di ROBERTA VANALI
Sono molteplici i campi d’azione di Josephine Sassu (Emsdetten 1970, vive e lavora a Banari) che gioca con l’ambiguità della rappresentazione per aprire scenari inattesi, talvolta grotteschi altri apparentemente fiabeschi, dove rivela un forte legame col suo vissuto e la contemplazione dell’imprescindibile mondo della natura. La sua è una visione effimera, a tratti romantica, che vuole essere metafora dell’esistenza. Un’esistenza gravosa che affronta con ironia e leggerezza tra atmosfere sospese e un vago senso di inquietudine.
Qual è la tua formazione e quali i modelli di riferimento? La mia formazione è stata piuttosto ortodossa: finiti gli studi dell’obbligo (che all’epoca, negli anni Ottanta, si fermavano con il triennio delle medie), mi iscrissi al glorioso Istituto d’Arte Filippo Figari, di Sassari, oggi liceo artistico; un po’ per fortuna, un po’ per intuito, perché venivo da un percorso scolastico decisamente deprimente (sia dal punto di vista didattico che sociale), e io stessa credo fossi un caso umano abbastanza ingarbugliato (non so poi quando e se definitivamente districato negli anni). Dopo la maturità artistica, nel 1989, il caso volle che si istituisse, sempre a Sassari, la nuova Accademia di Belle Arti Mario Sironi, e fu per me abbastanza naturale continuare il percorso di studi artistici, sebbene non avessi la minima idea, una volta finiti gli studi, di autodeterminarmi come artista. Sin dall’inizio del mio percorso artistico,ho sempre detto quanto sia stata determinante per me l’opera di Pino Pascali (di cui mi occupai anche nella mia tesi di storia dell’arte): importante non solo, né tanto, dal punto di vista estetico, ma piuttosto per il suo approccio giocoso, e serio ad un tempo, al processo creativo dell’opera.
Ho anche sempre detto che se non avessi letto la trilogia degli antenati di Italo Calvino, forse non avrei mai trovato la spinta propulsiva iniziale per poter lavorare. Sono certa di non aver mai abbandonato né tradito questi due miei mentori immaginari, sebbene io sia artisticamente politeista e, nel camminare a zonzo nel mio percorso, sono state importati anche artiste come Gina Pane, Yayoi Kusama e Luise Bourgeois. Ultimamente ho una cotta per CaiGuo-Qiang: trovo abbia un senso dell’effimero più che maestoso, scevro dai folklorismi tipici degli spettacoli pirotecnici, lirico e nichilista; per come sono fatta io, al suo posto sarei già saltata in aria cento volte, ma, anche se non amo l’odore della polvere da sparo, in questo momento vorrei essere lui. Da sarda poi non posso non nominare Maria Lai, ma, vista la fortuna e il clamore della sua opera, temo sia presuntuoso da parte mia tracciare una vicinanza elettiva che possa sembrare opportuna.
In quale misura il tuo lavoro è legato alla tua terra e quanto invece c’è di autobiografico? Dico sempre che se non vivessi in un posto come la Sardegna difficilmente mi sarei potuta permettere di intraprendere la carriera artistica: stare qui mi ha permesso di poter “far finta” di essere una grande artista, di poter creare opere senza mettermi il problema di confermare, a galleristi e collezionisti, un dato prodotto, insomma di brandizzarmi, così come chiede un livello medio alto del sistema dell’arte. Il legame con le mie terre di origine, che, a parte i natali in suolo tedesco, sono sarde e umbre, è molto forte: sebbene abbia trascorso solo vacanze in Umbria, il senso pratico e sacralmente legato alla natura mi vengono forti da lì. Invece la “frivolezza” è tutta sarda: ricordo sempre come a dare il La al mio gusto estetico sia stata la mia nonna paterna, che mi arruolava a mettere “i diavolini” ( piccole palline di zucchero, colorate o argentate), a decorare sulla glassa bianca con cui ricopriva i suoi dolci; solo dopo gli studi artistici ho pensato quanto questi oggetti commestibili potessero ricordare opere di Mirò o di Calder, e forse anche di Keith Haring. Sempre la stessa nonna, quando non faceva dolci o pregava (aveva sempre un breviario a portata di mano), faceva kilometri e kilometri di pizzi all’uncinetto: credo che, stando comodamente seduta a casa sua, con il filo usato, abbia fatto più volte fatto il giro del mondo e diverse andata e ritorno su Marte; comunque non è mai riuscita a coinvolgermi nell’opera e salvarmi dal tunnel dell’inconcludenza, in cui mi ritrovo tutt’ora. Molto del mio lavoro si muove da presupposti autobiografici, sia per quello che ho detto prima, sia, nello specifico, per lavori in cui dichiaratamente, nei titoli, indico la mia persona: TUTTI I MALI CHE VENGONO PER NUOVERMI (1998), SPECCHIO DELLE MIE BRAME (2000), sino a IO SONO LA FARFALLA, esposto nella collettiva al Ghetto EFFETTO FARFALLA, curata da te.
Qual è stato l’evento determinante del tuo percorso artistico? Potrebbe essere la mia prima mostra personale, nell’estate del 1995, ad Alghero; durante la frequentazione dell’Accademia di Belle Arti credo che nessuno (né colleghi, né professori, e neppure io), mi riconoscessero lo status di potenziale artista, ma una volta terminata la stagione dello studio, nel 1993, credo ci sia stata una presa di coscienza e, abbandonate le modalità accademiche, ho iniziato a fare, con più criterio e sistematicamente, quello che mi veniva più naturale: costruire mondi paralleli. Ma forse, malgrado io pensi che, nei miei più di venticinque anni di attività, tutto sia già accaduto, l’evento determinante di tutti sarà quello che verrà: continuare ad affinare il proprio linguaggio, stupirsi nel trovare altre vie per proseguire a lavorare, senza diventare il mimo cristallizzato del proprio immaginario, è di certo una prospettiva allettante.
Da cosa origina la costante di una componente effimera nel tuo lavoro? Un po’ come accennavo prima, una volta abbandonate le modalità tipicamente accademiche, affascinata dall’esempio di Pino Pascali e dall’immaginario di Italo Calvino, non ho fatto altro che riprendere in mano i miei giochi di bambina lasciati in sospeso, dando loro delle forme più organizzate e mature; nella scelta di prediligere la componente effimera, hanno quindi concorso, almeno inizialmente, le modalità tipiche del gioco, che danno grande valore alle azioni, più che al prodotto ottenuto da queste. Però, forse a pari merito, nella scelta della componente effimera, entra anche la componente autobiografica, perché, data la mia proverbiale inconcludenza, piuttosto che combattere maldestramente il male, ho pensato che cavalcarlo con nonchalance potesse essere più proficuo. Nella seconda metà del primo decennio del 2000, paradossalmente, ho maggiormente rafforzato la componente effimera perché avevo la necessità di produrre dei lavori senza poi avere il fardello di doverli conservare: i miei grandi disegni a grafite nascono anche da questa considerazione, sebbene non siano mancate delle speculazioni, squisitamente concettuali, sul ruolo dell’arte e sulla condizione dell’artista.
In una intervista hai dichiarato di tenerti lontana dalla realtà perché non riesci a comprenderla, non credi che possa essere limitante per un artista? Si, certamente è molto limitante. Ma se oggi penso ai bambini siriani, se penso alla condizione femminile nel mondo, e in Italia, dove, se si viene uccise dall’ ex partner, sui giornali si pubblicano le foto, rubate dai social, dei tempi felici della coppia; se penso alla temperatura sopra i 18 gradi in Antartide, alla plastica nel mare, alle balene spiaggiate agli orsi bianchi affamati; se penso alla nostra continuità territoriale, al prezzo stracciato del latte, alla mancanza di lavoro, alla grettezza di certa classe politica; se penso al coronavirus, ai traffici di vecchie e nuovissime droghe, alla piaga del gioco d’azzardo nei nostri piccoli paesi, spopolati ma pieni di disoccupati; se ci penso non smetto più di piangere, e piangendo non riesco fare nulla. In fondo, io faccio come Penelope: la sua tela è una sospensione infinita di ogni altro guaio, nell’attesa di tempi migliori.
Quali sono gli aspetti del genere umano che più ti incuriosiscono? Mi intriga l’intelligenza, la brillantezza, e anche il suo contrario, la timidezza: amo in assoluto la raffinatezza del linguaggio. Poi amo molto la bellezza e l’unicità. Comunque per me il genere umano è un po’ come sarebbe per un extraterrestre appena sceso sul nostro pianeta; un po’ come per un egittologo i geroglifici, ma prima della scoperta della stele di Rosetta.
Descrivi il processo creativo di una tua opera. Credo che negli anni del mio lavoro, che a me sembrano tantissimi, l’iter creativo sia sempre rimasto invariato: prima nasce l’idea, la motivazione, poi, spesso assecondando le caratteristiche del luogo deputato ad accoglierla, nasce la forma dell’opera. A volte le idee si definiscono nel tempo, altre, saltano fuori fulminee, come sbucate dal niente; solitamente tutte sedimentano per lungo tempo, affinandosi pian piano e consolidandosi: una sorta di gestazione che porta alla fase pratica del lavoro che, spesso, congela un’idea parallela, una sorta di clone ciclopico, un po’ come se Gulliver avesse avuto un gemello monozigote, rimasto però in sospeso alla sua nascita. Nel mio processo creativo è sempre stato molto importante l’assunto critico e iconologico e, come spesso è capitato con te, la condivisione di un progetto ha dato vita a forme che, certamente, erano nel mio bagaglio, ma che, altrettanto certamente, altrimenti non sarebbero venute mai fuori. Sebbene negli ultimi tempi mi sia concessa, qualche volta, di improvvisare, mi sento sempre più iconoclasta e trappista, le immagini mi scappano, quando gli si presenta l’occasione, dal mio recinto delle idee, un po’ come a volte capita a qualcuno dei miei asini innamorati. E con questa ultima metafora credo di aver detto tutto.
Perché non ami collocare l’aspetto manuale come espressione dell’arte femminile? Negli ultimi anni mi sono un po’ affrancata dal fastidio che avevo nel sentire denominare il mio lavoro, o quello di qualsiasi altra artista, come un lavoro tipicamente femminile. Il forte disturbo era creato dal fatto che, contrariamente, non mi è mai capitato di sentire definire l’opera di un artista uomo, opera tipicamente maschile, né, tantomeno, che l’analisi della stessa si fermasse alla semplice constatazione e connotazione sessuale di chi l’ha prodotta. In origine ero solidamente convinta che un’opera si dovesse analizzare in quanto tale, decifrarla e scomporla, come si scompone un testo, seguendo una logica di tipo analitico o grammaticale, certo non ormonale. Forse da giovani si è più cartesiani, io certamente lo ero troppo: oggi francamente me ne infischio, anche se continuo ad avere un grande rispetto e curiosità per il costrutto critico che si fa di un’opera artistica.Una tua opinione in merito all’attuale panorama artistico isolano. Ci sono grandi energie e bellezze nel campo, ma ho la sensazione che siamo sempre più soli e isolati, chiusi tra di noi; penso che il nostro voler dare un assetto vitale e contemporaneo al vivere qui rimanga inascoltato, indifferente ai più: forse perché l’arte rimane sempre un affare di nicchia, e forse perché chi potrebbe e dovrebbe aiutarci a costruire un paese nuovo, è invece impegnato nel mantenere e foraggiare l’immaginario folkloristico che i sardi hanno di se stessi.