di PAOLO PULINA
Domenica 11 ottobre, i quotidiani “la Repubblica” e “La Stampa” hanno dedicato ampio spazio alla pubblicazione della nuovissima edizione delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci (Einaudi, collana “I millenni”, pagine CXIV – 1262, a cura di Francesco Giasi; contributi di Maria Luisa Righi, Eleonora Lattanzi, Delia Miceli; con un ricco album di documenti e immagini fotografiche).
Il titolo dell’articolo di Simonetta Fiori su “la Repubblica”: “Gramsci. Giulia, l’amore e l’accusa di essere un ‘mascalzone’. Ecco le Lettere mai viste”.
Il titolo del pezzo di Marco Revelli su “La Stampa”: “La voce di Gramsci attraverso le sbarre. ‘Lettere dal carcere’, la versione ‘definitiva’ di un classico della letteratura antifascista”. A proposito di questo titolo, Maria Luisa Righi ha commentato: «Magari non sarà “definitiva”, come generosamente la definisce Revelli, ma certamente l’edizione curata da Francesco Giasi per Einaudi rimarrà a lungo (ed io sono orgogliosa di aver collaborato all’impresa). La ricerca storica non è mai definitiva, e poi chissà che in futuro non si trovino altre lettere. In ogni caso a noi pare un grande salto in avanti».
Sia Fiori che Revelli ricordano il giudizio positivo espresso da Benedetto Croce quando uscì, nel 1947, la prima – incompleta – edizione einaudiana delle Lettere dal carcere di Gramsci. Ecco cosa scrisse Croce nei “Quaderni della Critica” (luglio 1947): «Il libro che ora si pubblica delle sue lettere appartiene anche a chi è di altro od opposto partito politico, e gli appartiene per duplice ragione: per la reverenza e l’affetto che si provano per tutti coloro che tennero alta la dignità dell’uomo e accettarono pericoli e persecuzioni e sofferenze e morte per un ideale, che è ciò che Antonio Gramsci fece con fortezza, serenità e semplicità, talché queste sue lettere dal carcere suscitano orrore e interiore rivolta contro il regime odioso che lo oppresse e soppresse; – e perché come uomo di pensiero egli fu dei nostri, di quelli che nei primi decennii del secolo in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi del presente, tra i quali anch’io mi trovai come anziano verso i più giovani».
Revelli ricorda che anche i giudizi di Elio Vittorini e di Italo Calvino furono “entusiastici”.
Elio Vittorini, annunciando ne “Il Politecnico”, n. 33-34 (ottobre 1946), l’imminente pubblicazione delle Lettere dal carcere, scrisse: «Accusato una volta di “intellettualismo” anche da alcuni dei suoi compagni di lotta, Antonio Gramsci ci appare oggi come un uomo politico che poté essere più acutamente “politico” grazie appunto alla sua capacità di trovare per ogni questione i motivi culturali e non rinnegarli. In questo Gramsci, specie riguardo all’arte, alla poesia, per la quale rivendicò l’importanza della valutazione estetica accanto alla valutazione storica, è andato più avanti di ogni altro grande rivoluzionario, Saint-Just e Lenin compresi (…). Una preziosa eredità è nei suoi scritti, anche se spesso buttati giù, come le lettere dal carcere che doveva scrivere a giorno e ora fissi, col tempo contato, sotto gli occhi assillanti dei secondini, a un tavolo comune. È una eredità per la cultura italiana che finalmente sarà resa, presto, accessibile a tutti. Un primo volume sta per essere pubblicato dalla Casa Editrice di Giulio Einaudi…».
Vittorini, riprendendo queste righe, con il titolo “Preavviso su Gramsci”, in Diario in pubblico (Bompiani, 1957), aggiunge la seguente postilla: «Si trattava del libro ch’è stato appunto chiamato Lettere dal carcere, e che resta il più importante e il più vero di Gramsci: quello in cui Gramsci tiene anche conto (sempre) della “storia naturale degli uomini”, mentre negli altri libri inclina a prescinderne, preso com’è dai propri fini idealistici di organizzatore per i quali gli accade spesso di astrarsi in uno studio esclusivo dei fatti organizzativi, delle chiese, dei cleri».
L’importanza delle Lettere viene sottolineata da Italo Calvino con queste parole: «Questa raccolta di lettere familiari, con cui l’editore Einaudi inizia la pubblicazione delle opere complete del grande martire, resterà nella cultura italiana con il valore d’un libro organicamente scritto, e sarà letto dalle nuove generazioni come un libro di memorie. E del libro di memorie o del grande romanzo ha l’ampiezza, l’intrecciarsi di mondi e di filoni».
In questa occasione voglio riprendere una emozionante testimonianza su Gramsci – derivante dalla lettura delle Lettere dal carcere e del libro Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce – da parte di un importante scrittore francese del Novecento da me “scoperta” nel 2007.
Si tratta di Claude Roy, scrittore francese, nato nel 1915, che dopo la Seconda guerra mondiale aderì al Partito Comunista Francese, dal quale però uscì nel 1957; dopo le opere impegnate, dal punto di vista politico e ideologico, si dedicò all’autobiografia. Nel 1960 ha pubblicato, presso Gallimard, un Journal des voyages (i viaggi riguardano la Francia, la Cina, l’Italia): nella parte relativa al viaggio in Italia si trova una commovente pagina su Gramsci.
Per datare il diario del viaggio in Italia ricorriamo a una delle tre lettere di Elio Vittorini a Claude Roy pubblicate nel volume Gli anni del “Politecnico” che raccoglie le lettere di Vittorini degli anni 1945-1951 (Einaudi, 1977).
Scrive Vittorini in data 18 marzo 1948: «Mio caro Claude, io vorrei anche la libertà della cultura, senza dubbio, e soffro che nel nostro Partito non si capisca bene l’importanza di salvare questa conquista del mondo moderno che è la libertà della cultura. Hai letto l’ultimo libro di Gramsci uscito ora? Parlo del libro intitolato Il materialismo storico e la filosofia di Croce. […] . Ora aspetto la tua visita. Da Milano vado a Varese il 23 marzo, e a Varese rimango fino al 1° aprile. Se tu e tua moglie venite dunque a Milano tra il 23 marzo e il 1° aprile vi aspettiamo tutti e due a Varese […] ».
Vittorini dà delle indicazioni minuziose sul percorso da seguire e nel suo libro Roy le commenta così: «Milano, aprile [1948]. Ho ricevuto stamattina una lettera di Elio Vittorini che mi spiega come devo comportami per andarlo a raggiungere nella sua casa di Varese dove lavora al suo ultimo romanzo. Le indicazioni sulla strada da fare sono precise e misteriose, come quegli itinerari che, nei romanzi di pirati, devono condurre i cercatori a trovare il tesoro nascosto dal capitano Kidd nell’isola dei Coco».
Ed ecco cosa scrive Roy su Gramsci (traduzione mia, NdR):
«Aprile [1948]. In treno, tra Milano e Venezia, leggo le Lettere dal carcere di Gramsci, e comincio il suo libro Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. È una buona lettura per scuotere l’energia e preservare dalle pigrizie dello scoraggiamento. Tuttavia, il solo fatto di leggere oggi queste lettere, sotto forma di un libro, rischierebbe di attenuarne la grandezza. Oggi, noi sappiamo che la speranza di Gramsci, e la sua sfida ostinata sull’avvenire dell’Italia, degli uomini, non erano vane, sappiamo che Mussolini ha potuto far morire Gramsci, ma che alla fine è morto anche lui, e più crudelmente forse di quanto non ha potuto far morire qualcuna delle sue vittime.
Questo libro è stato scritto giorno per giorno in undici anni di prigionia da un piccolo gobbo, malato, minato, sublime – una delle tre grandi anime del comunismo mondiale che scriveva nel tempo della derisione generale e dell’oppressione particolare, quando trionfava (sembrava) il fascismo, al tempo in cui la persecuzione riduceva al silenzio o all’illegalità tutti i compagni di questo prigioniero – che tuttavia mai si considera come un solo uomo.
Si leggono le lettere di Gramsci tra commozione al limite delle lacrime ed esaltazione. Il grande brigante che lo incontra in un trasferimento da prigione a prigione non vuole riconoscere nel piccolo uomo gracile e malandato il celebre deputato Gramsci, perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo. Ingenuità di un paese dove le statue dei santi ne fanno degli Adoni dipinti con colori vivaci, dei bei semidei. Ma se bisogna servirsi di un termine, il vero santo moderno, eccolo: Antonio Gramsci. Niente ha potuto (se non la morte e la sua vittoria qui pesa dunque poco!) averla vinta su Gramsci. Niente ha potuto averla vinta sulla sua bontà, sulla sua gentilezza d’animo, sulla sua curiosità di spirito, sulla sua volontà, sulla sua potenza di meditazione e di lavoro. Malgrado il logoramento causato dalla vita in cella, malgrado le umiliazioni e le angherie subite in migliaia e migliaia di giorni, malgrado la reclusione e la malattia, malgrado l’oppressione dei carcerieri e dei detenuti per reati comuni, Gramsci durante dodici anni ha resistito, lavorato, approfondito il suo pensiero, preparato pazientemente i giorni del grande risveglio, conservato lo spirito lucido e il cuore generoso. Quest’ uomo martirizzato resta costantemente di una squisita, premurosa, sollecita benevolenza. Questo prigioniero, al quale si rifiuta o meschinamente si raziona l’inchiostro e la carta, compie una delle più grandi opere del pensiero rivoluzionario moderno. Golia fa delle scene col mento dal balcone di Palazzo Venezia. Ma, dalla sua prigione, Gramsci, condannato, sottoposto ad angherie, disconosciuto dai suoi amici, insultato dagli altri, va avanti, lavora, medita e crea».
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Le Lettere dal carcere oggi. Sono tradotte in tutto il mondo ed è augurabile che questa nuovissima edizione Einaudi vada man mano a sostituire nelle diverse lingue le edizioni precedenti una volta che queste si saranno esaurite, dopo aver realizzato – bisogna darne atto – una encomiabile fondativa penetrazione in tutte le culture del pianeta e dopo aver fatto conoscere il messaggio, che può valere a livello universale, di un martire indefettibile, come è stato Gramsci, della lotta per la libertà (che per definizione non ha confini).
Ha scritto Dacia Maraini: «Nelle Lettere c’è la vita, il carattere, gli umori, il pensiero di un uomo. Una persona che conosce l’arte della scrittura e che tramite essa documenta, come in un romanzo, il processo drammatico della propria distruzione, quella che Gramsci stesso ha definito la propria afasia psichica. La scrittura, dunque, come forma di sopravvivenza, come strategia per sopravvivere, cui Gramsci si aggrappa benché essa gli provochi persino dolore fisico. Quando Gramsci non ha più voglia di scrivere, l’uomo è vinto, l’assassinio è compiuto».
Concludo questa rassegna ricordando che Giuseppe Fiori, scrittore e giornalista, eccellente biografo di Gramsci, consigliava le Lettere dal carcere come la lettura più adatta al giovane che vuole imparare il mestiere di scrivere perché rappresentano il modello di una lingua italiana forte, viva, vera.
Grazie per questa recensione ricca di riferimenti bibliografici per chi voglia approfondire
Bravissimo Paolo. Complimenti. Un abbraccio
Ottimo articolo Paolo. Il tuo excursus articolato tra le opere e gli autori stimola interesse e rinnova il piacere di ritrovare Gramsci sempre attuale.