di MATTEO PORRU
Sul piroscafo nero che è appena partito da Fiume c’è un bambino che stringe la mano alla madre e piange forte. Ha paura. Ne ha tanta anche lei, perché suo marito è rimasto al fronte e non sa se lo rivedrà vivo. La terra si fa lontana, il mare è sempre mosso e la nave scende e sale, sale e scende. La madre guarda il cielo. Orlando Biddau, suo figlio, guarda le onde.
Il viaggio finisce nel paese del padre, a Modolo, in piena Planargia. La guerra, lì, è arrivata poco. Ci si sono rifugiati in tanti, fra sfollati e reduci, è un posto fuori dal tempo che ha un che di magico, di sospeso. Orlando ci cresce, ci gioca, ci vive. Sta a contatto con la natura, con gli animali. Gli regalano un agnello che viene servito a Pasqua qualche mese dopo. Non lo mangia e scappa fra i campi a piangere. C’è solo Anna a stargli vicino. È una bambina brusca, impetuosa, ma è l’unica ad accendergli gli occhi. Lei, i suoi, li ha scuri.
Il giovane Biddau compie sette anni e suo padre torna dalla guerra ma non è più lui, è diverso, quasi vuoto. E non sono più neanche tempi rosei: i Biddau sono senza un soldo e per portare pane in tavola serve lavorare. Va bene qualunque cosa, che il ragazzino si paga poco, che come manovale va benissimo. Biddau cresce fra la malta e i mattoni. Neanche lui è più lo stesso: è arrabbiato, frustrato, sfinito dai ritmi e dalle pause assenti. La morte della madre non la accetta, non la comprende, non capisce perché il destino gli abbia tolto il suo sguardo vero e fragile. La vita gli fa male ma lui non ci sta. Inizia a studiare a Bosa, sotto gli eucalipti, e si vede che ha una marcia in più. Massimo dei voti alle superiori e due lauree immense, di cui una oltralpe, in lingua francese. Prima in Lettere alla Sorbonne di Parigi e poi in Lingue straniere a Urbino, con una tesi sul più grande maledetto di sempre, Arthur Rimbaud.
La poesia, a Orlando, piace molto. Gli piace anche comporla. Per ora, però, la raccoglie e basta. Ha le carte in regole per avere una vita grande ma Biddau torna in Sardegna, a Oristano, vorrebbe insegnare ma non fa per lui. Il corpo inizia a tradirlo, la mente gli si appanna, torna se stesso solo quando scrive e quando legge. E decide di fare solo quello e di farlo a Modolo. La poesia di Orlando ha tanto del male di vivere di Montale, del dolore dei maledetti, di Garcia Lorca. E ha tanto di dolore, di crudo e di incubi. Il ricordo lo tormenta, l’infanzia lo consola. Fra le sue liriche più belle, Nel porto dell’antica città, Anna, Una fame di vento, Visione di città. Biddau racconta Bosa e Modolo con la crudezza e la malinconia del suo sguardo struggente e cupo, le sue parole sanguinano, a volte sporcano. Niente lo fa andare oltre l’infanzia terribile e oltre il trauma di ragazzo, vive succube e se potesse la farebbe finita. Ma resiste. Forse per espiare, forse per scoprire cosa c’è dopo il dolore, dopo il rimpianto.
I suoi componimenti, fra i più belli della produzione sarda novecentesca, gli valgono la terna dei premi letterari di poesia più importanti dell’Isola: due volte il Premio Città di Ozieri, il Premio Pompeo Calvia e il Premio Tonino Ledda. Scrive per diverse riviste, “La grotta delle vipere” su tutte, dà alle stampe diverse raccolte in italiano e pure un romanzo, Predestinazione, fino all’opera omnia del duemila dodici.
Orlando muore due anni dopo. È partito l’ultimo piroscafo nero che sale e scende e scende e sale. Biddau tiene per mano sua madre. Lei guarda le onde. Lui guarda il cielo.
Peccato che La grotta della vipera sia divenuta quella delle vipere: queste suonano male !
Claude SCHMITT