molti paesi. Rimase in Sardegna per cinquant’anni, fino alla morte avvenuta a Cagliari. Nelle sue poesie, Licheri ha descritto uno spaccato della vita dura dei gesuiti (a Gavoi, il mio paese, alcuni di essi portavano il cilicio) dove si denunciavano anche le ingiustizie, le pratiche, le credenze e le usanze dell’epoca; oltre ad infanticidi, uccisione dei vecchi, omicidi ed altro. Il poeta nelle sue poesie condannava le pratiche pagane eseguite per il rito della sepoltura, o i rituali di uccisione di bambini con la cavalla “trazadora” (che trascina) o di ciechi uccisi buttandoli nel vuoto, mentre gli storpi venivano conficcati di frecce e coltelli. Parlava anche di eutanasia e di “accabbadoras” donne che vendevano la morte nel modo peggiore, uccidendo i vecchi moribondi di peso alle famiglie, gettandoli nei dirupi o finendoli per strangolamento e, a volte, con un colpo in testa. Nei suoi versi ci diceva anche di cattive accabbadoras che “troncano il cuore in verde età agli storpi dalla nascita”. Anche se recenti saggi sembrano negare queste pratiche, molti sono i ricordi popolari legati a questa barbara usanza. Alcune testimonianze assicurano della presenza delle ultime accabbadoras, in alcuni paesi del Barigadu, negli anni attorno al 1950. Ci parlava anche delle maschere di allora, come quella degli “ossuti” (sos ossudos) di Samugheo, maschera oggi chiamata I Mamutzones de Samugheo, che sfilano durante il carnevale, carichi di pelli e di sonagli, con un copricapo di sughero sormontato da corna caprine o bovine, forse antichi rituali legati al culto di Dioniso, rappresentato da S’Urtzu (l’orco) che indossa una intera pelle di capro con la testa attaccata, che ne inscena la passione e la morte cadendo a terra. Ed il modo per farlo rialzare e rinascere è quello di versargli sul capo del vino rosso, prodotto in abbondanza in quella regione. Lo stesso Licheri, non era esente da peccati, perché ci dice di una storia d’amore avuta con una bella donna di Busachi, ed il “male che ha assaporato, lo ha cercato”, arrivando poi a sposarsi con la donna di quel paese. I preti in quell’epoca, ma anche prima, avevano le proprie concubine e pensavano più a far figli che a leggere libri; in quel tempo, se venivano condannate le relazioni occasionali dei preti, si accettavano le relazioni quasi matrimoniali degli stessi, che spesso davano il loro cognome ai propri figli. Già dal seicento, ma anche nei secoli successivi, in epoca di inquisizione, continuarono certe pratiche, come ci riferiscono alcune pubblicazioni. Nel libro di Salvatore Loi, Inquisizione, magia e stregoneria in Sardegna, Gianfranco Solinas riporta che: “Una delle manifestazioni più impressionanti, collegate nella credenza popolare, al potere malefico di certe persone e ad esso attribuito, era l’uccisione di neonati e di bambini effettuata attraverso macabri rituali” e ci parla di levatrici che trasformate in animali o insetti, andavano ad uccidere bambini succhiando loro il sangue, e nel caso di “Catalina Pira di Tertenia si confessa d’aver ucciso un numero imprecisato di bambini trasformata in mosca malefica grazie ad un olio datole dal diavolo che lo portava anche nei luoghi dei delitti… Altra autrice d’infanticidi, su richiesta e assistenza del demonio, si dichiara anche Catalina Lay che preparava un apposito unguento con ingredienti che procurano disgusto.”.
Le leggende si confondono con gli atti inquisitoriali. Ogni terra ha i suoi poeti e scrittori e ogni terra ha i suoi vini.
Al mio paese le persone hanno sempre passato gran parte del loro tempo libero al bar. Su zilleri (dallo spagnolo, cillero, cantina). Pare che in provincia di Nuoro ci sia il più alto tasso di presenza di bar in rapporto agli abitanti, a livello nazionale. In ogni letteratura vi è la presenza del bar, luogo d’incontri e di racconti. Delle nostre locande e zilleris scriveva anche David Herbert Lawrence nel suo libro Mare e Sardegna, scritto dopo un viaggio fatto nel 1921, pubblicato nel 1923. Lawrence si lamentava dello scadente servizio offerto nella locanda di un paese che aveva visitato, prima che arrivasse a fare una sosta a Gavoi, dove si poteva dormire solo sulla stuoia, in terra, e gli uomini che vi alloggiavano erano comunque contenti, perché lì almeno potevano bere a tutte le ore l’acquavite. Nella locanda di Gavoi, mangiarono il brodo di cinghiale, “buono e rinforzante” e la carne con cui era stato fatto il brodo. Ma all’epoca i viaggiatori, erano più abituati a portarsi dietro l’arrosto di agnello, “straordinariamente buono” come quello che aveva preso con sé, per il viaggio, il bigliettaio dell’autobus, che subito dopo quel pranzo, offri allo scrittore ed ai commensali, prima di pranzare lui stesso e conservare parte dell’agnello per le tappe successive. I viaggiatori portavano con loro anche il vino, come scrisse Lawrence: “…il cittadino di Nuoro tirò fuori un’enorme bottiglia di vino che, disse lui era finissimo, e rifiutò di farci continuare col vino nero che era a tavola e del quale ogni ospite aveva una bottiglia. Così ci scolammo i bicchieri che furono subito riempiti col buon vino di Sorgono, più rosso e più leggero. Era molto buono.” I sardi sono stati da sempre abituati, anche per viaggi non troppo lunghi, a portare con loro “su recattu” cose da mangiare: pane, companatico ed il vino. Mio nonno esclamava sempre: “senza recattu mancu a cresia” senza cose da mangiare, neanche in Chiesa! Così anche quando si varcava il mare, fino a non molto tempo fa, tra amici si portava un maialetto o un agnello arrostito, il pane ed il vino, da consumare sulla nave durante la traversata. “Ora le ultime bettole si chiamano bar, i maestri del ferro sono meccanici; l’ultimo fabbricante di speroni, è morto bruciato dall’alcool; e la domenica non si odono più gli accordi vocali del “bomborobò”. Così scriveva il poeta gavoese Raimondo Manelli, nel 1958. Evoluzione delle bettole. Viaggiatori e poesia che entrano nel bar spesso, descrivendo momenti significativi del paese e del territorio. Al bar si faceva anche poesia improvvisata, si cantava a tenore, si suonava. Ancora oggi durante il carnevale si suona, si balla e si canta la poesia di tradizione orale. Si piange e si ride, si ricorda il morto, bevendo con gli amici, dopo il funerale. Lo si commemora bevendo vino rosso, anche in casa di amici, mentre una volta era usanza diffusa in alcune parti della Sardegna di offrire carne e preparare dei pani speciali per i poveri, in memoria del morto. Molti che transitano in paese, che provengono da altri paesi vicini, dopo il funerale, vedendo il paese animato, chiedono sempre: “Cos’avete festa a Gavoi? Una volta per indicare le bettole, si usava mettere una bandiera rossa all’esterno, per dire del luogo di sosta e di ristoro aperto, ed erano chiamate ironicamente “poste” ed i frequentatori “cacciatori”. Come se fosse una battuta di caccia. Un amico, che faceva il grafico al mio paese realizzò, forse mosso da qualche sbronza memorabile, dopo aversi fatto “l’ombelico come la rosa”, un adesivo con disegnato un cinghiale ed un cacciatore che gli puntava un fucile, con la scritta: “C’è posta per te!”. Non so se fosse stato fatto per deridere la nota trasmissione televisiva che portava quel nome o se ispirato dal nome delle bettole di una volta. L’adesivo diventò il logo distintivo, incollato nei vetri dei fuoristrada, dei veri cacciatori del paese. Il bar diventa spesso luogo di memoria, ed in compagnia, il vino aiuta a ricordare, non solo a dimenticare. Il bar entra così, con la poesia ed i racconti, nella letteratura paesana. Dentro a quelle bettole e nei bar rimangono vivi i nomi dei personaggi che li animavano. Così “Muscone”, il miglior cantore a ballo del paese, col suo mezzo litro, seduto al tavolino, una volta mi disse che da diciotto anni non beveva un goccio d’acqua, forse memore della poesia di Francesco Ganga, nuorese, scritta ai primi del novecento, “Zia Tatana” che in finale recitava “Mi falet unu raju,/unu raju mi falet!/Si torro a biber abba/in bida mea.” In questo modo commemorava le sue avventure bacchiche ed inneggiava al vino che era talmente buono per cui lui giurava che non avrebbe mai più bevuto acqua per tutto il resto della vita. Altri ricordi: Antoneddu, il tagliapietre, che durante il lavoro non beveva un goccio, ma la sera portava a casa, ogni giorno, una solenne sbronza, pesante come il granito che tagliava, ma l’indomani era di nuovo al lavoro all’ora prestabilita. “Dante” e “Giando” che recitavano e ricordavano da sbronzi, quasi per intero, la Divina Commedia. Zio Cadau, mentre sonnecchiava seduto al bar, ormai anziano, solo con due colpi di bicchiere sul tavolino, chiedeva che gli venisse servito un altro bicchiere di vernaccia, senza neanche fiatare. E se un compare, ormai alla fine della serata, diceva: “Compà rientriamo? Si sentiva rispondere: “E non siamo in paese!” e si continuava a bere. Altri tempi. Il vino ha sempre avuto una forte valenza simbolica, elemento essenziale anche della cena pasquale ebraica. I quattro calici che, secondo quella tradizione, devono essere bevuti durante il pasto, esprimono la nota gioiosa della festa; una arcaica menzione del vino, nella Bibbia ebraica, dice che l’uomo deve godere dei frutti del creato e cibarsi di cibi succulenti, pieni di midollo e di vini ben chiariti. Anche in alcuni tappeti tradizionali sardi, come quelli di Sarule, tessuti al telaio verticale e colorati con le erbe, tra motivi di colombe e “chiavi” bene augurali, troviamo anche le quattro coppe, disposte ai lati del tappeto colorato, con lo sfondo giallo, un colore che spesso si teneva addosso come scapolare portafortuna. Sopravvivono in Sardegna le vecchie misure di capacità dei liquidi, anche dopo che nel 1846 si passò, con un regio editto del Regno di Sardegna, al sistema metrico decimale. Così possiamo trovare ancora qualcuno, come a Samugheo, che indica le quantità del vino prodotte con sa mariga, un recipiente di terracotta con manici, che corrisponde in alcune zone del Campidano a cinquanta litri di vino, o sa brocca che a Lanusei corrisponde a 14 litri. Fino ad arrivare a su carrazolu (circa cento litri) o a sa carrada (sedici brocche, circa 200 litri) che in molti paesi indica anche la botte. Per bere il vino o l’acqua si usava anche su guppu, una sorta di bicchiere di sughero, o su conzu (cogno) un boccale di foggia antica di terracotta che conteneva un litro di vino. A volte si beveva dalla tzucchita o dalla tzucca de binu, lagenaria, un piccolo contenitore di zucca da vino inciso, o disegnato a puntini con uno spiedo arroventato; o da sa barile, una botticella piccola in legno da cui si beveva direttamente, portandola alla bocca. Si usava bere anche da su correddu, col significato di cornucopia, una sorta di tazza di corno bovino appositamente lavorato ed intagliato, simbolo di fertilità. Attorno al vino, al bar ed alla poesia ci sono i racconti del mondo. E così partendo dall’uva, dal sole, dal vento, si arriva all’odore del mosto, che ha un dolce sapore, che partorisce nel tino, con quel nero colore, che fa nascere il vino dopo una misteriosa fermentazione. Prendendo forma, piano piano, di un divino umore. E cresce, nella botte, lentamente fino a riposarsi al punto giusto. Nel bicchiere di vino che ci offrono da bere, non vediamo solo il colore, se è buono il profumo ed il sapore. Ci sono anche i ricordi che ti fanno venire in mente gli amici con cui l’hai bevuto, nell’allegria o nel dolore; e pensi alle cantine ed alle vigne, al lavoro duro dei vignaiuoli. Così c’è chi lo ha prodotto, il vino, e chi lo ha bevuto; capisci se chi lo ha offerto era di buon cuore oppure tirchio; ricordi se assieme al vino, ti hanno offerto qualcosa da mangiare o meno. Ricordi con chi sei rientrato a casa, se hai fatto l’alba o il mattino seguente; questo io vedo in un bicchier di vino. Il vino è di chi lo beve, diciamo spesso. Anche i ricordi. Ma forse, scrivendo in sardo alcuni sonetti, che qui ho tradotto malamente e non per intero, avevo bevuto troppo, come ad Oliena, dove c’è un vino rosso che fa cantare.
Grande iniziativa!