di FRANCESCA BIANCHI
Terra tra acque calme e senza pace,
colline del Sinis gialle di ginestre,
approdo di vascelli dei popoli del mare,
là sorse una città, fu chiamata Tharros.
S’alzarono le mura, alti templi e palazzi,
lingue diverse dall’Africa e da Oriente,
rotolar di carri tra le cento botteghe,
Tanit, potente dea d’amore e morte.
Tuniche e manti candidi e vermigli,
nei templi, nelle terme, nei mercati,
e sul basalto il suon delle legioni.
Si fusero le genti in una stirpe.
Bisanzio, Vandali e Regno d’Arborea,
dei Saraceni infine la razzia,
le mura atterrate, scomparve la città,
restano nude pietre a raccontar la storia.
Corsi son gli anni, i secoli, i millenni,
lontani son quei popoli e i loro dei,
uguale è quel mare, quell’angolo di cielo,
ma soli siamo noi con le nostre domande
Leggendo questa meravigliosa poesia di Enrico Valdès, medico ed autore di romanzi e testi poetici, che ringrazio per la gentile concessione, mi rivedo sulla torre spagnola di San Giovanni di Sinis, costruita alla fine del XVI secolo sulla sommità del colle che domina l’Area Archeologica di Tharros, mentre contemplo dall’alto tutta la meraviglia che si offre al mio sguardo e cerco di immaginare la vita di coloro che anticamente approdavano in questo luogo dal fascino senza tempo. Da questo straordinario punto panoramico che domina tutto il golfo di Oristano si resta incantati ad ammirare su un versante il cosiddetto “mare morto”, così chiamato perché, essendo protetto dal vento, non ha mai onde e fin dall’antichità ha consentito un approdo tranquillo e sicuro; sull’altro versante il “mare vivo”, giorno in cui mi sono recata in visita lì, era davvero impetuoso, agitato dal forte e gelido maestrale che soffiava incessantemente, rendendo l’atmosfera ancora più magica.
L’antica città di Tharros, ubicata all’estremità meridionale della Penisola del Sinis, in territorio di Cabras (OR), fu fondata intorno al 730-700 dai Fenici in un’area già frequentata in età nuragica. Come si può leggere sul sito dedicato all’Area Archeologica, su una delle tre colline su cui sorge la città, la più settentrionale, nota con il nome di “Su Murru Mannu” (in sardo “grande muso”), è visibile ancora oggi un importante villaggio protostorico, risalente all’età del Bronzo medio-recente: i resti di un monumento nuragico sono stati riconosciuti alla base della torre spagnola del colle di S. Giovanni; altri due nuraghi si trovano sul Capo S. Marco. Non conosciamo l’esatta ubicazione dell’abitato fenicio, ma abbiamo alcune testimonianze di ambito funerario e votivo. Fin da questo periodo sono in uso contemporaneamente due necropoli: quella più nota è posta sul Capo S. Marco, l’altra si trova oggi all’interno del villaggio moderno di S. Giovanni di Sinis. Le sepolture, databili a partire dall’ultimo quarto del VII sec. a.C., sono nella maggior parte dei casi semplici fosse scavate nella sabbia o nella roccia affiorante in cui sono deposti i resti incinerati dei defunti, accompagnati dai corredi ceramici e da oggetti personali. Per quanto riguarda l’ambito del sacro, si possono ricordare i materiali più antichi rinvenuti nel tofet, il tipico santuario fenicio-punico a cielo aperto, circondato da un recinto sacro e contenente le urne con i resti incinerati dei bambini morti in tenerissima età e degli animali sacrificati, e le stele, veri e propri signacoli in pietra con il simbolo o l’immagine della divinità posta su un trono o all’interno di un tempietto in miniatura.
In età punica la città viene monumentalizzata: nel periodo compreso tra la fine del VI secolo e il 238 a.C., anno della conquista romana dell’isola, vengono costruiti numerosi edifici che ancora in parte si conservano sotto quelli di età successiva. Va ricordata l’imponente cinta fortificata che chiude la città da possibili attacchi da terra e da mare; un complesso sistema si attesta all’estremità settentrionale di “Su Murru Mannu” e da lì prosegue fino alla sommità della collina di S. Giovanni, dove viene impiantata, al posto del preesistente nuraghe, una torre o una struttura fortificata. Il tofet, che viene ora compreso all’interno dello spazio fortificato, continua la sua attività, subendo varie risistemazioni. Nell’area ad ovest del santuario si impianta, verosimilmente alla fine del V sec. a.C., un importante quartiere artigianale specializzato nella lavorazione del ferro. Ad età punica risalgono alcuni tra i più importanti luoghi di culto di Tharros, tra cui il cosiddetto tempio monumentale o “tempio delle semicolonne doriche”.
Sono da attribuire ad età punica le caratteristiche tombe a camera visibili sul Capo S. Marco e tra le case del villaggio di S. Giovanni. Queste sepolture ospitavano gli inumati, deposti in posizione supina insieme a ricchi corredi ceramici e a oggetti personali anche preziosi. Proviene proprio da queste tombe la maggior parte dei numerosissimi manufatti (ceramiche, terrecotte, gioielli, amuleti, scarabei) che oggi si trovano custoditi presso i maggiori musei sardi, italiani e stranieri, recuperati in occasione degli scavi regolari e soprattutto clandestini che almeno dal 1830 hanno interessato le necropoli tharrensi.
A partire dalla conquista romana dell’isola, avvenuta nel 238 a.C., iniziò un processo di profondo cambiamento che ebbe compimento solo in età romano-imperiale. All’età repubblicana viene fatta risalire la costruzione del cosiddetto “tempietto K”, attribuito al II secolo a.C. che, pur rifacendosi a schemi architettonici tipicamente italici, conserva alcuni elementi di tradizione punica. Il reimpiego, nel complesso monumentale romano, di due blocchi che recano incise alcune lettere semitiche ha fatto ipotizzare l’esistenza di un preesistente tempio, definito per tale ragione “tempio delle iscrizioni puniche”. Nella successiva età imperiale la città subisce un’imponente risistemazione urbanistica: attorno al II secolo d.C. le strade vengono dotate di una pavimentazione in basalto e viene realizzato un sistema fognario molto articolato per lo smaltimento delle acque bianche; vengono edificati numerosi edifici pubblici monumentali, tra cui tre impianti termali, ubicati nella parte centrale della città e dotati di spogliatoi, ambienti riscaldati artificialmente e altri in cui potevano farsi dei bagni freddi, in vari casi decorati con mosaici policromi. All’età imperiale risale l’acquedotto, i cui resti sono in parte visibili lungo la strada moderna che conduce agli scavi; a questo viene connesso il cosiddetto “castellum aquae”, un grande edificio posto al centro della città, interpretato come deposito dell’acqua portata a Tharros dall’acquedotto.
Le aree funerarie appaiono più estese rispetto al periodo precedente: tombe romane ad inumazione e ad incinerazione compaiono lungo l’intera fascia costiera tra il Capo S. Marco e il villaggio di S. Giovanni, all’interno del fossato di “Su Murru Mannu” e nell’area compresa tra la Chiesa di S. Giovanni e la costa. Tra i numerosi tipi tombali documentati, si segnalano deposizioni in semplici fosse, sarcofagi monolitici, tombe alla cappuccina, inumazioni entro anforoni commerciali (enchytrismoi), tombe a cupa, incinerazioni in urna fittile o in piombo. In età paleocristiana ed altomedievale le principali strutture pubbliche romane subiscono delle modifiche. Il continuo spoglio delle strutture antiche, perpetrato per secoli, ha notevolmente pregiudicato la ricostruzione di questa fase tarda della storia di Tharros. Sappiamo di una lenta decadenza, dovuta anche alle incursioni dei Saraceni, e di un progressivo spopolamento, sebbene la sede episcopale sia rimasta ancora a lungo nella città. È solo nel 1071 che questa viene trasferita a Oristano, divenuta anche capitale giudicale, decretando ufficialmente la fine del centro antico http://www.tharros.sardegna.it/
Dopo la bella mattinata trascorsa a Tharros, ho visitato un altro sito gestito sempre dalla Società Cooperativa Penisola del Sinis: il Civico Museo Archeologico di Cabras, inaugurato nel 1997 e dedicato a Giovanni Marongiu, Ministro della Repubblica e grande sostenitore e promotore del progetto museale.
La struttura custodisce importanti testimonianze del territorio dalla preistoria al Medioevo: sono esposti in maniera permanente materiali provenienti dall’insediamento di Cuccuru is Arrius e di Sa Osa, dalla città di Tharros e dal relitto romano di Mal di Ventre. Come si può leggere sul sito del Museo, la prima sezione della struttura è dedicata a Cuccuru is Arrius, un grande sito preistorico scavato negli anni 1976-1980. Le tracce archeologiche più antiche provengono dalla necropoli del Neolitico medio (V millennio a.C.), nelle cui tombe a grotticella artificiale i defunti erano deposti in posizione fetale, accompagnati da ricchi corredi costituiti da vasi ceramici, statuine femminili in pietra, monili e strumenti in ossidiana e in osso. Le successive fasi abitative, dal Neolitico superiore alle fasi iniziali dell’Età del Rame (fine V-inizi III millennio a.C.), sono documentate da ceramiche lisce e con ricche decorazioni incise, oggetti per la filatura e la tessitura, statuine votive in ceramica e in marmo, strumenti in pietra e in rame. La frequentazione dell’area in epoca nuragica è attestata dalla presenza di un tempio a pozzo che venne riutilizzato in epoca romano-repubblicana (III-I sec. a.C.) come sede di un culto agrario e salutifero, cui si riferiscono numerose statuine femminili, altri tipi di terrecotte e altri oggetti votivi. I materiali di una necropoli di età imperiale romana (I-III sec. d.C.), con tombe ad incinerazione ed inumazione, riportano alle ultime fasi di vita dell’insediamento.