di GIANRAIMONDO FARINA
Se c’era però, un tentativo di progetto di ripopolamento positivo ma, purtroppo, naufragato troppo in fretta, quello era stato il disegno dell’allora viceré di Sardegna Vittorio Amedeo Costa, Conte della Trinità. Sanna Sanna, in tal senso, pur criticando tutte le politiche di popolazionismo messe su dai Savoia nell’isola, un’eccezione la fece per il tentativo fatto proprio dal suddetto viceré, in carica dal 1755 al 1758. Perché la posizione del nostro fu indulgente verso quest’ultimo, arrivando, addirittura, a rimpiangerne l’operato. Il Conte della Trinità sarà, quindi, uno dei pochi, assieme al ministro Giovanni Battista Bogino, dei nuovi esponenti dell’ordine costituito, ad avere avuto veramente “a cuore” gli interessi isolani. Ma chi era veramente e perché, per lui, in termini di politiche “popolazionistiche”, l’ex deputato anelese aveva fatto un’eccezione? Innanzitutto, la famiglia di provenienza e le origini. La famiglia era quella dell’alta aristocrazia piemontese, profondamente legata, per via militare, alla Casa regnante. Non stupisce quindi che tre suoi “rampolli”: abbracciassero la carriera militare, dopo aver frequentato i corsi dell’Accademia militare, fondata a Torino dalla seconda Madama Reale Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours. Oltre a Vittorio, infatti, anche il fratello Carlo Maurizio, detto il conte di Arignano, combatté sotto Carlo Emanuele III come maggiore generale e fu governatore di Cuneo nel 1755, anno della sua morte. L’altro fratello Luigi, balivo dell’Ordine di Malta, combatté a lungo nel Mediterraneo nella marina dell’Ordine. Maggiore generale nel 1761, fu anch’egli come Vittorio, e a volte per questo confuso con esso, viceré di Sardegna nel 1763. La nomina di Vittorio Amedeo a viceré di Sardegna, avvenuta nel 1755, aveva sancito, a nemmeno trent’anni dalla presa di potere sabauda nell’ isola, una consuetudine radicata per tutto il XVIII secolo. Vale a dire che la carica di viceré restava ancora legata, per i Savoia, alla funzione prevalentemente militare dell’ufficio e destinata, quindi, ai membri ed agli esponenti più in vista dell’antica nobiltà militare piemontese. E ciò, soprattutto, perché il governo riconosceva i pericoli insiti nel nuovo dominio: dallo scarso attaccamento della popolazione verso la nuova dinastia ancora estranea, all’influenza dell’alta e media nobiltà isolana, sempre legata alla Corona di Spagna, ed al sempre presente pericolo delle incursioni, che, quasi ogni anno, muovevano dalle vicine reggenze barbaresche. Non stupisce, quindi, il fatto che per tutto il Settecento la carica di viceré fosse appannaggio delle alte cariche militari della nobiltà piemontese, come i baroni di Saint-Rémy e di Blonay o i conti d’Apremont, della Trinità, di Bricherasio o i marchesi di Cortanze, di Castagnole, di Rivarolo, di Santa Giulia. Il triennio del viceregno del Conte della Trinità, dal 1755 al 1758, rivalutato dallo stesso Sanna Sanna nelle “Grandi Utopie”, pur senza avvenimenti di particolare rilievo, meritava di essere segnalato per alcuni aspetti particolari. Già all’atto della nomina, infatti, il conte aveva ricevuto, con carta reale del 12 aprile 1755, un ampio regolamento sugli uffici e le cariche dell’isola, al fine di evitare il ripetersi di conflitti di competenza come quelli avvenuti nel triennio precedente, sotto il viceregno del conte di Bricherasio, quando si erano verificati numerosi attriti fra lo stesso viceré e l’intendente generale. Per risolvere tali conflitti il sovrano era stato costretto all’invio di due commissari regi, i mastri uditori della Camera dei Conti Cauda e Curlando. In questo modo, sia nella scelta del nuovo viceré sia nelle istruzioni dategli, Carlo Emanuele III aveva fatto in modo che il Conte della Trinità appianasse tutte le divergenze nate tra i vari ufficiali ed evitasse nel suo triennio il ripetersi di tali incidenti.
Tra i gravi problemi che affliggevano l’isola in quegli anni uno dei più seri era, appunto, quello dato dal basso incremento della popolazione, già molto scarsa, con una densità, all’inizio della dominazione sabauda, di dodici abitanti per Kmq. In tal senso, comunque, è bene rilevare come le posizioni di Sanna Sanna, proprio nell’esaminare il comportamento e le politiche messe in essere dal governo, siano state alquanto obbiettive. Proprio partendo dal “centro”, ove la stessa scarsa conoscenza delle cause del fenomeno aveva ingenerato, sia a Torino sia a Cagliari, la diffusa convinzione che il rimedio più opportuno fosse quello della creazione di nuove colonie, come, infatti, abbiamo visto. In realtà, se solo in pochi casi i risultati erano stati positivi, spesso tali progetti ed iniziative fallivano. Lo stesso Conte della Trinità, quindi, avvisava la Corte di Torino che molte delle proposte che “si facevano per l’introduzione di altre colonie nell’isola erano di assai scarso realismo e non misuravano i notevoli ostacoli che le votavano al fallimento”. Egli stesso proponeva, quindi, che una parte degli aiuti destinati a tale scopo venissero utilizzati per favorire nuovi matrimoni fra la popolazione residente, essendo assai diffusa la consuetudine dei matrimoni in età matura, dopo il trentesimo anno, dovendo i giovani procurarsi “di buoi e attrezzi agricoli, la sposa il letto e i domestici utensili”. Egli proponeva, quindi, (posizione avvallata da Sanna Sanna) l’istituzione di doti gratuite, da distribuirsi annualmente, per favorire i matrimoni fra i più giovani. Anche se accolta favorevolmente a Torino, tale proposta non ricevette applicazione che alla fine del secolo, quando Vittorio Amedeo III istituì l’assegno di ventiquattro doti da 50 scudi l’una sulla Real Cassa. Sanna Sanna, però, sarcasticamente, annotavs che, a far ritornare il sovrano sui suoi passi “furono, soprattutto, le bombe della grande Rivoluzione. E, pertanto, il 3 aprile 1793” – scriveva- “egli, il re, firmò un biglietto che, attestava la sua gratitudine per il valore dei sardi, manifestato nella difesa dell’isola contro i francesi. Ed aveva ordinato che quell’assegno di 24 doti di 50 scudi ciascuna, fosse distribuito annualmente a povere figlie native del luogo”. In realtà, sebbene ne sia riuscito a denunciare lo “status” di totale inapplicabilità del progetto popolazionista sabaudo, di cui ha avuto anche il grande merito, fra i suoi contemporanei, di essere stato uno fra i piu’ autorevoli ad averlo illustrato dettagliatamente, Sanna Sanna, però, non era riuscito (come gran parte dei suoi contemporanei), ad individuare le cause del mancato sviluppo demografico isolano. E, stando alla disamina delle cause, appunto, esse dovrebbero essere indicate nella malaria, mai del tutto debellata, ed in una sempre più drammatica, per i tempi, mortalità infantile. Cause che, secondo i dati forniti da Giuseppe Maria Incisa Beccaria, arcivescovo di Cagliari fra il 1800 ed il 1810, nel decennio 1766-76 portarono ad accertare che nelle parrocchie di Cagliari moriva, in media, il 41,3% della popolazione fra uno e sette anni e nelle parrocchie di Sassari il 45,83%, sempre nella stessa fascia d’età.
Interessante! Grazie