di ANGELICA GRIVEL SERRA
Stefania Morgante disegna. Lo fa da che ha memoria di sé. Il richiamo primigenio all’arte proviene dalla sua più remota infanzia, ma non saprebbe datare un istante preciso in cui cristallizzare l’attimo del compiersi della sua sorte: quella del disegno è un’esigenza che soffonde di sé tutte le sue età. Sa che il disegno la fa sentire presente in modo felice nel mondo.
I suoi occhi indugiano per ore sulle tele impressioniste, compensando nell’osservazione del dettaglio pittorico tutto quel che lei tiene per sé, senza volgerlo in parola. La sua propensione al silenzio è di certo diametralmente proporzionale al fervore della sua creatività.
Sarda per amore e per vincolo nuziale, ma nata a Brindisi sul calar del 1967, Stefania trae dal suo percorso di formazione un insegnamento fondamentale: diffidare dei maestri. Azzarda la scelta di abbandonare, nella soffitta dei pensieri smessi, il consiglio che da tutti loro le giunge monotono: quello di non rischiare neanche per scommessa il sogno di seguire l’incognita della vocazione, a favore della semplicità comoda di un mestiere più facile. I maestri le indicano con sufficienza la porta di uscita, senza mai affiancarla né tantomeno condurla verso quella d’entrata.
Ed è proprio in forza di ciò che Stefania non esita quindi a creare la sua, di porta d’accesso a quel mondo che davvero per lei urge in forma di nitido destino. Se per anni è insegnante di disegno e storia dell’arte, e addirittura ufficio stampa per il teatro, il suo inesausto ritorno all’acquerello e alla matita è appassionato e fatale. L’istanza del suo disegnare, così essenziale per lei, si estende a una ispirazione coloratissima che si fa anche pragmatica: il suo blog “Stefania Morgante – The Morst” è una vetrina lussureggiante aperta sul suo creare arte non solo sulla carta, ma anche sugli oggetti. Sciarpe, foulards, persino quaderni e calendari diventano per l’artista l’occasione plastica di tracciarvi sopra il suo marchio. La linea finemente stilizzata di un tratto che assume vita nelle sagome snelle di donne e figure femminili, una geometria morbida che le fissa quasi sempre di profilo e a volte senza labbra, attorniate dalla fantasia di vesti, veli e accessori dalle cromature sempre originali e assurdamente brillanti. Ed è proprio su quei volti ermetici che Stefania appone, con la punta sottile della grafite, le curve brevi delle palpebre, glabre e chiuse sul mondo. Pienamente consapevoli, all’apparenza arrese, di fatto mai domite.
Come descriveresti la tua personalità in parole essenziali? Intimista, rigorosa, a tratti malinconia a tratti ottimista, piena di domande senza risposta, empatica, timida, dubbiosa, alle volte diffidente.
Qual è la più grande sfida che percepisci al momento nel tuo ruolo e come hai intenzione di superarla? Definirmi professionalmente. Poter fare quello che mi piace e trovare riscontro nel pubblico. È un lavoro costante, di sfrondature, di incontri deludenti esaltanti, di proposte che sembrano andare in porto e poi muoiono, di progetti banali che poi si rivelano interessanti. È come muovere pedine e in parte le regole mentre giochi.
Come superare un’estrema sfida? Concentrandosi, avendo fiducia, credendoci. Non sempre è facile, il più delle volte i no superano i sì per mesi. Ma questa è la partita che ho scelto.
Qual è stato il più grande fallimento, o la delusione più cocente dell’ultimo, complesso anno e perché credi che sia accaduto? Avevo creato un gruppo di persone che seguivano ciò che facevo. Erano personalità eterogenee, ma credevo ci fosse il collante del mio mondo. Mi sbagliavo. A un certo punto si faticava a comunicare, le persone erano livorose, alcune stanche, altre offese. Le discussioni erano rare. Ho sbagliato a mettere insieme le persone con l’unico fulcro che era me e ciò che facevo. Scrittori, artisti, medici, musicisti, insegnanti, ognuno con me aveva uno splendido rapporto, ma messi in un gruppo non ha funzionato. Avevo malessere io e credo anche gli altri. Ho sciolto il gruppo e sono rimasta con l’utopia del dialogo di gruppo. Ho imparato che non sempre un’idea sociale può funzionare sulla base di teorie personali. Bisogna incontrarsi su qualche piano e mai forzare.
Cosa significa per te il tuo fare arte, in un mondo in cui la cultura in tutte le sue forme è più che mai necessaria e salvifica? Prima di tutto è espressione di me, quindi il primo atto è egoistico. Per stare al mondo io devo fare usato, arte. Poi l’obiettivo principe, il grande obiettivo, sarebbe quello di interpretare il mondo, suggerire vie per abitarlo, per migliorarlo; essendo un’idea ambiziosa, chiaramente può essere misera, effimera, inutile. In Italia è più difficile che altrove imporsi come artista. Sono pochi quelli affermati e occupano tutti gli spazi possibili. Rimango dell’idea, allora, che sia solo io, con il mio modo di stare al mondo. Poi, se il mondo sarà interessato a me, chi può saperlo, le variabili sono talmente tante…