di MATTEO PORRU
L’anziano con la lunga barba bianca che passeggia per Pattada si chiama Giovanni Maria, ma in paese si chiama Juànne. Chissà da quanto si sente chiamare così. Risulta con nomi e cognomi soltanto come consigliere e assessore comunale, e come Limbudu nelle poesie che la poesia, quella sarda, l’hanno stravolta. Ma Juànne è il nome che, per quelle strade del centro, si sente dire da anni, tanti. Ed è quello che gli appartiene.
Juànne è nato lì, il 19 agosto del 1823. Il padre si chiama Paolo. La madre, poetessa, Maria. È figlio d’arte, Giovanni, sente versi e metriche in sardo fin da bambino, gli fanno da ninna nanna e da melodia. Ci cresce insieme, forse ci è nato: fatto sta che, appena impara a padroneggiarle bene, le parole, ci gioca. E gioca bene, un gioco diverso da quello della madre e dai suoi versi delicati.
Perchè Juànne, la poesia, più che comporla, la cambia. Alterna sguardi realisti e crudi a versi ironici e, quasi sempre, sottili e pungenti.
Racconta Pattada e la sua gente, le sue piaghe e il suo tempo, senza esclusione di colpi. Ci va giù tanto pesante che pure le autorità religiose del paese, pur di arginare il fiume in piena di critiche, gli consigliano caldamente, per poi diffidarlo con nota ufficiale, di non comporre altro e di non divulgare quello che ha già scritto. Cosa che gli vale il soprannome più noto di tutti: Limbudu, il linguacciuto.
È un mondo a sè, Juànne: è un uomo di bottega, vive di sartoria e di artigianato, usa le mani per lavoro e per scrivere, e ha sviluppato uno sguardo attentissimo e precisissimo sulle persone, come le mettesse a fuoco, come se squadrasse, le scavasse dentro. E no, non si ferma, non rinuncia a scrivere. Di più: Limbudu crea uno schema metrico innovativo, undici versi misti fra settenari ed endecasillabi. La chiama undighina e la regala a tutta la produzione poetica in limba che sarebbe seguita negli anni a venire, un metro poi usato da autori raffinati e popolari, per poesie di occasione e componimenti a taulinu.
Quelli di Limbudu sono componimenti molto lunghi ma immediati ed efficaci, attenti ai difetti e alle fragilità dell’essere umano, ripubblicati e diffusi sia all’inizio del Novecento sia nei primi anni Duemila. Raccontano una comunità bacchettata che Giovanni, però, adora. Si impegna in politica e nel sociale pur di valorizzarla come merita. La lascia nel 1907 ma forse, in fondo, non l’ha lasciata mai. Forse è ancora lì, pronto a sbirciare fra le vite della gente per cogliere un difetto, un vezzo, un altro vizio. Forse è ancora lì. E cammina per Pattada.