di ARGENTINO TELLINI
Ci accoglie nella sua elegante villa di Puntaldìa, presso San Teodoro, con un grande sorriso, affacciato sulla veranda. Gianfranco Zola da Oliena non ha mai perso la semplicità dei grandi, uno dei suoi punti di forza, un valore trasmesso dall’educazione familiare. Il talento invece lo ha ricevuto in dono da madre natura, su questo non possono esserci titubanze. Ma senza quel carattere, Gianfranco, roccia sarda antica e dura, non avrebbe costellato la sua carriera di trionfi e grandi soddisfazioni.
Gianfranco, qual è stato il campionato in cui sei diventato Zola? Il primo anno in serie D con la Nuorese, annata 1985/86. Abbiamo iniziato la stagione in pochi. Il primo allenamento addirittura in tre: io, Perico e Catte. Ogni tanto se ne aggiungeva uno, come Biagio Sanna e Puggioni. Poi venne ad allenarci Giommaria Mele, il mio vecchio allenatore della Corrasi. Disputammo un grande girone di ritorno e giocammo alla pari anche con Olbia, Tharros e Porto Torres, che erano tra le squadre migliori di quel girone. Io segnai reti decisive.
Poi il trasferimento alla Torres. Inizi difficili. È vero che furono i senatori a volerti in campo? Devo dire di sì. La Torres aveva preso Rubbia, un buon giocatore che aveva caratteristiche diverse dalle mie. Leonardi puntava su elementi esperti. Io comunque mi allenavo con puntiglio. Dopo qualche mese furono Ennas e qualche altro compagno a volermi in campo. Leonardi accettò la sfida e andò molto bene. Disputammo una grande stagione e venimmo promossi in C1. Leonardi comunque mi fece crescere.
Sei in contatto con quei giocatori? Certo. Con la Torres ho passato stagioni meravigliose, supportati da un pubblico caloroso. E poi come dimenticare Piga, Tolu, Pinna, Ennas, Dossena, Tamponi e tutti gli altri? Una menzione particolare vorrei dedicarla al nostro capitano Del Favero, che oggi non c’è più. Una grande persona. E poi che splendida dirigenza, guidata dal presidente Rubattu.
Erano tempi migliori, dimmi la verità. Erano tempi diversi. Questo sì, e forse più genuini. Pensa che ad esempio con Gianfranco Matteoli e Vittorio Pusceddu partecipavano al torneo estivo dei bar di Buddusò. Per non parlare di quei bellissimi tornei di calcetto disputati a Porto Torres, seguiti da un folto pubblico. Io giocavo in avanti, in coppia con Francolino Fiori, ex Torres, Tempio e Spezia. Un giocatore abilissimo.
Poi il passaggio al Napoli. Andai in serie A grandicello, a 23 anni. Non ero spaventato, ma molto carico e ansioso di giocare nella città partenopea, assieme a Maradona e Careca, solo per citare alcuni nomi
Nel tuo trasferimento fu decisivo il chiacchierato Luciano Moggi. Che tipo era? Moggi per me fu fondamentale. Credette in un ragazzo che proveniva dalla serie C. Non entro nel merito di certi giudizi su di lui. Moggi è un uomo deciso e un intenditore di calcio come pochi.
Non posso non chiederti di Maradona… Come calciatore è stato il migliore. Maradona è anche un uomo generoso, un trascinatore, soprattutto una persona buona, al di là delle sue vicissitudini. Io lo conosco bene e mi dispiace molto quando si danno giudizi affrettati sul suo conto. In campo inoltre da Diego ho appreso tanto, anche sui calci di punizione. La cosa che mi fece più piacere di Maradona fu quando andò via da Napoli e disse a Ferlaino di affidare a me la sua maglia numero 10. Questo per me è ancora un grande orgoglio, che mi permise di giocare a Napoli stagioni indimenticabili.
Anche a Parma del resto furono belle annate. A Parma eravamo una grande squadra. Ottime stagioni, qualche importante Coppa vinta. Diventammo una realtà italiana ed europea. Ricordo bene il mister Nevio Scala, bravissimo e sottovalutato. Poi con noi si allenava un ragazzino senza paura, giocava portiere nella primavera: si chiamava Gigi Buffon. Esordì in serie A 17 anni contro il Milan e lo fece come se stesse giocando nel giardino di casa sua. Un predestinato.
Quel calcio degli Anni ’90 era più competitivo? Penso di sì, sicuramente più difficile. In Italia e nel nostro campionato c’erano più campioni e marcature a volte terribili. Gli attaccanti non erano tutelati come adesso
Poi a Parma venne Ancelotti. Tu fosti costretto ad andartene… Ancelotti allora aveva le sue idee. Il suo modulo era il 4-4-2. Io forse avrei dovuto giocare esterno a centrocampo. Ho preferito andare via senza polemiche e con Carlo ho mantenuto un rapporto di reciproca stima.
Gli inglesi dicono che non amino troppo gli italiani, eppure a te hanno voluto un gran bene. Non è vero che gli inglesi non ci amino. Tutt’altro. Hanno solo abitudini e modi di vivere diversi. Forse preferiscono meno parole e più fatti. Gli anni del Chelsea sono stati quelli della mia definitiva consacrazione. Le atmosfere sono irripetibili. Ho vinto anche tanto.
Eppure in una finale europea, nel 1998, qualcuno ti ha messo in panchina? Te lo ricordi ancora! ( nda ride di gusto). Vialli mi lasciò fuori nella finale di Coppa delle Coppe contro lo Stoccarda. Io quella sera ero veramente arrabbiato, teso come la corda di un violino. Poi al secondo tempo Gianluca mi fece entrare. Volevo mangiarmi la palla. La prima volta che la toccai calciai fortissimo e la sfera andò dentro.
Tiro, vittoria e Coppa: 1 – 0. Non lo dimenticherò mai.
Che cosa hai sentito dentro quando la Regina Elisabetta ti ha nominato Baronetto nel 2004? Una sensazione incredibile, davvero non me lo aspettavo. Sono cresciuto a Oliena, in una terra che mi ha insegnato molto e sotto le ali di una famiglia onesta. Penso che questo riconoscimento sia merito di tutta la Sardegna. Non solo di Gianfranco Zola
Infine, per il calcio giocato, il tuo rientro a Cagliari. Ci tenevo a tornare nella mia isola. Sono stati due anni intensi. Il primo puro divertimento, in serie B. Giocavamo a Tempio le partite in casa, tutta la Gallura ci spingeva. Fummo promossi in serie A con grande merito.
Anche in serie A fu un’ottima annata. Avevamo una bella squadra. Io spesso giocavo dietro un tridente composto da Langella, Suazo ed Esposito. Ci toglieremo belle soddisfazioni, anche al Sant’Elia, spinti da un tifo appassionato.
Come sono i tuoi rapporti col Presidente Cellino? Buoni, anche se non ci sentiamo spesso.
Dopo l’abbandono hai intrapreso la carriera di allenatore. Come valuti le tue esperienze? Tutte interessanti e stimolanti, compresa quella del West Ham, dove ho conservato un rapporto magnifico con i tifosi. Ora ho ricevuto qualche offerta, persino dall’Australia, ma attendo altre proposte. Il mio cammino da tecnico non è certo concluso.
A proposito di West Ham, hai conosciuto Steve Harris, il suo grande tifoso, leader degli Iron Maiden. Sì, un grande musicista, un grande tifoso, un sincero appassionato di calcio.
Ogni carriera ha un grande rimpianto, il tuo penso sia Usa ’94 e quell’incredibile amarezza ed espulsione con la Nigeria. Ancora non mi do pace. Fu tutto così assurdo, entrai e dopo pochi secondi mi vidi sventolare il rosso senza avere fatto nulla. Fu un’ingiustizia.
Com’erano i tuoi rapporti con Arrigo Sacchi? Sempre buoni. Sacchi è stato un martello, un allenatore esigente, quasi ossessivo, ma un innovatore del calcio.
Però in finale contro il Brasile tu eri disponibile e lui fece giocare Baggio infortunato, relegandoti in panchina. Che avresti fatto al suo posto? Se chiedi a me (nda ride ancora di gusto) io “mi sarei schierato” ed infatti avrei voluto giocare, ma Baggio ci fece arrivare in finale con i suoi gol. Un bel dilemma quindi.
La Sardegna vive un momento molto difficile, anche per la ben nota pandemia. Che cosa vuoi dire ai conterranei? Di non mollare, ma so bene che siamo un popolo tenace e abituato alla lotta. Poi vorrei mandare un messaggio ai tanti giovani sardi. Provate a investire nella nostra terra, cercate nuove opportunità imprenditoriali. Lo so, non è facile ma la Sardegna ha grandi potenzialità economiche e il turismo è un’arma a nostro favore, da sfruttare e valorizzare.