di ANGELICA GRIVEL SERRA
Furtiva e vigile, Vitalia osserva dall’angolo. Manca poco più di un’ora all’inizio e, al momento, la vita si affaccenda tutta sul retropalco, in un brulicare di voci esigenti, richiami affrettati e strascichii di molti passi, perlopiù assorti in un andirivieni che ormai, dopo la frenesia di quattro giorni di prove, si è fatto esperto del luogo. Cagliari si schiude all’epilogo del giorno, con un tramonto settembrino che declina sul mare con solennità: l’Anfiteatro si accende di quella luce morente.
Vitalia distoglie per un attimo l’attenzione dai preparativi per guardarlo, quel tramonto: lo vede benevolo, come se il lento congedo del sole fosse un segno di complicità, il sussurro di un in bocca al lupo per l’evento vicino all’accadere. Del resto, dopo l’erranza di teatro in teatro attraverso ogni spicchio dell’isola, questa è ormai l’ultima tappa dello spettacolo, la più importante.
Fragilissima, per le attese che su di lei crepitano: per questo, stavolta, Vitalia non può proprio mancare. E si tormenta nel dissidio tra una certa trepidazione euforica e gli assilli di mille paure. D’un tratto, ecco, la persona che davvero Vitalia cercava nelle sue peregrinazioni di sguardo: Jacopo, finalmente. Lei immagina si trovasse impegnato in una ennesima ispezione tra gli spalti. Era inequivocabilmente sua la voce ferma che ha sentito, dieci minuti fa, mentre lui emendava un intralcio relativo all’impianto d’illuminazione. Se Jacopo impone la serietà del suo fare, sporge del tutto l’adulto che già lo abita, scavalcando l’espansiva vitalità dei suoi soli ventitré anni. Lui svetta, ritto. Quand’ecco, il miracolo dell’istante: l’adulto trasfigura. E ora non le appaiono più astrali i tempi in cui suo figlio ragazzino, nel gemmare dei suoi dodici anni, si raffrontava ancora implume, vispo e minuto a tutti i coetanei precoci, accomunati da voci tozze e da un’adolescenza già compiuta. Ed è strano vederlo oggi, con quel piglio direttivo, quando a scuola era totalmente avverso alla solerzia e comprava la simpatia dei professori con le imitazioni dei loro tic. Jacopo, ora, ha una mano impegnata in decine di fogli sgualciti; l’altra, libera, a distribuire quelli che sembrano essere pugnetti rituali d’incoraggiamento sulle spalle di tutti, in un dissipare le tensioni che si fa efficace, perché in replica gli giungono istantanee frecce di sorrisi e scoppiettii di risa diffuse. Però è allo sguardo di Vitalia che lui spudoratamente ambisce, mentre la raggiunge con le sue falcate misurate. “Ma’, vai a sederti, dai, che sta arrivando gente.”
La mamma annuisce, riesce a offrirgli solo l’obolo di un sorriso timido, compromesso dalla spina dell’apprensione. Del resto, i figli sono un cappio al cuore. Te lo cannibalizzano. Gli occhi bruni, identici a quelli del figlio, cercano di arrampicarsi ad altezza di quelli di questa sua creatura: di certo, quando lui era bambino non c’era bisogno di mettersi in punta di piedi per baciarlo sulle palpebre. Comunque, Vitalia non riesce ancora a farsi contagiare dall’umore brioso di quel figlio risoluto che ama la macchina da presa davanti e dietro, adora calcare la polvere del teatro, ha molta voglia di far ridere le persone anche per i suoi stessi difetti e ha soprattutto tanta, tanta fantasia.
Lei deve rassegnarsi all’irredimibile passione che negli anni lo ha portato ad andarsene tutte le estati in quei villaggi vacanze a intrattenere turiste sciantose con i valzer di fine serata per pagarsi i seminari di recitazione. E deve pure accettare il fatto che adesso lui voglia andare a Roma: le ha detto che la sua Sardegna gli ha già dato tanto, ma che ora sente il bisogno di una professionalità vera, ulteriore. “Devo fare studi ancora più seri, capisci, ma’?” Jacopo scorge la punta dell’ansia nell’immobilità di sua madre, e le porge l’esortazione del suo sorriso vistoso e l’impaccio di una delle braccia troppo lunghe attorno alle spalle di lei. Il contatto gli conferma l’esilità di quella mamma minuscola eppure tetragono macigno. E mentre scioglie la stretta, lì, dietro le quinte, realizza che sua madre, con quel suo votarsi a lui, abbia reso la sua vita bella. “Allora vado, eh.”. Lo dice piano, Vitalia, mentre s’incammina in direzione degli spalti. Davanti a lei, l’Anfiteatro evolve in vivace bazar gremito di vita.
E mentre il vortice crescente di persone lo popola sempre più, in un modo che la scaglia nello stupore, Vitalia si pente un po’ di aver insolentito Jacopo, in certe sere lontane di particolare sconforto, insistendo con la storia dell’università. Quando voleva che lui studiasse ingegneria, o magari architettura…le sarebbe andato bene anche se lui avesse scelto l’ISEF: almeno professore di ginnastica, dai. E poi tenersi il teatro come hobby.
Ma lui, niente: “Il teatro è la mia università, ma’”. Vitalia siede, gli spalti accesi di volti e delle luci che sì, funzionano a meraviglia. Ma lei piomba di nuovo nella paura. Le persone sapranno davvero riconoscere il talento del figlio, la passione sincera che gli ravviva il cuore? E Jacopo riuscirà a difendere quella sua volontà impetuosa dalle insidie di un ambiente così, intriso di tranelli e briganti, stanco di nocche consunte su porte sbarrate? Quante volte gli avrà detto: “Ma non è che mi diventi come loro, tu che sei gentile?” E lui: “Tranquilla, ma’. Vedrai, vedrai. E capirai che non lo divento, come loro. Lo sai perché? Perché sono come te.” L’Anfiteatro ormai straborda di umanità. E mentre l’acciottolio di parole si attutisce sino a spegnersi, Vitalia raccoglie i pensieri, li annoda altrove. Tende tutta la pienezza dello sguardo laggiù, sul palco, dove la promessa dello spettacolo prende atto. Jacopo è in scena. Vitalia strizza gli occhi, a istinto giunge le mani.
Poi sente ridere, ridere, ridere ancora. E l’ansia dilegua.