di ROBERTA VANALI
Da una costante ricerca dell’aspetto analitico della rappresentazione finalizzato a individuare le innumerevoli potenzialità e inclinazioni espressive delle arti visive, tra variazioni linguistiche, essenzialità della forma, sintesi della linea e frammentazioni cromatiche e formali, si apre l’universo creativo dell’eclettico Igino Panzino, sassarese, classe 1950. Raffinato intellettuale dall’infallibile abilità manuale che attraverso una continua sperimentazione, iniziata un cinquantennio fa, e l’utilizzo di tecniche e materiali eterogenei, s’interroga sull’evoluzione dei modelli socio-culturali e su quello che l’artista definisce stato di crisi permanente, riferito all’individuo ma anche alla collettività. Di questo e tanto altro ci parla nell’intervista per la rubrica Studio d’artista arrivata al secondo appuntamento.
Descriviti con tre aggettivi. Attento, irrequieto, indipendente. Posso citare a proposito dell’uso degli aggettivi l’aforisma n. 32 (che ne contiene qualcuno in più), tratto da ‘Minima Moralia’ di Theodor Adorno? “Uno spirito di rigorosa intransigenza presuppone esperienza personale, memoria storica, ricettività nervosa e irrequietezza intellettuale, ma soprattutto una buona dose di disgusto”.
Qual è la tua formazione e quali i modelli di riferimento? Mi sono diplomato all’Istituto Statale d’Arte di Sassari, allora diretto dall’indimenticabile Mauro Manca, sotto la guida dell’altrettanto indimenticabile Aldo Contini. Una scuola che al tempo si poteva considerare non solo un istituto di formazione artistica, ma un vero e proprio centro di ricerca che riusciva a coordinare l’insegnamento delle cosiddette “arti maggiori” con quello delle “arti applicate”, secondo l’antica concezione greca che non faceva distinzioni gerarchiche tra le due forme e che per definire entrambe usava un unico termine: “tecne”. Una scuola che, grazie anche ad un’attività espositiva collaterale presso la ‘Galleria A’, riuscì a diventare un punto di riferimento artistico-culturale per l’intera città, come non se ne sono più visti. In questo contesto i miei primi modelli di riferimento non potevano che essere quelli dell’arte concreta, programmata, dell’astrattismo geometrico, cioè tutte quelle linee di ricerca che avessero un legame col design e con la ricerca tecnologica e scientifica, nonché puramente linguistica, derivanti dal costruttivismo storico. Insomma quella che se non ricordo male, Giulio Carlo Argan definiva ‘Arte Progettuale’.
Mi parli dell’esperienza col Gruppo della Rosa? Brava a ricordarti di questo episodio, grazie per la domanda. Dopo la prematura scomparsa di Mauro Manca, fu Aldo Contini (il più attrezzato in termini culturali) ad assumere la direzione, non della scuola ma delle attività artistiche parallele. Ci propose la formazione di un nuovo gruppo di insegnanti nel quale a quelli ‘storici’ si affiancarono alcune nuove leve come il sottoscritto e qualche altro. Esordimmo con una mostra a tema, del quale ognuno dei partecipanti dette la sua interpretazione, decidemmo per quello volutamente banale della rosa, da cui prese il nome il nostro nuovo raggruppamento. Fu, credo, la prima operazione di arte concettuale in Sardegna, un esperimento che però non consistette nella smaterializzazione dell’oggetto artistico, ma nello spostare l’attenzione dal singolo lavoro alla lettura dell’insieme della mostra, dove cioè il testo era costituito da un tutto che diventava qualcosa di più della somma delle parti che lo componevano (solo più tardi scoprii che si trattava di un concetto olistico). In questo senso si può forse parlare di un’anticipazione del post-concettuale, ovvero del momento successivo in cui l’arte concettuale riprese in qualche modo a fare i conti con la concretezza della forma.
E con la Galleria Duchamp? Ricordo il periodo della Duchamp come uno dei più felici della mia attività artistica. La prima volta che sentii parlare di questa Galleria fu da Sandrina Sanna, vera pioniera dell’arte contemporanea in Sardegna, con la sua Galleria Chironi 88 di Nuoro. Giovane ed impaziente presi un appuntamento e mi recai a Cagliari portando con me alcuni lavori da mostrare. Mi ricordo che in quella occasione erano presenti anche Tonino Casula e Gaetano Brundu, consulenti di fiducia della gallerista Angela Migliavacca, l’accoglienza fu simpatica e calorosa, andò oltre le mie migliori aspettative e Angela mise subito in calendario una mia mostra. Entrai a far parte della scuderia, e iniziò così un entusiasmante periodo di frequentazioni, incontri, nuove amicizie, scambi, attività espositive che si allargavano anche fuori dall’isola, una collaborazione che continuò anche dopo il mio trasferimento in continente e durò fino alla cessazione dell’attività della Galleria. Non è un caso se il lavoro svolto dalla Duchamp venga ancora oggi considerato, per l’intensità e per la qualità della sua programmazione, ancora insuperato in Sardegna, almeno nell’ambito della storia delle gallerie private. Ho ricevuto da Angela il suo libro “Io e Maria”, una testimonianza, ovviamente di parte, che, a mio parere, aiuta molto a ricostruire la verità sulla controversa vicenda che tutti conosciamo. Vorrei dire a questo proposito che Angela Grilletti Migliavacca è stata una delle più serie, più autenticamente appassionate d’arte, galleriste e animatrici culturali che mi sia capitato di incontrare negli oltre miei quarantacinque anni di lavoro nel settore.
Pittura analitica, scultura, rilievi architettonici, texture, collages, stampa digitale, frottage, installazioni, fino all’ultima produzione nella quale confluiscono collage, rilievi e pittura figurativa. Quale ambito consideri più congeniale alla tua espressività? Dopo la fiducia militante nelle forme più razionali dell’arte, mano a mano il mio impegno si è rivolto in maniera crescente verso una distaccata esplorazione del labirinto del linguaggio, cambiare tecniche e materiali mi è sempre servito per cercare di portare sempre più a fondo l’analisi dei meccanismi che regolano le possibilità espressive dell’arte, nella consapevolezza che nulla sfugge alla sua struttura retorico-linguistica. Se posso permettermi una piccola correzione del tuo esauriente elenco, vorrei aggiungere il disegno e il ‘paper crafting’ (l’arte del ritaglio della carta), nonché il più recente uso della fotografia, e togliere il collage che non ho mai praticato. Non so se metterci dentro anche la mia recente invenzione su Face-book di un bar virtuale dove i diversi personaggi fanno commenti un po’ su tutto, dalla politica all’arte, una specie di esperienza concettual-popolare. Ancora oggi, magari senza più troppa preoccupazione per i frequenti mutamenti in corso nel mondo delle tendenze, porto avanti la mia indagine che, come ebbe a scrivere Marco Magnani, alla fine altro non rappresenta se non il continuo interrogarmi sul mio stato di crisi permanente. Una crisi che nel suo piccolo rimanda a quella più complessa dell’arte in generale, che da quando ha irrimediabilmente perso le sue funzioni primarie di narrazione ed informazione (sostituita in questo compito dalla fotografia, dal cinema, dalla televisione e ultimamente dai computer da internet e dai social), non fa altro che riflettere su se stessa, sui suoi nuovi compiti, sui suoi mezzi, sulla dilatazione dei suoi spazi e sulla sua storia. Per quanto riguarda i miei ambiti più congeniali posso solo registrare un ritorno ciclico, ad intervalli più o meno durevoli, alla pittura (e forse alla scultura?)
La tua ricerca si contraddistingue per una costante frammentazione materica e cromatica. Da cosa nasce questa esigenza? Credo che anche questo aspetto faccia parte della mia natura di ricercatore impenitente, e direi anche per di più, della mia volontà di usare il valore moderno della freddezza per cercare di rivolgermi all’intelligenza delle persone senza saltare il passaggio attraverso i sensi, senza rinunciare del tutto alla comunicazione.
Essere figlio d’arte ha favorito il tuo percorso o al contrario l’ha reso più complicato? Non sono sicuro che gli indubbi vantaggi della crescita in un ambiente favorevole riescano a equilibrare il peso dell’eredità dei nomi da portare. Per sicurezza fin dai miei esordi feci la scelta, non dico di nascondere di essere il figlio della pittrice mia madre, ma di omettere questo dettaglio, pensavo infatti che sarebbe stato meglio che il mio lavoro venisse valutato senza pregiudizi da parentela. Devo dire che son riuscito a protrarre questa mia reticenza per un bel po’ di tempo, grazie anche al fatto che la mia illustre genitrice ha sempre usato il suo cognome da nubile. Ancora oggi mi trovo meglio in tutti i posti, come Cagliari, dove ancora non tutti sanno, mentre a Sassari ormai ho paura che quando verrò a mancare non si dirà “Ci ha lasciato Igino Panzino”, ma bensì “Ci ha lasciato il figlio di Liliana Cano”. Comunque alla mia età o si è se stessi o non si può più contare sull’essere figli di qualcuno.
Qual è la tua visione in merito al panorama artistico isolano? Credo che il problema dell’insularità di cui tanto si parla in questi giorni dovrebbe essere esteso anche ai problemi che riguardano l’arte e la cultura. Siamo la periferia di un paese che non presta molta attenzione all’arte contemporanea, che non si preoccupa minimamente di programmare la creazione di un patrimonio artistico del futuro. Un paese che pensa di poter vivere per sempre della rendita del suo così cospicuo patrimonio storico, artistico, archeologico e paesaggistico, senza peraltro riuscire a dimostrare di essere capace di conservare e tutelare, né di valorizzare appieno tutta questa ricchezza. Un paese i cui governanti preferiscono considerare la cultura ed il suo patrimonio non come un valore in sé ma esclusivamente come un volano che riesca a fare da traino per esempio all’industria turistica, un patrimonio che insomma assume valore solo se capace di produrre reddito.
A queste scelte di politica culturale se ne alternano altre di genere più liberista che, rinunciando in toto ad un sostegno pubblico della ricerca, tendono a mettere completamente nelle mani del vigente sistema dell’arte e del mercato il futuro dell’arte contemporanea. Un sistema ed un mercato complici, che hanno definitivamente trasformato in merce tutto ciò che un tempo poteva avere un valore culturale indipendente dal suo valore commerciale. Ecco, dentro questo sistema, nella nostra emarginazione noi veniamo considerati semplicemente un territorio di consumo dei suoi prodotti, piuttosto che non soggetti capaci di confezionare a nostra volta proposte artistiche competitive.
Quali differenze riscontri con il resto della nazione? Le differenze ci sono sempre state, per esempio tanto per fare un po’ di storia, mentre i miei coetanei residenti nelle più importanti città continentali crescevano e si formavano insieme a quelli che sarebbero diventati i loro critici d’arte, i loro curatori, i loro galleristi ed i direttori dei loro musei, noi qui in Sardegna crescevamo in totale assenza di critica d’arte, di galleristi, per non parlare di musei e di collezioni di arte contemporanea ecc. Tutte queste funzioni venivano coperte dagli stessi artisti che scrivevano dei loro colleghi (a questo proposito io stesso ebbi la prima recensione sulla ‘Nuova’, alla mia prima personale, firmata da Stanis Dessy) e che aprivano, anche associandosi spazi espositivi. Solo in seguito alla mia fase formativa ha cominciato a prendere forma, grazie a Salvatore Naitza, a Marco Magnani, a Giuliana Altea, a Gianni Murtas, ad Annamaria Janin e ad altri ancora venuti dopo, una vera critica d’arte, come grazie a Ugo Ugo nacque la prima vera collezione pubblica di arte contemporanea a Cagliari. Vorrei ricordare anche l’importante collezione pubblica di sculture all’aperto, voluta e realizzata da Edoardo Manzoni ad Arbatax-Tortolì. Anche oggi che le distanze sembrano ridotte, abbiamo un’Accademia e qualche buon Museo Pubblico, in realtà, come si può capire dalla risposta precedente, le differenze persistono.
A cosa lavori in questo momento e quali sono i progetti futuri? La mia prossima mostra personale, quando la farò, sarà intitolata “Niente di personale”. Mi sono un po’ stufato di tutta questa falsa letteratura su come dai lavori si possa risalire attraverso un’indagine introspettiva alla personalità, al carattere, allo spirito più intimo dell’artista. Non sono neanche del tutto sicuro che al pubblico interessi tanto questo aspetto, perciò i lavori che esporrò saranno solo materialità, niente intimismo. Del resto, non so quanto c’entri, ma non mi sono mai piaciuti troppo quei lavori per la cui lettura fosse necessario ricorrere ad informazioni extra-testuali, soprattutto quelle, spesso devianti, sulla vita privata degli autori, e che forse costituiscono la ragione del diffuso detto ’nemo profeta in patria’.