di MATTEO PORRU
L’uomo che passeggia da solo in centro a Torino con lo sguardo chino e spento l’hanno dimenticato tutti, o quasi. Riesce a campare da mesi quasi per miracolo, con le poche migliaia di lire che gli passano le redazioni della città per gli articoli che scrive, se li pubblicano, e gli bastano a malapena per togliersi di dosso la fame. Ha un fortissimo accento sardo e il cognome lo è ancora di più: si chiama Vittorio Angius ed è morto il 19 marzo del 1862, dopo anni trascorsi sotto vuoto, senza aria. Eppure prima, perchè c’è stato un prima, e che prima, quando la vita gli aveva dato la fede, la penna, un vigilissimo sguardo sul mondo e gli brillavano gli occhi davanti alle storie che leggeva o sentiva raccontare, prima sì che lo ricordavano. Il prima lo ricordava bene anche lui.
Era nato a Cagliari nel 1797 e a quindici anni era già fra gli scolopi. Si sarebbe laureato in dommatica ma gli piaceva la storia, l’epigrafia, tutto quello che resta, il valore delle parole. Era un giovane brillante e lo capirono subito anche Ludovico Baille e Alberto Lamarmora, con i quali era amico di pennino. Talmente brillante che a trentadue anni fu nominato prefetto delle Scuole pie e professore di retorica all’università di Sassari.
Fu lì che iniziò a scrivere, in latino (il Cunservet Deus su Re su tutti, che sarebbe diventato l´inno della corte torinese) e in italiano: novelle, poesie d’occasione, inni (come l’Inno a Sardo Padre, fondatore del nome Sardo) e un romanzo, “Leonora d’Arborea”, che gli costò però una durissima critica dalla comunità accademica, perchè le fonti e le carte su cui si era basato, semplicemente, erano false.
Intanto, grazie all’amicizia con Baille, entrò in contatto strettissimo con l’abate Goffredo Casalis, che al tempo lavorava al Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, un progetto storiografico immenso al quale Angius collaborò scrivendo e curando tutta la sezione dedicata alla Sardegna e, di fatto, attraversando l’isola in lungo e in largo, dai paesini alle città, raccogliendo tutti i dati e le storie utili alla sua ricerca monumentale, su feudi, comuni e nozioni archeologiche.
Il clima lavorativo a Sassari però si incupì gradualmente: perchè Vittorio Angius, a differenza dei suoi colleghi, non usava mai punizioni corporali per i suoi studenti, gli facevano orrore, e si batteva per il maggiore rispetto degli allievi. Lo scandalo, di certo ben più articolato, gli costò l’espulsione dalla comunità e pure la perdita del titolo.
Angius tornò a Cagliari e venne nominato bibliotecario dell’Università. Diresse un giornale letterario-scientifico, La biblioteca sarda, e poi altri due, Il Dagherrotipo e Il Liceo, che però durarono ben poco. In quegli anni, finì anche un’altra opera monumentale, Sulle famiglie nobili della Monarchia di Savoia, un excursus a metà fra il saggio e la narrazione della più importante famiglia piemontese.
L’ultima tegola lo colpì molto male: un altro contrasto, dai toni accesissimi, con il politico Giovanni Prati, gli causò addirittura l’espulsione dal Regno Sardo. Fu allora che Angius lasciò gli scolopi, strappando i rapporti con quella realtà austera e bigotta nella quale non si riconosceva più, e si trasferì a Torino. Entrò in politica, alla Camera, dove tentò di favorire lo sviluppo economico della Sardegna e perorarne la causa. Ma la sua oratoria, a detta dei colleghi noiosa e puntigliosa, lo rese presto una macchietta e la sua voce fu subito screditata. Le ultime opere le pubblicò da sè, un opuscolo sulla lingua italiana e due saggi tecnici, inattesi, di aerostatica.
L’ultima spiaggia fu il giornalismo, che però non lo mantenne abbastanza attivo e in quel momento iniziò a spegnersi dentro, piano piano, senza stimoli, denaro o idee.
Vittorio Angius è morto solo ma non ha vissuto invano. La sua opera narrativa, storiografica e la modernità della sua visione dell’insegnamento raccontano un uomo straordinariamente acuto, un visionario, un’idealista. Un uomo che ha avuto il coraggio di scoprire e di innovare, anche contro il tempo. E di raccontare storie immense, giganti. Molto più di lui. Molto più di noi.