di MASSIMILIANO PERLATO
Resta certamente sorpreso colui che viaggiando in Europa, per devozione e studio, si trova davanti, quasi come un’apparizione, una chiesa romanica, sia essa basilica o pieve di campagna. Quando però l’incontro avviene nell’isola isolata, cioè in Sardegna, ecco che la sorpresa si fa subito meraviglia: constatando come quel “bianco mantello di edifici sacri”, di cui i monaci medievali furono mirabili artefici, sia stato esteso da essi sino all’isola. Un mantello a difesa delle diaboliche tempeste, fatto di edifici simili a turiboli qua e là posati per far salire al cielo il profumato fumo d’incenso delle preghiere. Piccole, semplici, nei caldi colori delle pietre naturali dell’isola: il nero del basalto, il rosso dell’arenaria, il bianco del calcare. Ecco le chiese romaniche della Sardegna, affascinanti non per la grandiosità e la ricchezza decorativa, ma per il clima di profonda spiritualità che ancora sanno evocare. Eppure quelle chiese e chiesette, quasi tutte senza campanile (sembra che i sardi ai grandi campanili preferissero quelli piccoli “a vela”), segnano uno dei momenti più straordinari dell’appassionante storia anche culturale dell’isola, essendo la conferma manifesta della sua disponibilità e possibilità di aperture europee, presto purtroppo interrotta da una delle tante invasioni o guerre che resero così spesso tormentata e umiliante la sua storia.
Il romanico sardo ebbe vita breve ma potente: stile fiero, sintesi solenne, recupero intelligente di varie esperienze che ebbero inizio grazie a un risveglio del quale furono autori i monaci di San Vittore di Marsiglia, detti Vittoriani, i quali si appropriarono dei più antichi e venerati santuari del meridione dell’isola e li restaurarono, quando non li ricostruirono, nei modi del primo romanico di Provenza, seguiti e spesso affiancati dai Benedettini di Montecassino, di Camaldoli e Vallombrosa, dai giudici e dal clero locali, cui si deve la chiamata di architetti e di maestranze pisane, lucchesi, pistoiesi e lombarde, affinché costruissero chiese e monasteri, chiostri e foresterie, e anche qualche campanile solenne. Non è facile raccontare come quei miracoli, cioè quelle chiese, avvennero; né è possibile seguire le minuziose descrizioni degli studiosi, secondo le quali, ad esempio, i Vittoriani, avendo ottenuto in concessione da papa Urbano II il santuario di San Saturno di Cagliari, intrapresero la ricostruzione seguendo anche la propria fantasia: incorniciarono i portali d’ingresso con doppia e triplice ghiera, basarono gli archi incastrati ai muri perimetrali su paraste che poggiano a loro volta su basamenti continui, scandirono le volte a botte con grandi archi trasversali. Ecco, in queste innovazioni o combinazioni di elementi architettonici e decorativi, c’è un seme della nascita e delle novità del romanico sardo. Pensiamo ad esempio, a San Pietro di Sorres in Logudoro a Borutta, a San Pietro Extramuros a Bosa, alla strepitosa chiesa della Santissima Trinità di Saccargia a Codrongianus. Narra la leggenda che sia sorta intorno al 1116, come ringraziamento di Marcusa e del marito Costantino, giudice di Torres, per aver ricevuto la grazia di un figlio. Suggestiva anche l’ipotesi sullo strano nome: si dice che una vacca pezzata (“sa accargia”) si inginocchiasse qui tutti i giorni quasi in atto di preghiera, e questo spiegherebbe la presenza di un bovino scolpito su uno dei capitelli del portico. In un paesaggio brullo e assolato, la chiesa si eleva in tutta la sua maestosa semplicità, caratterizzata dalle inconfondibili fasce bianche e nere e dalla decorazione a rombi e rosoni di impronta pisana; all’interno, uno dei rari affreschi duecenteschi dell’isola, che rappresenta con insolita emotività scene della vita di Cristo. Poi a San Pantaleo a Dolianova, costruita in fasi diverse tra il XII e il XIII secolo, riesce a fondere gli elementi del romanico pisano con l’impronta dello stile arabo, riconoscibile nelle mensole e negli archetti ornati di fiori, stelle e mezzelune. A San Pietro a Zuri con il suo memorabile capitello con il rilievo della danza sarda. Un’iscrizione sulla facciata informa che fu costruita nel 1291 dal maestro Anselmo di Como, autore anche delle sculture alle quali la chiesa deve la propria fama; in particolare il bassorilievo che si osserva all’esterno, presso l’abside. Si tratta della rappresentazione di un vorticoso “ballu tundu”, una danza caratteristica sarda che si esegue tenendosi per mano, come rito propiziatorio che nell’antichità si eseguiva intorno al fuoco. È lo spirito, qui religioso, a suggerire l’opera che poi la cultura definisce.
Assai spesso il romanico sardo viene detto “pisano”: diversi edifici, dalla chiesa di Santa Maria a Uta, in pietra chiara, con pochi blocchi più scuri, è forse la più bella e intatta chiesa di campagna nel sud dell’isola, dove i fedeli la affollano per chiedere grazie e bere l’acqua della vicina sorgente ritenuta miracolosa, a quella di Santa Maria del Regno ad Ardara, “il Duomo nero” consacrato nel 1107, così chiamato per il colore scuro della pietra lavica con cui è costruita, alla Cattedrale di Santa Giusta dimostrano una parentela o almeno una discendenza di ispirazione, e di manualità, con i modelli pisani, che appaiono a volte addirittura superati (vedi l’esempio di Ottana). A Santa Giusta, sulle rive di uno stagno dove trova rifugio la fauna selvatica, la chiesa è un gioiello del Medioevo sardo, che domina il panorama dall’alto di una scenografica scalinata. All’interno colonne e capitelli, tutti diversi fra di loro, provengono dalle vicine aree archeologiche di Neapolis e Tharros, ma secondo la leggenda arrivano invece dalla misteriosa città di “Hiadis”, sepolta sotto le acque calme dello stagno per la colpevole idolatria dei suoi abitanti. Ma non bisogna dimenticare lo splendore derivante da opere “minori”, come quella testimonianza assoluta della scultura romanica toscana che è il pulpito scolpito da Guglielmo tra il 1159 e il 1162 e donato nel 1312 alla Cattedrale di Cagliari, essendo stato sostituito, nel Duomo di Pisa, da quello eseguito dal grande Giovanni Pisano. Un capolavoro che fu e resta il mirabile documento di una comunione pisano-sarda che va oltre ogni possibile strategia di potere politico ed economico. Monaci francesi e maestranze pisane, dunque, sono i primi artefici di questo affascinante e prezioso rinnovamento che attraverso varie correnti e momenti di scultori e architetti (quasi tutti anonimi, tranne Buscheto e Guglielmo e pochi altri) dette vita al fenomeno del romanico sardo. Tuttavia in questa attività, durata circa 2 secoli, e cioè dal 1000 al 1300 circa, altre furono le presenze determinanti anche se non facilmente documentabili.
Non è possibile svelare né il segreto né il mistero che ancora oggi avvolgono i capolavori della Sardegna romanica; forse mai, neppure interi volumi riusciranno a dirci appieno la verità su quel “bianco mantello” che monaci pisani, lombardi, provenzali e locali distesero sulla Sardegna mediante edifici sacri che a volte sorgendo, come San Lorenzo a Silanus, accanto a nuraghi, furono, anzi sono, “parole” di severa bellezza, di viva fede e arcana magnificenza. Come anche San Gregorio a Sardara, San Simplicio a Olbia, San Pietro in Sanluri, San Palmerio di Ghilarza, San Gemiliano a Samassi e la Cattedrale di Iglesias. Per finire nell’antico paese di Tratalias, oggi quasi abbandonato, si può ammirare la Cattedrale di Santa Maria di Monserrato, in pietra chiara, risalente al 1213. In stile tipicamente pisano, presenta una curiosità: nel timpano che decora la facciata si vede chiaramente la scaletta d’accesso al tetto, lasciata a vista nel suo ultimo tratto.
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