poesia di GIUSEPPE FLORE
commento di GIANRAIMONDO FARINA
Che fotzas
Furriadas dae su entu
Chena ischire cale fit s’affilada
Lassende affettoso
E d’onzi caru ammentu
Sunt movidos profugos
Dae sa bidda cara
Oe si narada e s’iscriede
De cussa zente
Zente Zuliana Zente istriana
Zente dae tempus’ irmentigada
E torrant
Cussos tristos ammentos
Chi s’istoria
Chin prepotentzia at ortuladu
Che vulcanu
cando s’ischidat arrennegadu
E unu carru supra’e tottu
Restat in mente
Unu carru chi mustrada
Irventolende
Attutturadu unu tricolore
Sambenende
Una bandhela
Chi a sos frades paret nende:
Custu est logu meu
Ainue mi ses zuttende..?
Eo so Istrianu
So Sardu Piemontesu so Romanu
Eo so Italianu…
Nara!! Ainue mi ses zuttende..?
Un modo diverso per ricordare la tragedia del popolo giuliano, istriano e dalmata; un modo originale, per la Sardegna, di rendere onore a questi 350 mila fratelli italiani che, dal 1947 al 1954, hanno dovuto abbandonare la loro terra, allora Italia, lasciando tutto: case, cari, terreni, sradicati a forza… . Il tutto con questa commovente poesia in cui Peppe Flore, con tutto il suo stile, allo stesso tempo conciso, delicato e chiaro, rende bene il dramma vissuto da questo popolo italiano. E lo rende in lingua sarda: lingua che, per alcuni di loro, dapprima sconosciuta e lontana, è diventata conosciuta e familiare. Già il titolo è molto bello e significativo: “Fotzas de su ‘47”, “foglie del 47”. Il poeta s’immagine questo popolo come foglie sbattute dal vento, cadute dagli alberi, senza radici. Foglie che cadono, “chena ischire cale siada s’affilada”. Il termine affilada, in sardo, non ha un corrispettivo esatto ma può indicare la strada maestra, il filo principale da seguire di un gomitolo aggrovigliato. Gli stessi esuli, nelle loro testimonianze lo dicono esplicitamente: siamo stati sradicati dalla nostra terra, lasciando i nostri affetti, i nostri cari ricordi (“Lassende affettoso e d’onzi caru ammentu”). Il poeta è consapevole del dramma che hanno vissuto, non parla dell’orrore e della tragedia delle foibe (altra pagina sanguinosa di questa drammatica storia), ma si concentra sul dolore e sulla sofferenza della profuganza di un popolo sbattuto e diviso fra 109 C.R.P (Centri di Raccolta Profughi):storia per decenni ignorata e misconosciuta dall’Italia repubblicana, volutamente, per questioni di politica ed equilibri internazionali sopravvenuti. Ebbene, oggi si parla di questa gente prima dimenticata (“Oe si narada de cussa zente…dae tempus irmentigada”).
E ritornano, allora, i ricordi, di cui sono impregnate le ultime strofe di questa bella poesia. Ricordi che, innanzitutto, ritornano drammatici e con prepotenza, come un vulcano che si risveglia dannato (incisivo il riferimento al sardo “arrenegadu”), dopo essere stato per tanto tempo inattivo.
E quali sono i ricordi di quest’esodo che, con le dovute proporzioni, è stato biblico, con paesi e città interamente svuotate della loro anima? La prima figura che rimane impressa all’attento poeta è quella del carro (“su carru supra ‘e tottu restat in mente”). Un carro con un tricolore che sventola insanguinato (“unu carru chi mustrada unu tricolore sambenende”)
Il secondo ricordo impresso è proprio quella bandiera, quella bandiera italiana tante volte onorata ed ora calpestata, ma da loro, esuli, estremamente difesa. Una bandiera che, nell’immaginario del poeta, sembra parlare e dire: “Questa è casa mia! (…) Io sono istriano, sono piemontese, sono sardo, sono romano, sono italiano.” A cui, però, si aggiunge una domanda retorica, rivolta ad un altro “noi”, che già sottintende un’amara e triste constatazione. Purtroppo, quella bandiera è rimasta sola, inascoltata ed umiliata da un Paese senza memoria.