di GIANRAIMONDO FARINA
Catherine Dupont accolse e sostenne Giovanni Maria Angioy nel lungo esilio parigino (1799-1808)
Vi sono tantissime chiavi di lettura per interpretare questo bellissimo romanzo di Adriana Valenti Sabouret, una donna siciliana di Siracusa, fine ed apprezzata letterata, profonda conoscitrice ed amante della cultura francese. Essa, orgogliosamente legata alla sua terra natìa, è un’“isolana due volte”, avendo fatto della Sardegna, e precisamente di Alghero la sua residenza con la famiglia, dopo, naturalmente, Parigi, sua città d’adozione, dove abitualmente dimora.
Dalle pagine dense, accattivanti e coinvolgenti, che raccontano l’ultimo periodo del lungo esilio parigino di Giovanni Maria Angioy, emerge un non so che di passionale e sentimentale. Un romanzo, però, che nonostante le vicende del patriota sardo esule rimangano sempre in primo piano, ridà centralità alla figura di Madame Catherine Dupont, la vedova parigina che accompagnerà e veglierà, gratuitamente e con dedizione, l’ultima parte del cammino terreno dell’Alternos (1799- 1808).
E tutte queste tensioni ben si legano alle varie chiavi interpretative con cui può essere letta l’opera: storico- politica, teologico e sentimentale. Letture ben riassunte e riannodate in quella magistrale e significativa ripresa di Montaigne che, in modo molto pertinente, l’autrice ne ha fatto.
E’ questo il momento in cui Madame Catherine Dupont accompagna e lenisce l’agonia del patriota sardo esule, leggendogli alcuni passi di questo grande filosofo e pensatore francese, in cui la riflessione assume una dimensione escatologica sul senso della vita e, soprattutto, su quello della morte. Scrive Adriana Valenti Sabouret, riprendendo il saggista transalpino e mettendo queste parole in bocca a Madame Dupont, vegliante il moribondo esule sardo: “(…) La tattica di Montaigne era quella di lottare contro la morte, togliendole quel carattere di estraneità che la fà tanto temere e l’avvantaggia contro di noi (…). La premeditazione della morte è premeditazione della libertà”. Un’asserzione che, in fin dei conti, colpirà veramente Giovanni Maria Angioy, che se lo sentirà addosso fino in quei freddi giorni parigini del febbraio 1808 e che la brava e sagace scrittrice riesce bene a mettere in evidenza, unendo al senso escatologico dell’opera una sapiente lettura storico-politica, teologica e sentimentale: motivo per cui Madame Dupont è un romanzo da leggere non solo per i sardi, con particolare attenzione a quelli immemori o che non conoscono, ma a tutti.
La lettura politica dell’opera non fa altro che “mettere, finalmente, i tasselli giusti” a quel bellissimo, complesso e drammatico mosaico che furono la persona e la vita di Giovanni Maria Angioy (Bono, SS, 1751- Parigi, 1808), il più grande eroe che la Sardegna moderna abbia mai avuto, il capo indiscusso della Sarda Rivoluzione che, per la difesa dei suoi ideali e per il sogno di una sua terra finalmente libera, accetterà l’esilio nella metropoli parigina, la capitale di tutti gli “esuli di libertà del tempo”, sebbene quegli aneliti, durante il governo del Direttorio, si fossero già sopitri da alcuni anni. Ed Adriana Valenti Sabouret, in questo, oltre che confermarsi grande scrittrice e ricercatrice indomita e sagace, è un’artista: riesce, nell’opera, a far “combaciare” perfettamente tutti i tasselli politici e storici della vicenda umana dell’Alternos. In tal senso questa elegante e determinata donna siciliana è riuscita laddove fior di studiosi storici e storiografi sardi, per vari motivi legati, per lo più, all’ipocrisia, alla pusillanimità o, forse, all’ignoranza, avevano fallito: avere ricostruito, con dovizia di particolari, a seguito di attente e documentate ricerche, l’esilio angioyano a Parigi, durato ben nove anni, dalla rocambolesca fuga da Casale Monferrato, dal cui convento agostiniano il nostro riuscirà ad evadere protetto dai suoi fedeli bonesi, don Felice Mulas Rubatta, cognato acquisito e gli allora giovani Salvatore Frassu (futuro sacerdote, parroco di Benettutti e canonico della Cattedrale di Oristano, nonché memoria di quegli eventi) ed Emanuele Crobu, futuro sindaco di Bono ed, al momento, segretario particolare di Angioy. La Valenti Sabouret è stata anche colei che ha scoperto il passaporto richiesto dall’ Alternos per trasferirsi in Francia, a Marsiglia, assieme ad una lettera di raccomandazione per lui del Ministero delle Relazioni Estere francese a quello della Polizia generale di Parigi, in cui Angioy è definito come “cittadino rifugiato”.
Una precisa lettura politica e storica che la Sabouret fa, partendo, innanzitutto, dai luoghi “parigini”. E le fonti da lei consultate portano ad una precisa località, ad un palazzo, sito in una certa via della capitale francese: l’hotel meuble de Carignan, gestito da madame Catherine Dupont al n.3 di rue Froidmanteau, presso il Palazzo del Louvre, nella parrocchia reale di St. Germains l’Auxerrois. Vi giunge esule, braccato dalla polizia sabauda, dopo aver inutilmente cercato di perorare la causa sarda presso Napoleone, in “continua campagna di guerra” (raggiungendolo, ma non venendo ricevuto, perfino sul campo di battaglia di Castiglione delle Stiviere) e presso la satellite repubblica filofrancese Cisalpina (in merito è, ormai, accertato un breve soggiorno di Angioy a Milano, capitale della neocostituita Repubblica fra il luglio e l’agosto 1796, poco dopo la sua drammatica partenza dalla Sardegna e del quale il sottoscritto stà cercando di analizzarne i risvolti). Angioy approda a Parigi, quindi, dopo il successivo, inutile, tentativo di vedersi accolte le proprie richieste dalla Corte sabauda e dopo l’essere dalla stessa messo sotto stretta sorveglianza presso gli agostiniani eremitani di Casale Monferrato. Luogo dal quale riuscirà a fuggire in modo rocambolesco verso la Francia, protetto dai suoi citati, fidati, bonesi. Nel frattempo, il fallimento della Sarda Rivoluzione (1793- 1796), aveva causato un’ondata di esuli e patrioti che, per lo più, troveranno rifugio in Corsica e nella Francia continentale, alimentando, inutilmente, la speranza di rivedere, un giorno, l’isola liberata dal giogo del feudalesimo e della dominazione sabauda che, fino a quel momento, l’aveva governata alla stregua di un possedimento coloniale. Una speranza che, però, ben presto, si tramuterà, per molti di loro, nella cruda realtà delle forche erette dai piemontesi. E che accompagnerà, come ha ben descritto Adriana Valenti Sabouret, quasi come fosse un incolmabile rimorso, gli ultimi anni di vita Giovanni Maria Angioy. La lettura storico-politica del romanzo porta, quindi, a quella citata precisa via, nel quartiere di quella chiesa, St. Germains l’Auxerrois, che non era una chiesa qualunque, ma la parrocchia della Casa reale di Francia. In quel luogo, appunto, insisteva un piccolo hotel meuble, gestito dalla vedova Dupont, una donna proveniente dalla provincia francese che, dopo la morte prematura del marito, dovette “rimboccarsi le maniche” per mandare avanti le proprie attività. E Catherine lo fece in un Paese che continuava ancora, certamente, ad essere pervaso dagli ideali rivoluzionari. Le ricerche effettuate sul conto di questa donna, hanno portato a fissare, definitivamente, un altro “tassello” storico da parte dell’indomita scrittrice siciliana: Madame Catherine Dupont non era la vedova del famoso generale Dupont, come certi testi storici hanno erroneamente tramandato, ma si trattava di una locandiera parigina, nativa di Arces sur Gironde, comune del sud-ovest della Francia.
All’interno di questo quadro storico, così stabilito e fissato, si muovono i personaggi e si susseguono i luoghi che fanno da cornice e danno solidità all’impalcatura del romanzo. Si parte dagli esuli e patrioti sardi, fedelissimi di Giò Maria, che lo seguiranno anche nell’esilio parigino: da don Michele Obino di Santulussurgiu, morto a Parigi nel 1836 (la cui tomba è stata rinvenuta dalla Sabouret nel novembre 2019 presso il cimitero parigino del Pere Lachaise), al medico di Arbus Pietro Leo, pioniere nell’utilizzo del vaccino antivaiolo, deceduto nel 1805, all’avvocato sassarese Gioacchino Mundula. Grazie alle ricerche della Valenti Sabouret, per esempio, ormai, si sa con certezza che don Michele Obino, una volta a Parigi, abbracciò la Chiesa concordataria francese napoleonica ed officerà nella chiesa di St. Sulpice.
Per non dimenticare, però, il ricordo del sacrificio di altri patrioti che, nel 1802, finirono sul patibolo, una volta rientrati dalla Corsica, come il parroco di Torralba Francesco Sanna Corda, confessore di Madame Letizia Ramolino madre di Napoleone, ed il notaio cagliaritano Francesco Cilocco. A questi martiri sardi della Rivoluzione si aggiungono tutta una serie di personaggi francesi, con cui Angioy ha avuto realmente a che fare durante il suo esilio. Questi personaggi sono Pierre- Louis Ginguené, definito il “buon Ginguené”, politico, giornalista, diplomatico e poeta, Cristophe Saliceti, agente della Repubblica, o il viceconsole francese in Sardegna Louis Esperson, antico amico di Angioy che, a Sassari, ospiterà la vedova Dupont, facendosi, inutilmente, da tramite tra lei e le figlie per far rivalere il testamento del patriota. Senza dimenticare altre figure di contorno, ma che non fanno altro che corroborare la tesi, ormai non più peregrina, secondo cui l’ Alternos non sia stato sepolto, come asserito da alcuni storici, in una fossa comune. Uno su tutti, il famoso notaio Legé, il cui studio stava nell’elegante palazzo della centralissima Place Vendome. Il notaio che il 18 febbraio 1808 redasse il testamento di Angioy, per il cui coinvolgimento la vedova Dupont dovette impegnarsi in modo ingente.
La lettura storica mette, poi, in evidenza la centralità di altri luoghi alle memorie angioyane: dalla chiesa parigina di St. Germains l’Auxerrois, in cui si svolsero in forma onorevole i funerali, a Bono, il capoluogo del Gocéano, sua patria natale, laddove tutto era iniziato.
Il capitolo su Bono e sul Gocéano, nell’economia del romanzo storico assume, pertanto, un ruolo cruciale e definitivo. Sembrerebbe che, giunta, ormai, alla fine dell’opera, la Valenti Sabouret, da artista, ripercorrendo il viaggio fatto nel 1813 da Catherine Dupont in Sardegna, abbia voluto “far combaciare” perfettamente i puzzle mancanti del mosaico. Un percorso a ritroso, dove tutto quadra ed ha un senso. Con un cerchio che si chiude proprio a Bono e nei luoghi che primariamente videro protagonista Giò Maria: dalla casa natale, alla chiesa parrocchiale di S. Michele dove fu battezzato, alla chiesa di S. Raimondo ed all’attiguo convento mercedario che lo vide apprendere, da studente adolescente, i primi rudimenti delle lettere e della grammatica. Bono, quindi, oltre ad assumere un ruolo storico e geografico preciso, per Madame Dupont, acquista la dignità di luogo dell’anima. Un luogo che, proprio al momento della visita della vedova, aveva assunto un ruolo importante anche all’interno della struttura amministrativa del Regno di Sardegna: non era solo il villaggio principale e capoluogo della Regia Contea di Gocéano, che dovette pagare duramente l’adesione ed il sostegno alla causa rivoluzionaria del suo figlio prediletto; ma nel 1807, proprio a testimonianza del ristabilimento dell’ordine sabaudo, dopo il turbolento periodo rivoluzionario, fu eretto a capoluogo di provincia, ossia della XII Prefettura del Regno di Sardegna (saranno, per la precisione, per continuità amministrativa, le prime vere province italiane, essendo anche il Re Vittorio Emmanuele I e la Corte di stanza a Cagliari, capitale giuridica del Regno), con giurisdizione su trenta comuni del Gocéano, del Marghine e della Barbagia di Nùoro, Un ruolo amministrativo che avrebbe dovuto far dimenticare le precedenti propulsioni rivoluzionarie, “mettendo in un angolo” la fazione angioyana, ancora viva e rappresentata dalla famiglia Mulas Rubatta nella carismatica figura di donna Mattia Mulas Rubatta, sorella di don Felice e del defunto don Andrea (assassinato durante i “torbidi” bonesi del febbraio 1798) e vedova di don Taddeo Arras, zio materno di Giovanni Maria.
Tutti personaggi che l’autrice riesce sapientemente a collocare in questo “capitolo- chiave” del romanzo, in cui i nodi della lettura storica perfettamente ritornano.
Un’altra chiave interpretativa per leggere e capire Madame Dupont, inedita, è quella teologico- religiosa. Una visione, questa che la brava Valenti Sabouret riesce a mettere in risalto fin dalle prime pagine e che ritrova la sua fonte in quella escatologica citazione di Montaigne, già ricordata. Si tratta di una continua e lunga discussione sui temi della vita, del dolore, del male nel mondo e della sofferenza. Tutti segni che l’eroe sardo porterà con sé fin sul letto di morte di rue de Froidmanteau e che condividerà fino all’ultimo con l’amata compagna. Madame Dupont si presenta, quindi, come una densa, significativa e commovente “liturgia del distacco”, ben articolata e giustamente strutturata. Anche in questo, infatti, la Valenti Sabouret è riuscita a guardare oltre quello che gli storici moderni sardi, anche recenti, non sono riusciti o non hanno voluto vedere: l’immutata fede religiosa di Giovanni Maria Angioy, nonostante l’abbraccio definitivo degli ideali giacobini, seppure in una Francia “normalizzata” dal Direttorio e concordataria. “In fondo all’animo”- è questo che emerge da questa interpretazione- “Angioy rimane un credente fino all’ultimo”. E questa fede è quella ricevuta in famiglia dalla madre Margherita, dal padre Pier Francesco che, rimasto vedovo, riceverà gli ordini sacri, e dal fratello Niccolò che diverrà canonico della Cattedrale di Nùoro. Una fede corroborata dalla vicinanza e dalla profonda amicizia con il già ricordato don Michele Obino, grande ed insigne figura di sacerdote illuminato ed intellettuale. Un don Michele Obino che, nel romanzo, assurgerà a figura culminante nel sancire definitivamente il “distacco” terreno di Giò Maria. L’ Alternos uscirà rafforzato e rinfrancato dalle bellissime parole di speranza che l’amico ecclesiastico gli riservera in quell’altissimo dialogo a due, immaginato e descritto magistralmente dalla Sabouret nel capitolo V. Un momento in cui Angioy prende, veramente, consapevolezza di quello che è stato, della giustezza delle sue azioni e battaglie e, con dignità e spirito cristiano, si prepara al trapasso finale, pronto ad accogliere “sorella morte”. La lettura religiosa di Madame Dupont è, quindi, uno “scavare in fondo all’animo umano”, non solo di Giò Maria, per cui rimarrà l’unico rimorso di non rivedere più le figlie dimoranti a Cagliari che, nel frattempo, lo avevano disconosciuto da padre. Essa è anche la sintesi del continuo combattimento in cui, per nove anni, si è trovato il cuore di Catherine, la vera protagonista, tra un sentimento di totale affidamento a Dio, di cui anche lei è pervasa, nonostante le asperità che la vita ha riservato anche a lei (emblematica ed azzeccata l’intitolazione del I capitolo, “Per aspera ad astra”), e quello, più umano, di amore per l’amato esule e patriota sardo, che la stava abbandonando.
Ecco, allora, che questa lettura religiosa si unisce a quella sentimentale cercando, in questo modo, di rispondere ad un’altra domanda esistenziale: che cos’è l’amore? E, logicamente, questa parola contiene il verbo latino morior, morire per qualcuno o per qualcosa, dare e donare la propria vita. Adriana Valenti Sabouret è riuscita, con il suo sensibilissimo tatto femminile di scrittrice a far combaciare in quella parola “magica”, amore, entrambe le tensioni sentimentali dei due protagonisti. Quella di Giò Maria, patriota, esule, Capo della Sarda Rivoluzione, che ha tanto amato: ha amato la sua prima moglie Annica, le sue tre figlie; ha amato la sua terra tanto da dare la vita per essa ed ha amato Catherine, la compagna fedele dei suoi ultimi giorni. Anche Catherine ha tanto amato: ha amato il suo Giò Maria ed, attraverso i suoi ricordi di uomo ormai allettato ed indebolito dalla malattia, ha amato la Sardegna,” l’isola che”- scrive la Sabouret- “tanto le aveva dato, malgrado tutto”.
Madame Dupont, quindi, si presenta come un’opera da leggere tutta d’un fiato, ma da meditare in tutte queste chiavi storica, religiosa e sentimentale, con la speranza che Adriana Valenti Sabouret possa, veramente, coronare il suo e nostro sogno di sardi ed amanti della nostra terra: trovare la sepoltura di Giovanni Maria Angioy per cui in tanti, nel passato, si sono prodigati. E, parafrasando il padre e scrittore domenicano e spiritualista francese Adrien Candiard, perché una speranza sia concreta, dev’essere corroborata dal coraggio: tutte virtù che la scrittrice siciliana ha già dimostrato di possedere.
Bravaaaaaaaaaaaa
Che bello! Lo leggerò!
Complimenti
per la lettura dell”opera di Adriana Valenti Sabouret. Acquistero’ il suo libro e lo leggero” con attenzione ed interesse. Complimenti
per il suo impegno storico-letterario con l’augurio di conseguire ulteriori brillanti successi in questo settore.
che bell’articolo, ricco di spunti e notizie interessanti
Una recensione veramente a 360 gradi della grande opera di Adriana Valenti! Alla cui sensibilita’ e abilita’ di scrittrice _ come si legge nella recensione di Gianraimondo Farina_ si deve aggiunge re anche la virtu’ della sagacia.