di PAOLO PULINA
Antonio Sanciu è nato a Buddusò nel 1951. Ha compiuto i suoi studi a Pordenone e a Trieste, dove si è laureato in Lettere Classiche. Dal 1979 al 2018 è stato Funzionario Archeologo della Soprintendenza e ha diretto numerosi scavi archeologici, pubblicando i risultati in varie sedi, scientifiche e divulgative. Dal 2020 ha iniziato a scrivere poesie in lingua sarda, ottenendo riconoscimenti al Premio “Logudoro” di Ozieri. Attualmente vive a Nuoro.
Se ci occupiamo di lui è perché a 71 anni, quindi nel 2022, ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie intitolata “Sa chìgula non sessat de cantare” (Sassari, Edes, con 23 suggestive fotografie di Salvatore Pirisinu, pp. 159), articolata nelle seguenti sezioni di rimas: De amore; Dae s’àteru mundu; Dae su mundu antigu-Sardigna; Dae su mundu antigu-Ellade; Àteras.
Quello che immediatamente colpisce è la maestria con la quale il poeta conduce il suo “scavo” applicandolo non allo scoprimento dei tesori custoditi sotto terra (come da competenza professionale) ma a quelli “depositati” nei giacimenti poco frequentati del vastissimo terreno del lessico de sa limba sarda, in questo caso nella variante logudorese.
Questo volume di liriche, se da una parte, come scrive Salvatore Tola nella Prefazione, costituisce «la rivelazione di un poeta», dall’altra rivela, anche ai sardofoni “allevati” e “allenati” nel modello logudorese (fra la parlata di Buddusò, il paese di Sanciu, e quella del mio paese di Ploaghe, non esistono differenze sostanziali) intriganti preziosità, affascinanti rarità. (Mi è venuto il desiderio di risfogliare il bel libro di Luigi Malerba, “Le parole abbandonate. Un repertorio dialettale emiliano”, Bompiani 1977, con una prefazione di Enzo Golino, il quale scrive di un progetto purtroppo rimasto irrealizzato: «Questo testo vuole essere il capofila di tanti volumi analoghi da affidare agli scrittori per aree di competenza dialettale».)
Sanciu, nelle sue composizioni, dimostra non solo di padroneggiare sa limba, le regole della metrica e della rima ma intende far capire che ciascuna di esse è una specie di “nave portaerei” dalla quale il poeta vuole che partano i “velivoli” che devono raggiungere i terreni che fanno da background alla tematica proposta (e può essere l’amore, l’altro mondo, la storia antica della Sardegna e della Grecia, il tempo esterno e “interno”).
Volendo indagare sui “nutrimenti” che a Sanciu sono derivati da una solida e sempre attiva passione classicistica, dato il particolare titolo della silloge e il fatto che il sonetto da cui prende nome è inserito ad apertura della prima sezione (Rimas de amore), ho digitato “la cicala nella poesia” e ho trovato in Internet questo sito con un avvincente “trattato” sull’argomento a firma di Giulia Regoliosi Morani:
https://www.rivistazetesis.it/Cicale/Testo.htm
Spiega la studiosa: «Da elemento topico la cicala diviene simbolo: del canto e della poesia. Il testo fondamentale è in Platone, nel “Fedro”, con uno dei miti sull’origine delle cicale: “Socrate a Fedro: ‘Non è conveniente che un uomo amante delle Muse non abbia mai sentito parlare del dono che le cicale hanno l’incarico di dare agli uomini da parte degli dèi. Si dice che un tempo queste fossero uomini, di quelli vissuti prima della nascita delle Muse; e quando nacquero le Muse e si manifestò il canto, alcuni degli uomini di allora furono così colpiti dal piacere che cantando trascurarono cibo e bevanda, e morirono senza accorgersene. Da loro in seguito sorge la stirpe delle cicale, che ottenne dalle Muse il dono di non aver bisogno fin dalla nascita di nutrimento, ma di cantare subito senza cibo né bevanda, sino alla fine. E poi si recano dalle Muse e riferiscono chi fra gli uomini di quaggiù onora ciascuna di loro’”».
Dopo la lettura di questo interessante “percorso tematico”, si capisce meglio l’importante significato del riferimento che il poeta intende attribuire alla cicala in quanto simbolo…
Sa chìgula non sessat de cantare Arreide in caminu a bos pasare, balciende dae su campu est a s’altura una neuledda bascia de calura: sa chìgula non sessat de cantare. Luego s’at a ponner bentu ’e mare, benide suta ’e s’umbra a sa dulcura, lassade chi bos intret sa blandura, colade, chi sa mere at a isetare. Frimmadebos e gai faghimus festa: in custa die afogosa in pienu istiu sas cordas de su coro sun tremende, su menzus tempus nos si ch’est fuende, pistercas chi torrades dae su riu chin sos mudantes netos in sa cesta. | Le cicale non smettono di cantare Fermatevi per strada a riposare, dal piano sta salendo all’altura una bassa nebbiolina di calore: le cicale non smettono di cantare. Fra poco spirerà vento dal mare, venite qui all’ombra a deliziarvi, lasciatevi prendere dalle lusinghe, avvicinatevi, la padrona aspetterà. Avvicinatevi e così facciamo festa: in questa giornata afosa di piena estate le corde del cuore stanno vibrando, l’età più bella sta fuggendo da noi, ragazze che ritornate dal fiume con i panni puliti nella cesta. |
Sanciu si interroga sul nostro destino finale e le risposte che si dà nelle due composizioni che chiudono la raccolta sono “classicamente” orientate sul “carpe diem”:1) «Non penses a su tempu benidore, / ma chilca custa die de la coglire / comente chi siat s’ultima ’e sa vida»; 2) «Tue chilca ’e ti gosare su momentu, / su ch’at de bonu pensa a ti coglire, / de totu faghe pro ti lu godire / e a su cras non dias afidamentu».
Abberu bella Paulu, poesias e presentata mi ant ammajadu…comente torro in terra sarda ando a Nùgoro a Las chircare…gratzias de coro
Componimento suggestivo e pregevole!