di FRANCESCA BIANCHI
A Luras (Gallura) ho visitato il Museo Etnografico Galluras, meglio noto come Museo della Femina Agabbadòra, un piccolo e grazioso palazzo del Settecento, rigorosamente in stile gallurese, in cui sono riprodotti con estrema fedeltà gli ambienti tipici della civiltà gallurese. Guidata dal direttore e curatore Pier Giacomo Pala, cultore e appassionato di tradizioni popolari, nonché autore dell’Antologia della Femina Agabbadòra, ho fatto un tuffo nel passato più autentico della Gallura. Ascoltando Pier Giacomo, gli ambienti sembravano davvero animarsi della presenza di pastori, contadini, artigiani, donne di un tempo di questa meravigliosa regione della Sardegna. Ho potuto ammirare gli strumenti tipici della civiltà contadina per i lavori della campagna, attrezzi per la vinificazione, l’agricoltura e la pastorizia. Ho rivissuto le varie fasi della lavorazione del sughero e della lana, con gli strumenti e le macchine impiegati da donne e uomini galluresi. Ho visitato la sala da pranzo e la camera da letto, al cui interno ho potuto vedere e toccare l’unico esemplare ufficialmente riconosciuto di malteddhu, ritrovato da Pala in un vecchio stazzo in demolizione nei pressi di Luras. Si tratta del martello con il quale la “accabadòra” assestava un colpo letale al malato terminale, provocandone la morte. Nella bella intervista, Pier Giacomo Pala si è soffermato proprio sul mistero e sul fascino che hanno sempre circondato sa femina agabbadòra (questa è la versione gallurese del termine accabadòra, diffuso nel resto della Sardegna), l’anziana donna che, chiamata dai congiunti di un malato terminale, poneva fine all’agonia di quest’ultimo. Il cultore di tradizioni popolari racconta che il più delle volte “sas feminas agabbadòras” erano anche “sas mastras de paltu”, ossia levatrici o ostetriche: le donne che aiutavano a morire erano le stesse che aiutavano a venire al mondo, a dimostrazione del fatto che nella società tradizionale sarda solo la donna poteva presiedere alla nascita e alla morte. Pala riferisce anche alcune importanti informazioni in merito al protocollo cui dovevano attenersi i parenti del malato prima di rivolgersi all’accabadòra e racconta i dettagli dell’ultimo episodio riconducibile all’azione di questa anziana e misteriosa donna, risalente al 2003, di cui è venuto a conoscenza grazie alla testimonianza di un sacerdote.
Sig. Pala, lei dirige il Museo etnografico Galluras di Luras, al cui interno è custodito l’unico esemplare ufficialmente riconosciuto di “malteddhu”, il martello con il quale la “accabadòra” poneva fine all’agonia del malato terminale, provocandone la morte. Quando è nata la sua passione per le antiche tradizioni popolari della Sardegna? Sono sempre stato affascinato dall’antico e dalle tradizioni popolari. Ho cominciato a raccogliere stranezze fin da quando ero adolescente, ingolfando cantine e soffitte con i miei reperti, fino a quando, nel 1981, sono riuscito ad acquistare un piccolo palazzo risalente al Settecento, dove nel 1996 ho aperto il Museo etnografico “Galluras”. Devo dire che, pur essendo il primo museo etnografico in Gallura, è conosciuto più per essere il Museo della Femina Agabbadòra, che come museo etnografico. Merito dell’unico esemplare riconosciuto al mondo di martello dell’agabbadòra esposto al museo. In Gallura, infatti, è stato sempre utilizzato un martello di legno, ricavato da un unico pezzo di olivastro, con un manico che permetteva una presa sicura; altrove veniva usato quello che si chiama “mazzoccu” o “mazzacca”.
La figura dell’agabbadòra richiama turisti, è una grande fonte di attrazione: alcuni anni fa sono venuti visitatori da Washington, appositamente per vedere il martello di “sa femina agabbadòra”. Nel suo primo anno di vita il museo ha accolto 75 visitatori, il secondo anno 150, il terzo 304, fino ad arrivare ai circa 7000 visitatori l’anno di questi ultimi anni.
Come è strutturato il museo? Perché l’ha chiamato Galluras? Il nome “Galluras” vuole indicare sia Gallura al plurale in sardo, sia Gallura e Luras, sub-regione e comune. Il museo e’ impostato sulla fedelissima ricostruzione degli ambienti tipici di un’abitazione gallurese relativi alle attività tradizionali, quelle che costituivano la principale fonte di sostentamento della famiglia gallurese, come la viticoltura e la vinificazione, la pastorizia, la lavorazione della lana, la tessitura, la lavorazione del sughero. Naturalmente, c’è anche l’ambiente domestico vero e proprio, quindi camera da letto, cucina e sala da pranzo. Gli ambienti sono stati ricostruiti rispettando la struttura e l’equilibrio delle vecchie case galluresi, con una cura ed una attenzione ai particolari che li rende vivi, vissuti. Una fedeltà ricostruttiva che ha stupito e a volte commosso i visitatori più anziani che quegli ambienti avevano vissuto e conosciuto davvero. Vi sono esposti oltre 7000 reperti, la cui datazione va dal 1400 fino alla prima metà del Novecento, anche se ci sono elementi più antichi. Il percorso museale è articolato su tre livelli con ingresso e uscita attraverso il piano terra.
Come e quando è venuto a conoscenza dell’affascinante e misteriosa figura della Femina Agabbadòra? Come è riuscito a recuperare l’unico esemplare riconosciuto al mondo di martello dell’agabbadòra? Sono venuto a conoscenza dell’esistenza della femina agabbadòra nel 1981, a Luras, nel cuore della Gallura. Con il signor Giovanni Maria mi capitava spesso di fare delle passeggiate in campagna. Durante una di queste, l’anziano amico mi disse che quando era bambino, il nonno gli aveva parlato di una donna che, utilizzando un martello di legno, aiutava gli agonizzanti a morire. Sul momento la notizia mi lasciò del tutto indifferente, ma nel corso della notte la mente tornò all’informazione che avevo ricevuto qualche ora prima, così pensai a lungo alle parole del sig. Giovanni Maria. Il mio sollecitato interesse mi spinse a voler conoscere ulteriori particolari. La mattina successiva andai da “tiu Ghjuanni Maria” per chiedergli dettagli in merito alla notizia che mi aveva dato. Mi rispose di non ricordare altro, oltre a quello che mi aveva riferito, poiché all’epoca era un bambino. Da quel momento iniziai a fare delle indagini, intervistando gli anziani del mio paese, nessuno dei quali aveva mai sentito parlare di quella pratica. Decisi, così, di mettermi alla ricerca dello stazzo dove aveva abitato la donna che aiutava a morire. Iniziai a documentarmi e venni a conoscenza della notizia che le donne che aiutavano a morire, “sas feminas agabbadòras”, erano anche “sas mastras de paltu”, ossia levatrici o ostetriche. Esistevano, quindi, donne che aiutavano a morire, le stesse che aiutavano a venire al mondo. Nella società tradizionale sarda la donna presiedeva completamente alla nascita e alla morte; l’uomo era escluso da questi due momenti. Continuai ad intervistare gli anziani del mio paese, questa volta chiedendo loro chi fossero “sas mastras de paltu”. Mi fecero quattro o cinque nomi. Grazie alla testimonianza degli anziani venni a sapere che una di loro aveva abitato in uno stazzo, situato proprio nella zona della quale mi aveva parlato “tiu Ghjuanni Maria”. Iniziai, così, a controllare ogni angolo, millimetro dopo millimetro, degli stazzi della zona, nella speranza di trovare il martello della femina agabbadòra. Capii subito che la ricerca non sarebbe stata facile. Arrivò l’anno 1993 e mi ritrovai a passare, ancora una volta, nelle vicinanze di uno degli stazzi che avevo già ispezionato. C’erano degli operai che stavano demolendo un muretto a secco. Provai un po’ di tristezza nel vedere che un altro segno del passato sarebbe stato cancellato per sempre. A quel punto ho notato una stranezza: tra le pietre, che sono sempre di forma irregolare, ce n’era una lunga e perfettamente rettangolare. Ho provato a rimuoverla con un cuneo e si è quasi aperta su una nicchia, al cui interno c’erano un martello di legno e dei piccoli frammenti di orbace nero. Finalmente trovai quello che avevo cercato senza sosta per dodici anni. Mi guardai intorno per un attimo, afferrai il martello e fuggii.
Chi era l’agabbadòra? Come agiva? Secondo la concezione comune “s’agabbadòra” era una donna anziana che veniva chiamata a porre fine all’agonia dei moribondi, quando questa si protraeva per molti giorni, provocando inutili sofferenze al malato. La agabbadòra è una figura di donna in parte temuta, come fosse una strega, in parte rispettata per il potere che aveva di dare e togliere la vita. Veniva chiamata dai parenti del moribondo. Si recava nella casa del malato terminale all’imbrunire o di notte per essere meno vista. Un vecchietto di Luras diceva che “sa femina agabbadòra” si recava mascherata nella casa del malato. Subito si dirigeva nella camera da letto in cui giaceva il malato terminale, i cui famigliari si erano spostati in un’altra stanza. Spogliava il malato e la stanza delle immagini sacre e degli amuleti, tutti oggetti che avrebbero potuto impedire all’anima di uscire dal corpo. Si sedeva accanto al moribondo, gli carezzava la testa, cantilenandogli il rosario e una delle tante nenie che si usavano per addormentare i bambini, infine lo sopprimeva. Vorrei precisare alcune cose: l’agabbadòra non uccideva, ma poneva fine alle sofferenze, accorciando l’agonia del malato terminale; non veniva pagata, al massimo si poteva fare un’offerta con prodotti della terra.
Cosa significa agabbadòra? Qual è l’etimologia del termine? Il termine “Agabbadòra” deriva dal sardo “acabài”/”agabbare”/”accabbare” (a seconda della zona geografica, infatti a Luras diciamo “Agabbadòra”, mentre in quasi tutta la Sardegna si “Accabadòra”), che a sua volta deriva dallo spagnolo castigliano “acabàr”, ovvero ‘finire’, ‘terminare’, ‘compiere’, ‘completare’, ‘porre fine’. La traduzione letterale sarebbe “donna finitrice”, ‘ucciditrice’, donna che pone fine alle sofferenze dei malati terminali. Noi oggi diciamo “agàbbala”, che vuol dire ‘finiscila’. L’Abate Angius, nel Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, scrive testuali parole: Accabbadoras: viene questo vocabolo dal verbo “accabare”, il quale avendo la sua radice in “cabu” (‘capo’), darebbe ad intendere ‘dare al’ o ‘dare sul capo’, propriamente ‘uccidere percotendo la coppa’. Con esso si vorrebbe significare certe donnicciuole che troncassero l’agonia d’un moribondo e abbreviassero le pene d’una morte stentata, dando loro o sul petto o nella coppa con un corto màzzero (sa mazzucca).
A quando risalgono le prime attestazioni scritte su questa misteriosa figura? I documenti più antichi che riferiscono della femina agabbadòra risalgono al 1700. Il primo scrittore a parlare di questa usanza fu Bonaventura Licheri, un frate gesuita sardo vissuto tra il 1734 e il 1802, che si scagliò con veemenza contro questa pratica. La condanna di Licheri, però, è diventata la testimonianza storica dell’esistenza della figura dell’agabbadòra.
Quale procedura dovevano seguire i parenti del morente prima di rivolgersi all’accabadòra? La credenza popolare voleva che le cause di una lunga agonia andassero ricercate nei trascorsi di vita del morente e in sue possibili colpe, la più grave delle quali era costituita dall’aver bruciato un giogo. Per scoprire se questa infrazione fosse stata o meno commessa, si accostava al capo del morente un giogo in miniatura, che poteva anche essere posto sotto il cuscino per tre giorni e tre notti, così che il moribondo potesse finalmente spirare. Se il malato non fosse morto in questo lasso di tempo, si era autorizzati a chiamare “sa femina agabbadòra”, in quanto lo stato terminale era dato da cause naturali; se, invece, fosse spirato, stava a significare che il malato in vita aveva bruciato un giogo, quindi il modellino del giogo lo liberava da questo omicidio che lui aveva commesso. Si dice che in molti paesi “su jualeddu” veniva usato anche per facilitare il parto. Si trattava di uno strumento che presiedeva alla nascita e alla morte degli individui. Il giogo, strumento indispensabile in una cultura agropastorale, era considerato sacro, pertanto doveva essere trattato con rispetto: aveva la funzione di collegare i due buoi tra di loro; al centro del giogo veniva collocato l’aratro, con cui si arava la terra che veniva seminata con il grano; dal grano si produceva la farina, dalla quale si otteneva il pane, che rappresentava il nutrimento e la vita. La leggenda narra che se in vita non si è violata questa catena, la morte deve essere naturale. Quando l’usura rendeva il giogo inutilizzabile, questo doveva essere comunque conservato e non bruciato o buttato via. Colui che avesse buttato o bruciato un giogo, al momento della morte avrebbe avuto una lunga agonia.
Sig. Pala, grazie alla testimonianza di un sacerdote, lei è venuto a conoscenza dell’ultimo episodio riconducibile all’azione dell’accabadòra. Ci sveli qualche dettaglio… L’ultima volta documentata risale al mese di marzo del 2003 in un paese vicino a Bosa. La femina agabbadòra è stata chiamata dai familiari di un malato di cancro ormai agli sgoccioli. Con la mano destra ha tappato la bocca e il naso del malato, poi ha atteso che sopraggiungesse la fine. L’agabbadòra in questione aveva all’epoca tra gli 80 e gli 85 anni. A lavoro concluso, andò in chiesa a confessarsi, dichiarando di essere “una donna che aiuta a morire”. Poi sparì frettolosamente. Prima di questo, l’ultimo episodio documentato risale al 1952 a Orgosolo e, prima ancora, al 1929 a Luras.
Nel 2010 ha pubblicato anche un libro intitolato Antologia della Femina Agabbadòra – tutto sulla Femina Agabbadòra“… Sì, ad un certo punto ho deciso di trascrivere, ordinare e curare la raccolta del materiale che, in oltre trent’anni di ricerche, sono riuscito a reperire sulla figura della femina agabbadòra, così ho pubblicato un libro che ho voluto scrivere con caratteri di grandi dimensioni perché fosse possibile leggerlo anche senza l’uso degli occhiali.
Cosa si augura per il futuro del Museo, di Luras e della Gallura? Sarei davvero felicissimo se le agenzie di viaggio inserissero nei loro programmi la visita al museo. Mi auguro che ogni comune della Gallura possa avere un museo monotematico che gioverebbe molto al recupero e alla conservazione della cultura e delle tradizioni popolari galluresi. Questo consentirebbe di creare una rete museale.