di MAURO ATZEI
La figura antichissima della Koga (in campidanese) conosciuta anche come Surbile (in Logudorese) è oggi intesa con l’accezione dispregiativa di vecchia strega menagramo. In realtà, l’avvicendarsi dei nuovi culti, ultimo ma non ultimo quello cristiano, ha gettato discredito sulla figura della guaritrice, della sciamana, personaggio nobile e importantissimo della comunità sarda che era impersonato dalla koga. Sembrerebbe, tuttavia, che i suddetti siano nomi più recenti, influenzati da culture che hanno frequentato la Sardegna dall’epoca romana in poi.
Il termine Jana (Diana) è probabilmente più antico, e deriva dal nome della dea guerriera dei Sumeri (Inana, o anche Nana). Esso è più distintivo e trova riscontro anche nel Basco (la dea Jaune) ed in altre lingue del bacino del Mediterraneo. Si ritiene che la figura di Inana o Nana, fosse la figura, poi divinizzata, di una delle sciamane che, in quella società matriarcale, dove la parità tra i sessi era rappresentata molto bene, ricopriva anche il ruolo di donna guerriera. Nondimeno, è ipotizzabile che il concetto sciamanico della “caccia dell’anima” come strumento di guarigione dei membri della comunità, allontani l’ipotesi della figura della sciamana guerriera tout court.
“Vi sono delle persone, per lo più malate di qualche malanno, che fingono di essere state rapite per qualche tempo in cielo o trasportate all’inferno o al purgatorio, donde ritornate, raccontano d’aver visto varie persone, sia defunte che viventi, e chiamano tutto questo andare in calazonis” (dal il sinodo di Ales e Terralba del 1696).
“Andare in calazonis” equivale a cadere in trance estatico, quello che nello sciamanesimo viene chiamato trance sciamanico.
Altra figura sciamanica femminile è quella della Gioviana (nome che ricorda anch’esso quello di Jana e Diana) anche se la sua identità “umana” pare essersi persa nel tempo. Ce ne parla Calvia, il poeta di Sassari, descrivendola come una sorta di genio tutelare delle tessitrici. Queste, in cambio della sua benemerenza, la onoravano con regalie in chicchi d’orzo e di grano. E probabile che la tradizione si riferisca ad un vero e proprio rito molto più arcaico nel quale uno spirito, contattato dalla sciamana chiamata Gioviana, avrebbe aiutato le filatrici nella loro opera di tessitura e, il rispettivo pagamento in orzo e grano, sarebbe stato il compenso a favore della sciamana stessa, in cambio della sua mediazione con lo spirito tutelare.
Ecco che nel medioevo fanno la comparsa due tipi di streghe: quelle che praticano la magia nera, le adoratrici e le amanti di Satana (dette streghe cattive o streghe nere) e le “ abbrebarojas”, seguaci della magia bianca del “mantra”. Appaiono, infatti, gli Abrebaroi, custodi dei segreti della pratica taumaturgica di preparare una pozione o un unguento miracoloso pronunciando delle formule magiche) poi sincretizzate in preghiere). La società di (Jana) Diana, ancora non aveva connotazioni negative per il clero.
Le adepte erano viste come donne normali, che praticavano riti leciti per propiziare la fertilità dei campi. Intanto nel continente italiano, nel 1142, il Canon Episcopi di Graziano, in un testo in cui si analizza il culto di Diana, sostiene che i voli notturni e le riunioni di donne adoratrici del demonio non erano altro che fantasie e chi ci credeva, era stato indotto a farlo dal demonio. Tuttavia, le streghe erano donne del popolo: talvolta cartomanti ma più spesso levatrici, guaritrici, e sopratutto in Sardegna, donne con conoscenze di erboristeria.
È proprio in questa epoca che la figura delle Koge e delle Surbile, cambia connotazione e esse vengono definite “streghe”, accezione che ancora conservano al giorno d’oggi nella parlata popolare. Teniamo conto che, fino ad allora, il paganesimo nell’isola continuava ad essere estremamente praticato, pur nel suo sincretismo con la religione cristiana.
Sarà proprio l’inquisizione spagnola ad accelerare questo processo di cristianizzazione e di smantellamento delle antiche funzioni spirituali sciamaniche. Processo il quale, tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, pare essere andato a rilento, come testimonia la tarda datazione del documento tratto dal sinodo di Ales e Terralba del 1696.
Un tema sempre interessante.