JANAS E FATE, SIBILLE E STREGHE: PORTE E DONNE MAGICHE IN SARDEGNA

di ALESSANDRA DERRIU

Sepolture scavate nella roccia sono presenti in tutta la Sardegna: la tradizione popolare le chiama Domus de janas (case delle fate o case delle streghe), da tombe-case dei morti a dimore abitate da creature leggendarie di piccola statura che tessevano, cantavano, panificavano, predicevano il futuro, avevano il dono della profezia.

Migliaia di anni fa in Sardegna un popolo cominciò a scavare nella roccia “villaggi” che ospitassero i loro morti, un mondo creato a specchio di quello reale che ad esso si ispirava riproponendo l’architettura delle case, le suppellettili, gli arredi.

Le anime degli antenati sono diventate nel corso dei secoli le misteriose fate delle leggende, e hanno continuato a vivere nelle domus, riutilizzate dalle diverse civiltà che si sono succedute nell’Isola.

Alla base del rito della sepoltura le credenze della vita dopo la morte, la speranza della rinascita. Il defunto non doveva tornare nel mondo dei vivi, doveva avere dunque a disposizione il corredo per vivere nell’aldilà, il mondo capovolto.

Usi simili si riscontrano anche in epoca moderna: bambole di stoffa vengono poste nella bara perché il marito non torni a cercare la moglie, così come oggetti che richiamano la sua vita terrena. I morti sono considerati viventi sebbene in un’altra dimensione con la quale però si può dialogare. La Nostra Storia antica è legata a quella della Storia del mondo. Il termine janas richiama Giano (Janus), divinità romana dal doppio sguardo rivolto al passato e al futuro, immagine affascinante simbolo degli archivisti che sanno bene che l’uomo é il frutto del suo passato, del suo vissuto, necessario a capire e a vivere il presente e ad affrontare il futuro, perché tutto ha un senso solo in relazione a ciò che viviamo nel tempo. Giano è protettore dei varchi e delle porte, dei passaggi, anch’essi dal doppio sguardo, dentro e fuori, anche noi lo siamo, porte, tramite tra ciò che era, ciò che è, ciò che sarà. 
Dall’Irpinia, in Campania, ci arriva una tradizione che è legata a doppio filo con la nostra, è la storia delle Janare: il nome ha forse origine con il culto di Diana e di Iside, da Dianare ovvero le seguaci di Diana, secondo altre teorie deriverebbe da ianua, in latino porta . Le janare divennero poi le streghe protagoniste dei racconti della tradizione contadina beneventana. Donne custodi di un’ antica sapienza che utilizzavano le preghiere e le erbe medicamentose favorendo la cura fisica e psicologica a chi si rivolgeva a loro. Si racconta che raggiungessero, grazie alle erbe, stati alterati di coscienza che le permettessero di intuire dove poter andare ad agire. Sciamane dunque,
indovine, sibille? Streghe.
Le nostre domus sono a tutti gli effetti porte verso l’aldilà, al loro interno sono state scolpite “false porte”, presenti peraltro anche in altre civiltà, come nelle strutture funerarie dell’Antico Egitto, erano varchi attraverso i quali il defunto poteva transitare nell’aldilà. Inoltre nella lingua sarda il termine janna indica la porta e viene usato per indicare toponimi di accesso, come valichi, porti, passaggi: case delle porte dunque, dove sono presenti le porte per l’aldilà.


Il potere della divinazione è stato attribuito a diverse figure mitologiche, tra queste le fate, le parche, le ninfe. Le fate, altro nome latino delle Parche erano coloro che presiedevano al fato, figure femminili della mitologia popolare europea, dotate di poteri magici generalmente usati a fini buoni.

La figura della fata deriva dalla mitologia classica, dalle Parche e dalle Ninfe. Le tre Moire assimilate anche alle Parche romane, sono figure appartenenti alla mitologia greca. Il loro compito era tessere il filo del fato di ogni uomo, svolgerlo ed infine reciderlo segnandone la morte.
Come le parche, le fate presiedono al destino dell’uomo, dispensando vizi o virtù. Come le ninfe, sono spiriti della natura che hanno sembianze di fanciulla, sono guaritrici e protettrici e hanno doni profetici. Tutte queste virtù saranno poi attribuite, spesso in una accezione negativa, alle streghe.
Nella tradizione sarda, le nostre fate, sono le janas, creature legate alla natura come le ninfe e che come le parche anch’esse tessevano e praticavano l’arte della divinazione. Con l’avvento del cristianesimo, la figura della fata viene reinterpretata. Esse diventano quindi a seconda delle versioni angeli caduti, anime di bimbi non battezzati, morti pagani. Tra il XII e il XIII secolo, nel periodo dell’Inquisizione, molte delle creature del folklore vengono demonizzate; è anche il caso delle fate, assimilate alle streghe. Un emblema di questa trasformazione ci arriva dal Medioevo celtico dove Fata Morgana, la sorellastra di Re Artù è in realtà una potentissima strega. Morgana era l’apprendista di mago Merlino, una donna colta che s’intendeva di pratiche di divinazione, astronomia e medicina.


Di sibille sarde si racconta dalla notte dei tempi ai giorni nostri, pensiamo alla sabia sibilla di Ozieri legata ad una cultura antichissima, localmente conosciuta come sa jana maista, l’unica, si dice, tra le sorelle a conoscere il segreto della lievitazione. Lo storico Salvatore Loi ci riporta la figura di Isabella Puddu, la “santa viva” di Bitti che nel 1746 era considerata da tutti santa e profetessa, molto religiosa e devota, faceva la comunione ogni giorno e molta gente si recava da lei per avere consigli, ascoltare le sue profezie e conoscere la sorte dei propri cari defunti. Fino ad arrivare ai nostri giorni e alla “sibilla barbaricina”, Elisabetta Lovico, vissuta a metà del secolo scorso ad Orgosolo, di cui ci parlano Raffaello Marchi e Joyce Lussu.
Porte di pietra dunque, di accesso ad altri mondi, le domus de janas, porte viventi, di collegamento con l’aldilà, con i defunti e con il futuro, come le janas, le sibille, le streghe.

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