di FEDERICA CABRAS
Lavorare in una scuola in ospedale significa collaborare anche alla promozione del diritto alla salute.
È con queste parole che Andrea Serra, maestro presso il Microcitemico, apre il racconto della sua mission quotidiana, che definisce un privilegio, oltre che una costante ricerca di equilibrio: «In questo, concorre, in modo fondamentale, la scuola di provenienza dei bambini e dei ragazzi» precisa Serra.
Permettere il rientro degli alunni nella propria classe nel modo più semplice, sereno, efficace possibile e collaborare al raggiungimento dell’equilibrio psicofisico dei bambini e dei ragazzi: ecco i due obiettivi cardine del ruolo della scuola in ospedale. «La scuola è un elemento di normalità, a volte l’unico, in una vita che è messa sottosopra dalla malattia.»
«La scuola, in ospedale, deve – come chiarisce Serra – ascoltare, creare un luogo di ascolto e attenzione a quelle che sono le necessità nel qui e ora dell’alunno, della persona-alunno.»
Quindi, aprire il proprio cuore, oltre che ai bambini e alle bambine, anche a genitori, medici e insegnanti della scuola di provenienza dei piccoli alunni. E, nonostante ci sia una enorme differenza tra un ricovero in Pediatria e uno in Oncologia, nessuna delle situazioni va trattata con leggerezza, sottovalutata. «La scuola si pone come filo rosso che unisce il prima e il dopo, la malattia. Il durante, l’ospedale, deve rimanere in contatto e comunicazione con il prima e con il dopo per evitare una frattura che, quando accade, è difficile da far saldare bene. Il rischio che corriamo noi adulti, spesso, è di vedere il malato, mentre il bambino e il ragazzo continuano a vedersi sempre nello stesso modo: Antonio, Lucia, Rebecca… La scuola agisce sulla parte sana cercando di “ingrandirla” sempre di più, non negando la malattia ma provando a non farle prendere tutto lo spazio.»
Uno dei compiti più importanti è proprio la creazione di percorsi individuali, costantemente aggiornabili e modificabili, come spiega Serra. «Così come diversi sono i reparti e le degenze, così devono essere diversi gli approcci e gli strumenti. Tutto va portato avanti con elasticità e adattamento, all’alunno e al contesto.»
Andrea Serra inizia a fare il maestro in ospedale il 19 settembre 2005. «Fino al 2002 non sapevo che esistesse questa realtà, l’ho scoperto quando ho dovuto fare domanda di trasferimento perché risultavo perdente posto nella scuola in cui lavoravo in quegli anni. Feci la domanda ma il posto era già occupato, ritentai due anni dopo, il posto si era liberato e, pur non sapendo che cosa mi aspettasse, ne fui molto contento. Sapevo poco della scuola in ospedale, non sapevo niente di quella del Microcitemico. Decisi di non prendere informazioni, di entrare con sguardo “pulito” e di concedermi almeno quattro mesi per osservare. Sentivo che per me era necessario mettere da parte qualunque forma di giudizio, di valutazione immediata e usare tutte le energie a osservare e ascoltare, provando a fare il mio lavoro. Ragionare sui singoli atti quotidiani e pian piano adattarli alle necessità degli alunni e delle alunne, e quello che ho provato a fare. La tentazione di guardare prima di tutto al disegno generale è stata forte ma più forte ancora è stata la curiosità di approfondire i dettagli, i particolari. In questo sono stato certamente aiutato dagli operatori dell’ospedale, in particolare dall’assistente sociale, dalla psicologa e da una delle dottoresse dell’oncoematologia.»
Una riunione di équipe alla settimana per circa sei anni, a quel tempo, come ci racconta il maestro Andrea: «Osservare diventa più facile se ogni tanto qualcuno ti aiuta a capire che cosa hai veramente visto o ti indica nuove direzioni verso le quali volgere lo sguardo.»
Per dieci anni, c’è solo lui a fare da tramite tra bimbi in ospedale e formazione scolastica – «Altro che maestro unico, qui c’è un unico maestro!» diceva una mamma all’epoca della riforma Gelmini -, ma adesso, da sei anni a questa parte, «siamo due insegnanti della scuola primaria e dallo scorso si è aggiunta anche la scuola secondaria di primo grado […] Il mio Istituto, il Giusy Devinu di via Meilogu a Cagliari, ha investito molto sulle scuole ospedaliere, esistente anche al Brotzu con la scuola Primaria e con quella dell’Infanzia, e si è impegnata per riuscire ad avere anche questo livello di insegnamento. Lo sconforto è un sentimento che per fortuna non mi appartiene, sarebbe molto difficile essere contemporaneamente di conforto e sconfortato. Noi adulti, anche quando non ne siamo consapevoli, siamo uno specchio per i bambini e i ragazzi, quindi non mi posso permettere di essere sconfortato. In questo i miei alunni e alunne mi aiutano molto, spesso sono io a specchiarmi in loro e ricevere energia e volontà che neanche sapevo di avere. Ci sono certamente momenti o periodi più difficili di altri, più faticosi o più dolorosi, ma col tempo si impara a viverli, ad affrontarli senza esserne sopraffatti e senza scaricarli sugli altri. Per fortuna ho vicino delle persone con cui poter condividere questi momenti.»
Ma è cresciuta e come, soprattutto, la scuola in ospedale? Certamente, ci viene detto. «L’esperienza, il tempo, la pazienza, a volte anche l’ostinazione, permettono di cambiare pian piano tanti piccoli dettagli, sfumature, che però sono di grande importanza, che fanno la differenza tra ciò che funziona e ciò di cui c’è realmente bisogno. Un aspetto che negli anni è certamente cambiato in meglio, è la percezione di chi lavora in ospedale sul ruolo della scuola. L’importanza della scuola è diventata sempre di più un valore condiviso, le viene riconosciuto un ruolo importante nel percorso di cura dei bambini e dei ragazzi.»
Al momento del ricovero, dai medici viene spiegato immediatamente come si potrà continuare il percorso scolastico: «Ciò che può apparire come una ovvietà o come un piccolo particolare di poco conto, è invece un elemento importantissimo: significa dire “Tu sei e rimani la persona che eri anche prima di entrare in ospedale, con tutti i tuoi interessi e i tuoi bisogni”.»
Da migliorare, c’è sicuramente la conoscenza di quest’importante realtà fuori dalle strutture sanitarie, sin nelle scuole. «Questo semplificherebbe sicuramente il lavoro di tutti. Se, come detto, l’obiettivo principale di questo lavoro è quello di permettere il rientro nella propria classe nel modo più sereno possibile, questo diventa più semplice se gli interlocutori della scuola di provenienza degli alunni sanno già dell’esistenza della SiO, di come funziona e qual è il suo ruolo. La scuola Polo della Sardegna sta lavorando in questo senso, per avere un referente della scuola in ospedale in ogni istituzione scolastica. Pian piano ci riusciremo.»
Ma arriviamo al libro di Serra, L’Altalena, una raccolta di racconti che trasportano il lettore in questa realtà fatta di nozioni, certo, ma anche di ascolto, di supporto e di aiuto. «Dopo i primi anni di lavoro ho sentito forte il dovere di portare fuori dall’ospedale alcune storie che avevo trovato importanti, esemplari, nutrienti» racconta. «Sentivo che bisognava dare spazio e riconoscimento all’impegno che tante bambine e bambini avevano messo nell’affrontare una situazione difficile. Le loro vite, purtroppo in alcuni casi molto brevi, hanno qualcosa di importante da raccontare.»
La passione per la scrittura non nasce, tuttavia, in maniera repentina: nel corso degli anni, Andrea Serra si abitua a fissare le proprie sensazioni, le emozioni e gli eventi su carta, come se scrivere le cose potesse mantenere intatte, non prede del tempo, le proprie riflessioni e gli stati d’animo. «Le ho tenute a lungo per me, perché avevo paura di sporcarle, cercavo il modo di raccontarle cercando di scomparire il più possibile. Volevo essere solo il narratore, che fossero le vite dei miei alunni e delle mie alunne ad essere il centro del racconto.»
Cinque anni fa, la svolta: «Ho provato, all’interno del festival di Cuncambias organizzato da Antas Teatro di San Sperate, a raccontare una di queste storie. Mi è sembrato di essere riuscito a vincere la sfida con me stesso: ciò che era arrivato al pubblico erano i protagonisti della storia, io ne ero stato solo il narratore. Da quel primo tentativo è nato poi uno spettacolo, L’Altalena, di cui finora ho fatto una decina di repliche. Il materiale che avevo scritto era molto di più di quello che aveva trovato spazio nel testo teatrale e l’idea di provare a farne un libro l’avevo avuta fin dall’inizio. Probabilmente è giusto dire che sono nate insieme ma una è stata più veloce a concretizzarsi.»
«Ho fatto leggere il manoscritto a un po’ di amici e a qualche amico di amici. Volevo capire se anche chi non mi conosceva, non legava cioè quelle storie a me, le trovava interessanti. Le risposte ricevute sono state positive. L’ho fatto allora leggere ad una amica che in passato ha fatto l’editor e che vive nel mondo dei libri. Mi ha detto che le era piaciuto ma che non avrebbe saputo darmi nessun consiglio su una possibile casa editrice o una particolare collana, perché era un libro difficile da collocare in una categoria e che questo rendeva complicato immaginare a chi proporlo. È qui che ho pensato al crowdfunding ed è così che ho scoperto la casa editrice Bookabook. Mi è piaciuta subito l’idea di un libro che nasce per il volere dei lettori. Il percorso della pubblicazione passa infatti due filtri, il primo è quello della redazione della casa editrice, superato quello e aperta la campagna di crowdfunding, la parola passa ai potenziali lettori. Sta all’autore proporsi ai futuri e possibili lettori, trovare almeno duecento lettori disponibile a pre-acquistare il libro, avendo a disposizione 100 giorni. Con un po’ di vergogna, mista a orgoglio, devo dire di avere raggiunto questo primo obiettivo in 27 ore e di avere superato il secondo e il terzo, 250 e 350 copie, in 9 giorni. Un risultato inatteso, totalmente inatteso, che ancora adesso vivo con un senso di enorme gratitudine.»
Il titolo, ci chiarifica l’autore-maestro, è arrivato senza essere frutto di una particolare riflessione. «Mi sembra che l’altalena rappresenti bene l’instabile stabilità che vivo in ospedale, la necessità di cambiare di continuo il mio punto di vista, essere sempre in movimento. Stare sull’altalena significa passare da una materia ad un’altra, da una classe a un’altra, dalla condizione derivata da una particolare patologia a quelle che nascono da una patologia diversa. Significa salutare un bambino che torna a casa e poi a scuola dopo avere concluso la terapia, e salutarne un altro, per l’ultima volta, in cimitero. L’altalena, nel suo movimento, permette di tenere legato lo sguardo tra la terra e il cielo, tra la fatica e il desidero, tra oggi e domani. La casa editrice Bookabook mi ha chiesto di procurarmi l’autorizzazione alla pubblicazione da parte delle persone che vengono nominate nel libro oppure di cambiare i nomi per renderli “irriconoscibili”. Ho quindi contattato molti ex alunni e alunne oramai maggiorenni. In altri casi ho scritto ai loro genitori. Anche questo pezzetto di viaggio è stato molto bello ed emozionante.»
Andrea Serra ci lascia anche alcune, bellissime storie che si trovano nel libro. “Stiamo studiando storia nella sua camera in reparto. Si passa una mano sulla testa e sul tavolo cadono tanti capelli. Molto corti. Li ha tagliati da poco perché sapeva che avrebbe iniziato a perderli. Passa una mano come a spazzare il tavolo, per raccoglierli, poi si ferma. Le dico che sembra che abbiano formato delle parole in uno strano alfabeto, forse è giapponese, aggiungo. Sorride e mi guarda. Faccio finta di leggere quello che c’è scritto tentando di imitare il giapponese. Ride di gusto.
Le chiedo: «Ma secondo te che cosa c’è scritto?» Guarda con attenzione e serietà quegli strani ideogrammi. Sempre seriamente, come io ho fatto poco prima, legge in finto giapponese. Le chiedo cosa significa e mi risponde: «Sono felice».
Ha dieci anni. Fisicamente ne dimostra al massimo sette, ha la parlantina di una quarantenne venditrice di villette a schiera e la furbizia di un ultra centenaria. Negli anni è riuscita a trovare il modo di manipolare gli adulti per farsi dire sempre di sì.
Viene in aula, si siede e mi invita a fare altrettanto. Non ha il solito atteggiamento spavaldo, non riesce a guardarmi negli occhi.
«Cosa mi devi chiedere?» le dico.
È imbarazzata, è la prima volta che la vedo così.
«Maestro, ma… è vero che i bambini… li porta la cicoria?»
Impiego qualche secondo per capire che non ho sentito male.
Ha messo insieme le voci che le sono arrivate: cavolo e cicogna sono diventati la cicoria. Ha fatto sintesi.
Faccio un respiro profondo.
«È una storia un po’ più lunga e interessante, se vuoi te la spiego» le dico «però anche la tua non è male.»
«Ce n’è anche una terza che, se fossi Luis Sepulveda, avrei intitolato Storia di una bambina che voleva incontrare il suo cane e ha fatto nascere la Pet Therapy nell’ospedale in cui era ricoverata,» ci dice «anche questa, la storia di Elena, si trova nel libro.»