di SERGIO PORTAS
Riconosco di essermi formata una cultura un po’ datata, che da bel un pezzo ha passato il mezzo secolo, essenzialmente costruita sulla lettura di libri e giornali, poco so di musica e d’arte, quasi nulla di televisione e cinema, ignoro cosa siano i videogames, Alessandro Uras scrivendone sul “Manifesto” del 2 gennaio dice che questi sono probabilmente il media più comunitario che esiste, un vero e proprio fenomeno globale che nel 2020 ha generato introiti per 165 miliardi di dollari. E, bontà sua, spiega anche a coloro che come me “vivono in una grotta”, il potenziale sociale e politico che li sottintende. Nella grotta in cui il virus più chiacchierato del mondo mi ha vieppiù costretto mi sono concesso (è Natale) un libro appena uscito per Einaudi (che costa un sacco di soldi, 85 euro e, come scrive Angelo D’Orsi recensendolo su “Sardegnasopratutto”: speriamo esca presto in edizione economica in modo che possa circolare assai più agevolmente e più largamente): “Antonio Gramsci Lettere Dal Carcere”. E’ di quei libri che so di non poter usare come “lettura atta all’addormentamento”, con le sue 1200 pagine e la copertina rigida a letto si maneggia male, e sono sicuro che alle tre di notte sono ancora lì che giro pagina dopo pagina (sembra sia capitato anche a un tal Benedetto Croce che volendo farne condivisione della prima edizione datata 1947, irruppe inopinatamente nella camera della figlia, da tempo nel mondo dei sogni). Per inciso fu proprio la mancanza di sonno, il non poter dormire, la causa principale che portò Gramsci a prematura morte, vale ricordare che i suoi compagni politici dell’epoca che gli sopravvissero, i Terracini, i Togliatti, i Pertini (finì anche lui nel carcere di Turi in quel periodo), nel dopoguerra furono rispettivamente presidenti della Costituente, ministri della Repubblica, Presidenti della Repubblica. Nell’appendice 10 a pag.1179: Istanza del detenuto Antonio Gramsci Matr. 7047 a S.E. Novelli, direttore generale delle Case di prevenzione e di pena: “…fino al 1931 esisteva la coscienza che la Casa di Turi è una casa di ammalati e che l’osservanza delle norme disciplinari che hanno anche una portata igienica, era ancor più doverosa…le cose cambiarono in modo che, senza esagerare, si può dire catastrofico…le visite diurne e notturne venivano fatte come esercizi di piazza d’armi e riproducevano gli assalti degli arditi in trincea o degli squadristi contro i circoli vinicoli. Le porte (che pesano circa un quintale l’una) erano aperte e chiuse secondo il ritmo di una festa coi mortaretti; al fracasso dei catenacci seguiva un boato d’apertura con percossa contro l’angolo del muro e quindi la violenta chiusura che rimbombava come un colpo di cannone (un quintale di legno a cui si dà un rapido e violento movimento rotatorio di quasi 180 gradi)..”. Così per tutte le notti, per cinque anni di fila, una tortura reiterata. Sembra che il Direttore Azzariti fosse intervenuto ripetutamente per far cessare il malcostume, ma i direttori la sera se ne vanno a casa e tu rimani in balia del sig. Capoguardia (tale Francesco Contu), con una “sua concezione della legalità che non credo sia dottrina ufficiale dell’attuale amministrazione”. Da qui una fortissima anemia cerebrale a cui si unì una repentina crisi di irrigidimento delle arterie ( a 42 anni e dopo una dieta esclusivamente lattea) che dopo una serie di capogiri e di mezzi svenimenti culminò in un deliquio seguito per 15 giorni di allucinazioni e vaneggiamenti. Gli misero accanto tre detenuti, a turno gli tennero compagnia, e poi testimoniarono che si mise a parlare in un incomprensibile linguaggio, che non era altro che il sardo di Ghilarza. La parlata dell’infanzia, quella che Antonio, Nino per la famiglia e per noi sardi, apprese in quel di Sorgono, correva l’anno 1891, quarto di sette figli, tre non ancora nati, mamma Peppina Marcias e Francesco “Ciccillo” Gramsci si spostavano da Ales, dove Nino era nato pochi mesi prima, lui impiegato dell’ufficio del demanio e delle tasse. A Sorgono nasceranno poi Carlo, Teresina e Mario. Prima di lui erano Gennaro (nome che più napoletano non si può, il babbo veniva da Gaeta) Grazia e Emma. Famiglia di piccola borghesia, ma mamma Peppina aveva fatto la terza elementare in un’isola dove il novanta per cento degli abitanti non sapeva né leggere né scrivere. Ma i Gramsci frequentavano i signori del paese, e il sindaco faceva da padrino ai nuovi nati. Così per sette anni finché Francesco Gramsci venne sorpreso da un’ispezione semplicemente a rubare sulle tasse che avrebbe invece dovuto versare (sembra che avesse il brutto vizio delle carte, e quello ancora più brutto di perdere). Finì in galera a Gaeta, dove era nato e aveva i parenti, a scontare quasi sei anni. Peppina e i sette pargoli improvvisamente senza poter pagare l’affitto di casa e senza i soldi dello stipendio paterno se ne tornarono a Ghilarza (immaginatevi la critica del paese!) dove la sorellastra di Peppina, Grazietta li accolse in casa. Come da quella situazione Nino, che a Sorgono si era ammalato di tubercolosi ossea, morbo di Pott, che lo rese sempre un po’ gobbo,la prima elementare in una classe di 49 alunni, a trent’anni o poco più fosse il capo indiscusso del neonato partito comunista italiano, direttore dell’organo del partito che aveva fondato: L’Unità,eletto alla Camera dei deputati del Regno d’Italia, è una di quelle storie sarde che val la pena di leggere, di sapere. Condita di molta fame e di molto freddo, che si snoda tra le scuole elementari di Ghilarza, le superiori a Santu Lussurgiu, il liceo al “Dettori” di Cagliari, a casa di Nannaro, impiegato in una fabbrica del ghiaccio (è lui il “socialista” che lo inizia alla “lotta di classe”), dove cerca invano di imparare a mangiare tardi a mezzogiorno, per poter saltare la cena. Poi a forza di borse di studio, il ragazzo ha una memoria eccezionale, una volontà di ferro, una curiosità intellettuale non comune, il suo insegnante di lettere al “Dettori” Rafa Garzia, che era anche il direttore dell’Unione sarda, non tarda ad accorgersene e lo farà entrare nel giornale dove apprenderà l’arte del cronista, tanto bene che ne farà la professione di una vita. A Torino, dove all’università si iscrive alla facoltà di Lettere, indirizzo di Filologia moderna, siamo a fine 1912 e sulle rive della Dora dove prende una stanza in affitto fa così freddo che, lui che veniva da Cagliari con un vestitino leggero (l’unico che avesse), per un certo periodo non riusciva a computare bene le parole. Da casa sono i soliti confusionari, non gli mandano documenti che gli servono, né soldi, che di quelli non ne hanno neppure loro. Non finirà l’università Nino, scoprirà invece la politica che lo assorbirà per gli anni a venire. Inizia a scrivere nel giornale socialista, l’edizione torinese dell’Avanti! Quella nazionale era appannaggio di un altro giornalista di vaglia: Benito Mussolini. Le loro strade saranno divise dalla guerra, la scelta interventista costò l’espulsione dal partito per il futuro Duce, Gramsci per un anno scomparve dai giornali socialisti dopo un suo articolo comparso sul “Grido del popolo” a titolo “Neutralità attiva ed operante”, che non era la “Neutralità assoluta” voluta dai dirigenti. In guerra andarono tre dei suoi fratelli, scriverà alla cognata Tatiana nel marzo del ’27: “… mamma poveretta ha molto sofferto per il mio arresto e credo che soffra tanto più in quanto nei nostri paesi è difficile comprendere che si può andare in prigione senza essere né un ladro, né un imbroglione, né un assassino; essa vive in condizione di spavento permanente fin dallo scoppio della guerra (tre miei fratelli erano al fronte) e aveva ed ha una frase sua “i miei figli li macellano” che in sardo è terribilmente più espressiva che in italiano: “faghere a pezza”. “Pezza” è la carne che si mette in vendita, per l’uomo si adopera il termine “carre” (pag.80). Nel novembre del 1920 sarà la sorella Emma a morire di “spagnola”. Il 1° gennaio del ’21 esce a Torino il primo numero dell’”Ordine nuovo. Quotidiano comunista”: direttore Antonio Gramsci, nella redazione Togliatti (redattore capo), Mario Montagnana, Pia Carena (con lei Nino ha “una storia”) a Piero Gobetti la cronaca teatrale. A maggio dell’anno dopo è a Mosca. Per i lavori dell’Internazionale Comunista (In ottobre avrà un incontro con Lenin sulla situazione politica italiana. Il progressivo rafforzamento del fascismo. Pubblica sulla rivista dell’IC un articolo su “Les origines du cabinet Mussolini”). Ma si ammala, questa volta diremmo fortunatamente, nella clinica di Serebrjanij bor (Bosco argentato) dove viene ricoverato conosce Eugenia Schucht, lei ha un “esaurimento nervoso” che per quattro anni le impedisce di camminare. Nel 1908 era a Roma con la famiglia, iscritta all’Accademia di belle arti (corsi con Giacomo Balla), suo padre Apollon è un “bolscevico” per scelta, scuola di cavalleria a San Pietroburgo, iscritto a Ingegneria, frequenta “elementi sovversivi” e lo Zar lo manda in carcere dove è recluso anche Alexandr Uljanov, fratello di Lenin, condannato a morte e giustiziato. Poi si fa 8 mesi di Siberia. Si sposa e se ne va a Ginevra, poi a Monpellier e infine a Roma, dove rimane con moglie e figlie sino al 1916. Le ragazze sono tutte “eccezionali”, Giulia a Roma si diploma all’Accademia di Santa Cecilia nel 1915, in violino. E’ quella che Nino sposa. Con Genia (Eugenia) avrà solo “una storia”, ma lei non lo perdonerà mai e neanche sua sorella. Che è un’altra “grande malata di nervi”, malattia acuitasi con la nascita dei due figli Delio e Giuliano, ambedue nati a Mosca e quasi del tutto sconosciuti al padre, Giuliano non lo vedrà mai. E Tatiana, la Tania delle “Lettere”, la sola persona con cui Gramsci ha un rapporto vero da che Mussolini decide che i comunisti sono tutti dei sovversivi, specie dopo il delitto Matteotti, e specie i dirigenti, siano essi parlamentari regolarmente eletti o meno, debbano finire al confino, o in galera. Vogliono o no sovvertire l’ordine dello Stato? Per essi si inventa un “Tribunale speciale” che a Gramsci cominerà 20 anni 4 mesi e cinque giorni di reclusione. Terracini nel medesimo processo ne avrà più di 22. Tania è quella che terrà i contatti con Nino, fino alla sua morte, aprile del ’37, studi superiori a Montpellier, nel 1908 a Roma si iscrive alla facoltà di Scienze naturali, si laurea nel 1913. L’anno dopo si iscrive al terzo anno nella facoltà di medicina, seguendo un mucchio di corsi, ma senza conseguire la seconda laurea. La sua“nevrosi delle Schucht” consiste nel mangiare sempre poco e niente, Nino ne è esasperato: nel marzo del ’31: “…Carlo mi ha informato che tu non hai per nulla messo un ordine nella tua vita materiale: che mangi quando ti capita e talvolta te ne dimentichi ecc. Io avevo creduto alle tue promesse, vuol dire che sono stato ingenuo, altro che parole ci vorrebbe qualche bellissimo Kurbasc (una specie di frustino) come diceva sempre un beduino che era con me al confino di Ustica quando mi parlava del rapporto con le mogli e le donne della su kabila (tribù) a pag.462. Tania è quella che salverà gli scritti di Gramsci noti come “Quaderni del carcere” e le lettere. Quella che terrà i rapporti con Piero Sraffa, economista da premio Nobel che lavorava a Cambridge con Maynard Keynes, laureato a Torino dove conobbe e divenne amico di Gramsci, scrisse sui suoi giornali. Figlio di “gente bene”, suo padre fu per dieci anni rettore della Bocconi di Milano. Un suo zio presidente della Corte suprema di cassazione, il più alto magistrato italiano che molto lo aiutò nei ricorsi che Gramsci tentò dopo la sua condanna. Sraffa, amico anche di Wittgenstein, tenne i contatti (le lettere che gli inviava Tatiana dopo i colloqui che aveva avuto con Nino) con l’Internazionale Comunista. Le “lettere dal carcere” hanno quasi tutte lei a destinatario. Giulia sarà troppo malata per diventare una interlocutrice valida. Nino ne sarà dilaniato. Gli ultimi mesi della sua vita, trasferito in una casa di cura romana, penserà di tornarsene in Sardegna, a Santu Lussurgiu. Un sogno che non si avvererà.