di MATTEO PORRU
La bambina che ascolta suo padre Carlo che recita a memoria l’Inferno di Dante, ogni tanto, chiude gli occhi. Per sentire che rumore fanno una storia, le parole e la voce calda e cara che le accarezza il viso e la chiama per nome: Mercede, Mercede! Lei li riapre, poi gli sorride. E le sorride la vita serena e la casa borghese in cui è nata, per seconda, nel 1890. Come le sorelle, Teresa e Francesca su tutte, ha tante sensibilità e tanti privilegi.
Perché essere figlia del notaio Mundula, a Cagliari, alle porte del Novecento, vuol dire che la cultura la fai anche in soggiorno, dove arrivano a turno i più grandi letterati sardi e italiani.
Vuol dire poter ricevere la migliore istruzione possibile alla “Scuola normale”, che lei frequenta con dedizione e risultati, manco a dirlo, eccellenti.
Vuol dire avere, a teatro, un palchetto tutto per sé, e un bouquet di decorazione che una sera cade per caso sul palchetto della famiglia Carboni. Lo riporta il giovane Attilio, neo avvocato, che Mercede sposerà giovanissima e che seguirà a Roma. E che Roma: la coppia si avvicina ad Antonio Scano, zio di lei, che di lavoro fa il senatore ma per passione frequenta i salotti più alti e gli intellettuali più in vista del panorama italiano. E fra questi, da più di dieci anni, c’è Grazia Deledda.
Mundula e Deledda sono tutt’altro che simili. Hanno quasi vent’anni di differenza, esperienze di vita agli antipodi, potrebbero scontrarsi per tanti motivi e invece, per tanti altri, si incontrano.
Oltre al legame profondo fra le due, Mercede dei romanzi dell’amica scrive e scrive un’analisi intima e attenta per Il Tempo, più altri articoli di approfondimento e saggi brevi per Lettura e L’Italia che scrive. Migliaia e migliaia di battute sui personaggi femminili della scrittrice nuorese, letti nel loro valore più grande e più intenso, universale. Sono insieme, le due donne, quando la Deledda riceve e legge la lettera più prestigiosa del mondo, con francobollo svedese.
Mercede fa avanti e indietro fra Roma e Cagliari, le piace il mare, la traversata, sentire l’aria calda di casa addosso. Torna sempre perché, a un certo punto, la Sardegna le manca e le manca troppo. La ferma soltanto la guerra, che la costringe a un distacco forzato che lei supera scrivendo in sardo. Anzi, in cagliaritano. Alla sorella Teresa, alla sua terra, a se stessa. Per rincuorarsi. Per resistere.
Perché no, Mercede non scrive solo per i giornali, anche se è una grande firma dell’Unione Sarda e ne L’Italia che scrive lavora con Trilussa e Marinetti. Si concentra sui romanzi, soprattutto sulla poesia. Raccoglie le liriche migliori e le pubblica ne “La piccola lampada”, a trentatré anni. È il suo esordio letterario assoluto. La pubblicazione le dà ampio spazio e visibilità e la critica, più che apprezzarla, la esalta. La Mundula bissa dieci anni dopo con la seconda raccolta, “La collana di vetro”. Cinque anni dopo, entra a gamba tesa nella narrativa con “L’allegra baracca” e “La casa sotto il pino”. E intanto pure due biografie, una su Santa Teresa d’Avila e una sulla moglie di Giuseppe Verdi, Giuseppina Strepponi.
E gira l’Italia, in lungo e in largo, per raccontare e ricordare le grandi donne italiane.
Quando finisce la guerra, torna in Sardegna. È il 1946 e Cagliari perde ancora molto sangue dai bombardamenti di tre anni prima.
È l’ultima volta che la vedrà. Mercede se ne va veloce, troppo, nel 1947. Non vedrà la sua città risorgere e ricominciare dopo quell’inferno ma il capoluogo le dedicherà un belvedere mozzafiato a Castello e un premio letterario, biennale, in suo onore. Per ricordare il rumore che fanno le storie, e le vite, quando si incontrano. E quando si abbracciano.