di SERGIO PORTAS
A Matteo Locci, alias Gesuino Nemus, l’ho incontrato ch’era fine settembre del 2019, ne fa fede l’unica foto “rubata” che lo ritrae senza mascherina, l’eterno panama bianco alzato sulle ventitrè, da cui spuntano ciocche di capelli candidi, a contrasto con le ciglia in cui il nero è ancora predominante. Eravamo ambedue, alla libreria Hoepli di Milano, a sentire Cristina Caboni presentare il suo ultimo libro per Garzanti: “La casa degli specchi” e mi era scappato di dire (sottovoce per carità) che quello della scrittrice cagliaritana non era certo il genere di libro che prediligevo delle mie onnivore letture. Sia come sia quando, a presentazione finita, mi si è avvicinato e abbiamo preso a chiacchierare mi è apparso subito chiaro che lui è l’assoluta rappresentazione corporea dei personaggi (sardi) di cui infioretta i libri che va scrivendo. Intanto mi preme di dire che è di una simpatia davvero imbattibile, intercala battute a raffica capaci di far ridere anche i morti, prendendo in giro l’universo mondo, lui compreso, in ispecie il mondo sardo (di cui è chiaramente innamorato), è capace di parlarti con il colpo di glottide “di quelli di Fonni”, che è, a sentir lui, tutt’altra cosa di “quello di Oliena”. E sospetto che la sua abilità dei dialetti sardi si spinga fino all’algherese se non al tabarchino. E’ nato a Jerzu (nel ’58), paese dell’Ogliastra sud-orientale, dieci chilometri sotto e siamo nella provincia del sud-Sardegna, e sarà anche per quello che non faccio alcuna fatica a tradurre i “pezzi sardi” di cui sono infarciti i suoi scritti, tipo: “Il poeta canta: Candu tottu si fùrriada a truméntu / Candu tottu ti pàrridi unu spantu / I tòccada a fai comént’ e cun su entu / a s’ammaccionài / e a du torrài in cantu” (da: “La teologia del cinghiale”, Elliot ed. pag. 51). Giusto per i non campidanesi: Quando tutto si tramuta in tormento/ quando tutto si sembra uno spavento/ bisogna fare come con il vento/ rannicchiarsi/ e trasformarlo in canto”. Sembra una favola ma con questa “teologia cinghialesca”, sua opera prima, nel 2015 alla bella età di 57 anni (mai pubblicato un rigo prima) Matteo Locci ha vinto premi letterari che suoi colleghi possono sognarsi solo dopo anni e anni di praticantato: Il Campiello opera prima, un premio scelto dai lettori, un finale al “Bancarella”, e qui sono i librai a votare, il premio John Fante. Quello che si dice: un vero e proprio caso letterario. Nel panorama italiano mi viene in mente solo Gesualdo Bufalino che nel 1981 col suo primo romanzo: “Dicerie dell’untore” per Sellerio, vinse il “Campiello” all’età di 61 anni. E, favola nella favola, per farsi pubblicare il romanzo Locci l’aveva mandato, anonimo, a questa casa editoriale romana di editori indipendenti. E dire che lui ha domicilio a Milano, sede delle più importanti case editrici nazionali, dove è approdato all’età di 16 anni, ultimo di sei figli, babbo analfabeta a cui ha dovuto insegnare a fare la firma. Qui ha iniziato una carriera lavorativa prima di pura sussistenza (come dice il filosofo doc: primum manducare, deinde philosophari), anzi visto l’amore incondizionato che i protagonisti del nostro eroe hanno per il cannonau, primum bibere, prima bere e poi mettersi a far filosofia (e scrivere romanzi). A sentire Matteo, prima di finire disoccupato e decidere che fosse venuta l’ora di recuperare tutti gli scritti di una vita sepolti nella memoria del computer per tentare la carta della pubblicazione, aveva inanellato una trentina di lavori vari ( lui dice che sono 28) spaziando dallo scarico merci dei supermercati, ai lavori nei campi e in fabbrica, e poi via via a quelli più “intellettuali”: correttore di bozze, il copy per alcune agenzie pubblicitarie ma anche attore professionista e lo scrittore di testi televisivi e teatrali. In ogni ritaglio del suo tempo leggeva libri. Seguendo i consigli del poeta argentino Luis Borges, uno dei suoi tanti autori del cuore (un altro è il lusitano Pessoa). Ma tutti i suoi libri riflettono la passione per la letteratura che gli ha fatto compagnia (e da stampella) per gran parte della sua vita, capace com’è di passare da citazioni di Ionesco, a Bertolt Brecht (Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati, da: “I bambini sardi non piangono mai” pag.108) sino a stralci di canzoni le più disparate, da De Andrè a Gorni Kramer. La forma dei suoi libri, di apparente semplicità, è in realtà un precipitato che proviene da un’attenta scelta scritturale, che comprende la ricerca della parola giusta nel giusto contesto e il mescolarvi pezzi di considerazioni mentali che ricordano il “mumble mumble” (sto ruminando pensieri) dei personaggi dei fumetti. Centro di tutto comunque è il paesino di Televras, una sorta di Vigata di sapore montalbanesco, in cui una comunità ristretta di sardi di montagna, la neve è di casa, vivono una vita nel senso della comunità. Dove si conoscono tutti, il bar di Tore è una istituzione e lui stesso ogni tanto mette fuori dei cartelli senza timore di sacrilegio: “Gesù trasformava l’acqua in vino. Non mi stupisce che dodici discepoli lo seguissero dappertutto (da : “L’eresia del cannonau”, pag.11). Come se lo dipinge questo paese che non c’è: “E’ un paese di pochi corpi, è vero, ma di animi nobilissimi, anche se poveri. Poveri, non miseri. Le sembrerà un sofisma, una sottigliezza, ma lo impari subito (sta parlando a un capitano di carabinieri continentale, ndr.). Non ho mai conosciuto, in tanti anni, un paese, seppur piccolo, dove il concetto di dignità regola tutte le relazioni sociali. Tutte, ma proprio tutte (da “I bambini sardi non piangono mai”, pag 63). Un paese dove passato e presente sono ruscelli che scorrono paralleli, l’uno indispensabile all’altro “in una terra ruvida e spigolosa dove niente è come sembra, dove dietro ogni sasso si nasconde una gola, un dirupo, un pericolo, dove per capire bisogna possedere un codice che agli estranei non è dato…un mondo ancestrale, una terra e un tempo altrimenti inaccessibili” (da Stefania Parmeggiani: “Storia di matti e delitti nella Sardegna libera” la Repubblica 17 agosto 2016). Televras in realtà esiste, è un quartiere di Jerzu dove c’è ancora la vecchia scuola elementare e dice Gesuino: “uno dei pochi posti dove sono stato davvero felice nella mia vita. Lì, in quel punto esatto, ho creato il mio mondo letterario, le dinamiche dei personaggi e le mie storie, com’era nello stile dei vecchi cantadores. Un ogliastrino ci sta come il cannonau con il cinghiale arrosta: benissimo” (da Federica Cabras su “Vistanet.it). In queste storie dove ci sono cadaveri e delitti, giudici e poliziotti, nessuno riesce quasi mai a venire a capo delle situazioni, il bandolo della matassa, se pur si scioglie, va sempre per conto suo e nessuno riesce veramente a raccapezzarsi su quello che sta succedendo, perché tutti sono colpevoli di tutto: “La ricerca della verità non è solo competenza degli organi costituiti, dei giudici, dei magistrati o delle forze dell’ordine, ma di tutte le pecore del gregge che soggiacciono miti e acquiescenti alle loro, spesso infauste, decisioni (da: “Il catechismo della pecora” pag.81). E citando Corrado Alvaro: “La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile” (pag.129). Un dubbio questo che ai sardi, nella loro storia, è spesso apparso come retropensiero fastidioso, da non coltivare troppo se non si voleva cedere alla disperazione. Matteo Locci usa le storie per parlare della Sardegna di oggi, e un po’ per quella che lui pensa fosse la Sardegna di ieri, mitizzando il tutto, usa indagini e interrogatori quasi in sottofondo, in realtà non sono importanti nell’economia dei suoi romanzi, solo un trucco retorico per addivenire a un intento antropologico che mira a identificare il suo popolo, il popolo sardo, come qualcosa di unico, diverso, da “quelli che vengono dal continente”. Si può leggere in “Ora pro loco”: “Sei proprio stupido, pensi ai turisti come quantità. Io li penso come “qualità”. Pagu genti bella festa. L’abbiamo sempre detto. “Poca gente bella festa”. E abbiamo sempre riso di questo (pag.83). Gesuino Némus scrittore affermato, eppure nemus come nessuno: “Mi comporto esattamente come un contadino, un pastore o un muratore”, rivela. “Non è che se un anno fai un buon vino, un ottimo pecorino o una bella casa, te la guardi e non lavori più. Essere stato costretto a lavorare fin da ragazzo mi ha insegnato moltissimo. Io vivo solo di scrittura, non ho un doppio lavoro e altro non faccio se non dedicarmi a quello che è sempre stato il sogno della mia vita. Normale che la mia produzione sia elevata” (F. Cabras, op.cit.). Ci eravamo scambiati i numeri di telefonino, con Matteo ma, sarà colpa del covid, ai miei reiterati tentativi il suo squilla sempre a vuoto, e dire che mi aveva promesso di farmi avere il suo ultimo “L’eresia del cannonau”, uscito sempre per Elliot. Come lo incrocio gli faccio la domanda che tutti si scordano di fargli: “Ma quanti litri di cannonau di Jerzu ti bevi, prima di inventarti questi titoli?”.