di MICHELA GIRARDI
Stefania Lai, classe 1971, è una nota ed eclettica artista ogliastrina che ha fatto della comunicazione profonda che esiste fra l’umano ed il naturale la sua cifra stilistica. Osserva il reale cercando il linguaggio, traducendo la parola propria di ogni oggettività e sperimentando il contatto e il lavoro con ogni materiale. Nelle sue installazioni studia gli oggetti nel quotidiano, l’anima che portano in sé e la loro azione, ciò che ancora hanno da dire. Conosciamola meglio.
Come si svolge la tua vita professionale e creativa all’interno del tuo laboratorio artistico? Come sei arrivata a condurlo da sola? Sono una maestra vetraia, ho lavorato per due decenni come artigiana. Non è un amore che può finire, quello per un materiale, nella vita di una creativa, per cui di tanto in tanto ci torno, lo conosco bene, lo comprendo e mi comprende. Il laboratorio del vetro che ho condotto fino ad un anno fa circa, è stato il mio antro di maga. Accogliere il committente che chiede un’opera per sé, per la propria abitazione, progettare per lui, realizzare risolvendo ogni problema e poi vederlo soddisfatto è una storia molto bella che ho visto ripetersi spesso. Dà un certo piacere sapere che ci sono centinaia di cose realizzate da me, sparse nelle case delle persone. Per me gli oggetti, fra l’altro sono molto importanti. Tutto ciò che ci accompagna nella vita lo è e andrebbe scelto con cura. Ho cominciato a conoscere il vetro direttamente sul campo lavorando per anni presso un artigiano e occupandomi insieme ad un’altra persona del vetro artistico in fusione. Erano gli anni del boom di queste nuove tecniche in Italia. In Sardegna eravamo i primi o quasi a saper trattare il vetro in lastra nella fusione e nel termoformato. Quando andai a Pesaro, dove appresi le tecniche di fusione, vidi aprirsi un mondo di possibilità formali ed espressive. Ogni nuovo materiale desta in me un entusiasmo potente che dà il via a una nuova ricerca. Lavorare da sola per me è l’ideale. Come artigiana ho spesso collaborato con altri creativi, con chi progetta e con chi realizza. Mi piace molto la cooperazione ma ho bisogno di momenti in cui ritrovarmi da sola, nel mio spazio fertile e benedetto, con me stessa a definire una linea, a immaginare una forma. E’ lì che le cose migliori nascono, in quello spazio di solitudine. Il laboratorio del vetro l’ho chiuso da qualche tempo. Non era più economicamente vantaggioso lavorare in un settore che ha visto una flessione costante e irrecuperabile in tutto il Paese. In quello spazio da artigiana però si è consolidata la mia ricerca artistica. Negli anni del laboratorio avendo uno spazio ampio e diverse macchine a mia disposizione ho sperimentato oltre al vetro molti altri materiali facendo della pratica artistica un elemento fondante del mio tempo.
Cosa significa oggi essere artisti e cosa, invece, significa essere artigiani? Fra arte ed artigianato esiste un diaframma sottile spesso attraversato dall’una e dall’altra disciplina. Non vedo nette distinzioni fra i due mondi ma sfumature e anelli di congiunzione nei quali gli artigiani oltrepassano la soglia e fanno arte e gli artisti sconfinano nell’artigianato. Ciò chiaramente attinge alla mia esperienza, avendo visto artigiani fare arte quasi inconsapevolmente e artisti ripetersi in produzioni in serie in ascolto di un mercato dove sono molto importanti il brand e l’esteriorità. Prendo in prestito una riflessione di Jung, che identifica due modalità espressive. Una è la scrittura consapevole, frutto di una intenzione precisa, di una scelta che tiene conto di precise esigenze comunicative, che risponde a necessità e può essere strutturata razionalmente. L’altra è una imposizione che non lascia molta scelta. Nell’arte si parla in questo caso di tirannia, di quel dover fare nonostante tutto che ti spinge a parlare attraverso il linguaggio delle immagini per necessità profonda. Jung considera questa seconda forma di scrittura legata all’ “Inconscio collettivo”. Credo possa essere questa la forza dell’opera d’arte, che dipenda dal suo luogo di origine, da dove viene, da cosa è fatta. Si potrebbe quindi considerarla fatta principalmente di condivisione. Poiché l’artista attinge a questo mondo interno partecipato, questo inconscio che come un grande denominatore è in noi in connessione con tutti gli altri esseri umani, troverà elementi il fruitore saprà riconoscere come propri. Alla luce di tutto questo essere artigiani oggi significa essere custodi di gesti antichi e traduttori di tradizione, cultori raffinati di innovazione, interpreti dei nostri desideri. Essere artisti significa fare tutto ciò ma andare oltre. Attingendo all’inconscio collettivo l’artista permette ad ognuno di noi di ritrovarsi nell’opera, di essere mosso, di ricevere input profondi che risuonano spesso anche inconsapevolmente. L’artista, quindi a differenza dell’artigiano, parlando “la lingua antichissima che è stata data in eredità” parla a tutte e tutti. Questo potrebbe spiegare le suggestioni e la partecipazione ad opere che in molti dicono di non capire (razionalmente) e come, con le parole di Maria Lai l’arte possa “prenderci per mano”. Per essere più prosaica poi potrei dire anche che l’artigiano e l’artista sono appartenenti all’unica categoria dei coraggiosi, abituati a stare sempre in equilibrio e confrontarsi costantemente con ciò che si è in grado di dare e quanto questo sarà apprezzato, quanto varrà. L’artigiano e l’artista sono oggi due categorie che faticano, creatori di bellezza sottostimati e ancora non sostenuti.
Nel tuo settore ti sei mai sentita messa da parte o presa poco sul serio in quanto donna? Nel settore dell’artigianato dai colleghi direi praticamente mai. Mi sono sempre sentita stimata. Inoltre vista la mia competenza e esperienza circa il vetro le mie parole sono sempre state prese in considerazione anche dai colleghi di altri campi, del settore che si conserva più maschile dell’artigianato. Ho imparato che in certi ambiti dove il maschile è dominante e muovono vibrazioni relative alla forza fisica, alla resistenza, al costruire, al decidere, bisogna dialogare con la stessa forza, lasciar parlare la parte di sé più autorevole, essere consapevoli di ciò che si sa fare. La determinazione e la lucidità di fronte a scelte importanti quali quelle relative a caratteristiche costituenti un’opera molto grande e complessa, ad esempio, sono molto apprezzate da chiunque conosca la difficoltà di realizzare ex novo. E’ capitato molto raramente che qualche collega maschio si dedicasse al mansplaning tanto odiato da tutte noi, convinto che alcune realizzazioni fossero troppo impegnative per una donna, per di più giovane. E’ bastato con prontezza definire dei limiti, in modo molto indiretto per non pormi nella classica posizione frontale del muro contro muro. L’artigiano in genere è saggio e capisce i materiali, sa quando ha di fronte chi sa di cosa parla, così il tono della conversazione cambia e ci si rapporta molto più seriamente e nel buon intento di collaborare per un’opera funzionale e esteticamente pregiata. Nel campo artistico il discorso è diverso. Il mondo dell’arte ha oscurato la donna per secoli ma adesso il machismo va sfilacciandosi, gli artisti e le artiste sono in genere persone poco inclini agli schemi ed alla generalizzazione e, anche se c’è il rischio che restino chiusi nel proprio ego (c’è chi afferma che l’artista è narcisista per definizione), ho sempre trovato buoni confronti con essi ed esse, soprattutto con chi aveva già raggiunto una certa notorietà. C’è da dire però che a fare arte sono comunque le persone, portatrici di ogni virtù ed ogni limite, perciò certo a volte ho sentito un sessismo strisciante così come una strisciante invidia. Ma per la stragrande maggioranza ho trovato ottime persone disposte allo scambio ed alla collaborazione.
Cosa rappresenta per te l’arte? L’arte per me da sempre ha rappresentato un modo di esprimermi. Fin da piccola ho sempre sentito la grande necessità di disegnare, ogni foglio bianco era uno spazio meraviglioso. Da bambina non avevo tutti gli strumenti dei quali dotiamo i nostri giovani oggi. Avevo molti colori ma gli album erano di carta comune, e io cercavo invece nuove superfici. Disegnavo sulle carte lucide che raccattavo qua e là, sul cemento, sul legno, e poi andavo silenziosamente staccando tutti i primi fogli bianchi, di buona carta semiruvida e porosa, all’inizio di ogni tomo della Enciclopedia Utet. Mi chiedevo perché questa febbre fosse solo mia e non vedessi anche gli altri impegnati a disegnare per ore ogni giorno la loro quotidianità. Crescendo ho capito che certe cose, purtroppo e per fortuna, sono solo nostre e fanno di noi esseri singolari con esigenze diverse. Per me l’arte è sempre stata una esigenza. Ho studiato la storia dell’arte e devo dire che a colpirmi è stato sempre l’intento dell’artista. Mi interessava, ma senza entusiasmo, la raffinatezza della tecnica pittorica o scultorea, nonostante la fascinazione di fronte alla pittura e scultura classica. Ricordo come davanti a Caravaggio e Tiziano io sia rimasta colpita profondamente, ma fu davanti a un trittico di Bosch che ebbi una grande commozione, una incredulità, la sensazione di grande privilegio e gratitudine. Non potevo andar via persa com’ero in paesaggi da indagare nei quali, lo sentivo, avrei potuto addentrarmi, che avrei voluto esplorare ancora. Credevo che quell’opera fosse lì per me. Questo può la grande arte. Relativamente all’intento comunicativo e prodigo credo di apprezzarlo quando l’artista lavora senza essere al centro del proprio fare ma facendo si che sia l’opera il nucleo di tutto.
Quali artisti hanno influenzato il tuo percorso? Gli artisti che in questo senso mi hanno dato moltissimo sono tutti gli outsider che ho conosciuto personalmente e non,fra i quali ricordo Bonaria Marca, orunese vivente nella Tuscia, che andai a trovare insieme ad altre persone anni fa quando ancora viveva sola nella sua casa a Tuscania. Suonai al campanello di un cancelletto in campagna e lei mi rispose a gran voce dal basso invitandoci ad entrare. Lei sedeva su un tronco come una regina, con una grande fascia colorata a mo’ di turbante ed un grosso bastone nodoso nella mano destra e mi chiese anzitutto “Siete sardi?” Poi entrammo nella Cappella Sistina della sua casa, strapiena di dipinti e completamente affrescata da lei con scene della sua vita reale e delle sue tante apparizioni. Si raccontò per ore e cantò con grande generosità. Ecco fu una meraviglia che resta nella mia vita come segno tangibile della rivelazione dell’arte nelle persone, qualunque vita si faccia, anche se impermeabili alla cultura di appartenenza, essa se deve, giunge, e sfonda le porte. Così come lei ricordo ancora Lorenz Kuntner a Prad, in Alto Adige, o il nostro Fiorenzo Pilia a San Sperate. Fra i contemporanei, amo l’intento prodigo di Cristian Boltanski che ho “incontrato” più volte attraverso le sue performances ed installazioni. L’artista che dona esperienze toccanti, input alla riflessione, nuove prospettive di analisi della realtà, fa un gran regalo al fruitore. Dà nuove visuali, come ha fatto Christo con The floating piers sul lago d’Iseo. Perciò io oggi amo soprattutto la performance e l’installazione, perché per me le persone devono essere accolte, partecipare, essere dentro l’opera. Non più una dualità fruitore-opera ma una esperienza di incontro e fusione. Esistono opere accoglienti, per me lo sono i pani di Maria Lai, la pittura di Anselm Kiefer, gli Igloo di Mario Merz.
Come ogni concetto altissimo l’arte è difficilmente afferrabile, non definibile oggettivamente. Come proveresti a descriverla? L’arte non è uomo, l’arte non è donna, non è mercato, non è prezzo, non è numero. Cosa sia è più difficile dirlo. E’ una fra le modalità in cui l’essere umano si esprime, è fondamentale, necessaria, salvifica. E’ equilibrio, ma anche crisi, rottura dello stesso. E’ risposta e domanda. E’ voce dell’umanità tutta.
Cosa significa, per te, essere femministi oggi? Qual è la battaglia che a tuo avviso ha più necessità di essere combattuta al momento? Nonostante la situazione stia mutando, le donne si trovano ancora in difficoltà relativamente all’essere riconosciute come individui alla pari del maschio. Il voto ci è stato concesso solamente nel 1945, soltanto 74 anni fa. Prima del 1978 l’aborto era reato. Prima del 1996, la violenza carnale era fra i “delitti contro la moralità e il buon costume”, solo dopo, tale abominevole reato è stato considerato contro la persona. Oggi è altissimo il livello di istruzione delle donne e calano invece drasticamente i posti occupati dalle stesse in posizioni di vertice. I primari, i rettori, i ministri della repubblica, sono in numero esponenzialmente maggiore rispetto alle loro corrispondenti donne. Il sessismo nel linguaggio è ancora vivo e alimenta lo stereotipo e il dominio di un genere sull’altro facendo da humus alla violenza che sfocia nel femminicidio che ancora miete troppe vittime. Essere femminista alla luce di ciò per me significa aver chiaro e custodire il bagaglio di consapevolezze acquisite per tutte e tutti dalle donne prima di noi, che con forza e spesso con il sacrificio della vita hanno rivelato squilibri che il patriarcato ci ha sempre presentato come forme naturali di esistenza, dati dalla conformazione dei sessi, dalla differenza fra tendenze e proprietà intrinseche. Le donne accoglienti, abituate a mediare e a subire, hanno creduto nella stragrande maggioranza di dover soccombere a questa imposizione biologica, di essere impure se mestruate, di essere malvagie nel chiudere una relazione. Perciò qualunque vessazione da parte di una società moralista e bigotta è stata accettata e sopportata e a noi è rimasta la fatica di traguardi irti di ostacoli. La storia delle donne l’hanno fatta le donne prima di noi. Essere femminista significa raccogliere questo testimone e procedere nel cammino per i diritti di ognuna. Vivere la quotidianità sapendo che ogni consapevolezza va sostenuta, difesa e alimentata perché resti vitale e sia per tutte e tutti. Sostenere la propria sorella dando ciò che si ha e aprirsi a ricevere, così da muoversi in avanti senza lasciare indietro nessuna. Essere femministe vuol dire rifiutarsi di fare il gioco del patriarcato, chiedere con fermezza una equità che non c’è, avere chiaro che la felicità è un diritto. Al contempo è procedere con tutti gli uomini che oggi sono femministi, domandano una società equa e possono sostenerla perché sanno che garantisce anche ad essi la possibilità di liberarsi da stereotipi castranti. Educare figli e figlie sensibili al diritto di tutte e tutti, liberi da pregiudizi e stereotipi. La battaglia che oggi per me è urgente è quella che riguarda il corpo. Questo corpo bocciato se non rispetta i canoni di bellezza sessualmente riferiti, spesso estraneo, se autentico. «L’oggettualizzazione sessuale», spiega Elisa Giomi, Docente di Sociologia della Comunicazione all’Università di Roma Tre: «è la riduzione di un corpo femminile a una sola sua parte erotica e quindi una trasformazione di questo soggetto femminile in funzione sessuale». Labbra, seni, glutei, ogni luogo sessualmente rilevante deve corrispondere alle aspettative sociali, pena la squalifica, come esseri umani. Esistere è aderire a questi modelli? C’è chi ancora ci crede.
Per lavorare in certi abiti, quindi, dobbiamo necessariamente rispondere a determinati canoni estetici. Parliamo di beautism. Il beautism, discriminazione in base alla rispondenza al canone estetico sul posto di lavoro, colpisce soprattutto le donne, alle quali è richiesto di essere “belle” e che in certi contesti devono presentarsi sul luogo di lavoro con abbigliamento rigorosamente seducente. Essere preparate e professionali potrebbe essere meno importante che avere un bel decolleté. Il consumismo si sposta quindi dall’oggetto al corpo, della donna, ancora una volta segnando una obsolescenza programmata che è quasi solo femminile.
La battaglia più urgente è questa, il ritorno al corpo, l’ascolto attento che rivela molti preziosi dettagli anche sulle scelte da farsi. Il corpo ci parla, è un tempio. Mi sembra fondamentale liberarsi degli stereotipi legati al nostro corpo ora più che mai, riprendiamoci il diritto di invecchiare in bellezza. Per concludere credo che il femminismo oggi debba lavorare anche su un femminile immenso, il diritto di vita della Madre Terra, la natura, la ricerca di un equilibrio come esseri viventi che rinuncino ad essere padroni e sfruttatori in un sistema biologico del quale sono solo un tassello. Noi siamo tutto ciò che mangiamo, facciamo, e anche tutto ciò che ci circonda.
Uno dei tuoi progetti artistici, anni fa, mi ha particolarmente colpita. Hai lavorato nel bosco e inserito, nelle ferite degli alberi, i volti di donne portatrici di vari messaggi. Per ricordare che le ferite possono raccontare anche una storia, oltre a testimoniare un dolore. Racconta come è nato questo progetto e in che modo è legato alla tematica della violenza di genere. Ogni ferita è un foglio bianco. Le ferite raccontano storie. Le ferite sono validi piani d’appoggio. Queste le scritte che accompagnavano i miei lavori su alcuni tagli sui tronchi degli alberi del bosco Selene. Il progetto “ Lavorare sulle ferite” è nato dal mio grande amore per il bosco. Un luogo nel quale sono a casa da sempre. Anni fa ci fu un taglio che definirei sconsiderato nel quale, per errore? per pressapochismo? venne raso al suolo un leccio secolare. Restò una ferita enorme, un cerchio ampio, asciutto e triste. Lo vidi in una delle mie consuete camminate e immaginai di lavorarci, di realizzare qualcosa su quella ferita. Passò del tempo e quel taglio si ricoprì di terra e foglie, così decisi di lavorare su alcuni tagli nel folto del bosco. Lavorare sulle ferite descrive oggettivamente ciò che ho fatto colorando e tracciando forme e scritte dove è stato reciso un ramo, ma è anche una espressione che può ricordare il percorso di elaborazione di un trauma o di un lutto. In effetti ciò può essere considerato affine al mio discorso su queste opere. Si può considerare la ferita emotiva come un punto di ripartenza, utile momento di svelamento di sé stesse, presa di coscienza a volte traumatica. La ferita sanguina, chiede tempo, si asciuga, rimargina, e su questa si può ricostruire. La ferita è un foglio bianco, su una storia segnata dal dolore, se questo dolore si accoglie e si affronta, si può riscrivere, Si può cambiare la nostra esistenza nonostante sia pesante di un passato inquieto o doloroso. Le ferite raccontano storie di noi, di chi siamo, di quali domande dobbiamo porci, di quali passi falsi abbiamo fatto ma soprattutto possono dirci perché. Semplicemente ascoltandole, o facendosi aiutare nell’ascolto. Le ferite sono validi piani d’appoggio anzitutto per noi stesse quando abbiamo bisogno di ripercorrerle, di tornarci come nel loop. Ma poi diventano anche piedistalli per vedere più in là, per essere più grandi di fronte al mondo. L’azione non è legata strettamente alla violenza di genere, parlo del dolore nel suo significato più ampio, ma certo questa è una ferita ancora aperta su tutte noi. Le donne rappresentate sui tronchi hanno anche un’altra valenza in diretta relazione con essi. Ho voluto che questi tagli fossero delle aperture dalle quali scorgere un volto perché gli alberi sono esseri poco considerati nel loro esistere e comunicare. Anch’essi interagiscono, ma la loro lentezza non ci permette di afferrarne i movimenti, osservare quali scelte facciano per salvaguardarsi, come si comportino. Perciò ho deciso di dare occhi a questi preziosi compagni di vita. Lo stesso concetto l’ho sviluppato con materiali diversi in“ Animare l’animato” un intervento di land art su alcuni lecci nelle vicinanze. In questo caso ho usato però la canapa sarda e il filo di cotone per creare grandi facce , perché se si hanno occhi è più facile essere visti. L’uomo vede soprattutto ciò che gli somiglia ed è più riluttante a riconoscere presenza e diritto a creature troppo diverse da sé. Tutte queste opere sono ormai scomparse o quasi. Ho usato colori naturali ed oli naturali per dipingere e la fibre naturali per costruire i grandi volti. Per me è importante non essere invadente lo spazio del bosco. Chiedo il permesso a lui per lavorare sul suo “corpo” ma so che tutto deve tornare alla forma perfetta originale nel giro di qualche tempo. Amo molto le opere effimere, conoscono il senso della misura, non si impongono e vanno colte nell’istante della loro esistenza.
Qual è il progetto artistico che meglio ti rappresenta e al quale ti senti più legata? Tutto ciò che ho fatto è strettamente connesso ed una nuova ricerca parte sempre da qualche frammento della precedente e poi lascia qualche filo per la futura. In questa strada che si snoda fra una cosa e l’altra ho amato molto i momenti di condivisione con il pubblico ma anche i lavori effimeri fatti in solitaria che sono stati visti dai più solo in foto. Sono particolarmente affezionata alle mie Casepane, che ho esposto in Oìkos, al Museo Diocesano Arborense, e a Cagliari, nella personale About Home al May Mask . About Home, ha parlato della casa come concetto ampio che raccoglie tutti i luoghi e i momenti nei quali si è di casa con ciò che sta accadendo, in connessione con un luogo, in dialogo con un momento, protetti dalle mura di una sensazione di gioia, di serenità, di sicurezza, oppure accolti fra le lenzuola di una inquietudine che ci spinge a cercare altrove, a muovere passi per altre case. La casa è anche intesa per ciò che generalmente descrive, un luogo di vita, nel quale riposare, mura, mobilio, letto, bagno, tazze e piatti compresi. Mi piace indagare questi spazi, lo spazio che si trova all’interno delle mura ma anche quello fra le pareti della tazzina che ogni giorno contiene il nostro caffè, del piatto della nostra minestra. Immagino che questi luoghi e questi oggetti comunque contengano anche parte di noi, sentano le nostre parole, assorbano un po’ della nostra vibrante tristezza o rumorosa allegria. Per parlare di questo vivere, di questa casa che è una pelle, un abito, un mattone, ho usato diversi materiali. About Home raccoglieva una serie di tele e disegni in tecnica mista che raccontavano un po’ i Genius Loci degli oggetti e dei luoghi, argomento al quale sono molto affezionata; Istantanee, fusioni di vetro talvolta associate al rame incise con una mola che raccontano appunto istantaneamente piccoli momenti di vita; Case di rame che si fondano sul pane, perché il pane alimenta la casa e fa famiglia, ma a volte è proprio la famiglia che diventa crogiuolo di tensioni e lievitazioni acide. Un altro momento per me importante fu la personale 17:71 a Nuoro, al Caffè Tettamanzi, luogo al quale sono molto affezionata. In particolare la conclusione della expo ha visto una azione performativa nella quale una installazione di 71 piccole opere rotonde era distribuita gratuitamente agli avventori. In un determinato giorno,chiunque poteva andare a prendere un’opera e portarla con sè. In brevissimo tempo molte persone si recarono alla installazione che si diffuse così in altrettante case. Mi scrissero in tanti per raccontarmi dove era arrivata la mia opera e ringraziarmi. Quell’evento ebbe una eco interessante e per me fu molto piacevole l’interazione con il pubblico.
Il mondo che rappresenti con le tue opere è prettamente femminile, perché? C’è stato un momento in cui il mio figurativo raccontava solo la donna, all’inizio in uno stile quasi naif che vedeva esclusivamente presenze dormienti. Le immagini sono sempre estremamente legate al profondo così in quel momento per me era molto difficile fare qualsiasi altra cosa. Mi conosco sufficientemente e so che in una fase caratterizzata da modus operandi e forme determinate non ha senso che io mi forzi, seguo ciò che avviene certa della svolta a tempo debito, lascio che tutto sia fluido. Un nuovo materiale trovato per caso, uno stato d’animo, un insight, una lettura, un viaggio: in genere sono questi i momenti di svolta, non la mia imposizione razionale. Non ho mai realmente un’idea precisa di come sarà l’opera finita. Allora questo si traduceva in tutta una serie di donne prima dormienti poi ridestate. Poi sono venute le Martiri della polvere domestica, molto diverse dalle precedenti, tutte su tavola tonda, ed infine relativamente al figurativo una nuova serie, in tecnica mista dove ancora la rappresentazione è rinnovata e finalmente descrivo gli interni della casa. Da ciò poi sono passata più avanti alla casa come soggetto. Nelle opere successive, in carta da spolvero su tela nera con interventi grafici e pittorici, le donne non erano più il soggetto unico. Finché nella serie in About Home, sia nelle istantanee che nelle tecniche miste, ecco che appare anche l’uomo. Se da artigiana ho lavorato spesso secondo il mio personale linguaggio ma seguendo precise esigenze del committente, nella mia produzione artistica preferisco avere a mente una direttrice ma poi lasciare che l’opera prenda una sua deriva, che vada dove vuole. Mi sono sempre affidata alle mani, al mio corpo, e al mio sentire e ciò che poi ho realizzato in genere mi ha soddisfatta. Tutta la mia opera pittorica è sempre su tela nera, quindi cambiano i soggetti ed anche le tecniche ma in ogni caso parto dal buio per illuminarlo, non dipingerei mai, perlomeno adesso lo credo, su una tela bianca preparata. Relativamente alle altre opere non figurative riconosco ancora delle forme molto femminili ma ciò è tessuto con altre forme che non posso definire appartenenti a simboli legati ad Animus o Anima. Superare un certo tipo di connotazione, liberare le opere dalla propria pesante presenza preservando invece la propria più pura essenza, lasciarle andare, metterle al centro, per me è salire di ottava, portare il processo creativo a un livello più alto.
Ricorre nel tuo percorso artistico il legame con la natura, con il silenzio. In questo particolare momento storico credi che silenzio e natura si stiano riprendendo spazio e che siano la “chiave” con la quale aprire la porta che ci farà passare alla fase successiva? Saremo diversi? Da bambina nei sogni ho sempre parlato con ogni creatura, col gatto di casa, con i fili d’erba, con ogni elemento strutturando una lingua precisa. Svegliandomi mi presentavo davanti allo stesso gatto, ora muto alle mie domande, senza capire perché in quei sogni così lucidi, dettagliati e chiari lui mi parlasse e poi non volesse più farlo. Cercare un dialogo con il mondo naturale è stata per me una costante, perché di esso mi sento indissolubilmente parte. Con il mio lavoro continuo a farlo cercando di ispirare chi si avvicina al mio operato a fare altrettanto. Ho amore e curiosità per gli esseri viventi che popolano questo pianeta, fin da piccolissima ho raccolto e curato gatti ed altri animali per le strade e con questi felini elegantissimi condivido la mia vita da sempre. Non ricordo lunghi periodi senza la presenza di un gatto. Ho una grande fascinazione per gli alberi, coi quali ho un’intesa, sono davvero, per me, Atlante e le cariatidi che reggono il cielo. Amo moltissimo anche i paesaggi e quel genius loci che esiste in ogni luogo e ne è custode e ce lo racconta. I luoghi amo indagarli e entrare, anche solo con l’immaginazione fra le pieghe di ogni spazio, una tazzina da caffè è una grotta, un igloo, un rifugio. Gli oggetti stessi, ora sto lavorando su questi in piccole installazioni composite, sono intrisi di memorie, assorbono parole, vibrazioni, sentire e profumi e ce li restituiscono. Alla loro presenza percepiamo questi contenuti a volte inspiegabilmente ma chiaramente. Il legame con ogni elemento è ciò che sto potenziando.
Il silenzio è quello spazio in cui tutto ciò può avvenire. Il dialogo profondo a volte non prevede parole ma immagini. La quiete di questo periodo è una piccola restituzione di rispetto al mondo naturale, una concessione di libertà che involontariamente diamo. E’ bello pensare agli animali che si riprendono gli spazi, si muoveranno più sicuri e certamente si chiederanno dove siamo andati. Confermo la necessità di comprendere che noi esseri umani siamo solo un tassello della biodiversità, nessuno ha costruito questo mondo a nostra disposizione. Forse, ora che un frammento di Rna ci ha ridimensionati nelle nostre case, potrebbe esserci più chiaro questo concetto. Potremmo quindi uscirne con gratitudine e voltare pagina nel nostro rapporto col creato. Potremmo chiudere il paragrafo del capitalismo e quindi del consumismo di oggetti e rapporti umani in questa società liquida, ritrovare il concetto di comunità, per dirla come farebbe Bauman. Potremmo iniziare a scrivere di un tempo di vera sorellanza e fratellanza, di rispetto e responsabilità. Potremmo iniziare a scriverlo adesso, già nelle nostre case, essendo solidali e collaborativi, guardandoci dentro prima di trovare il nemico altrove. Perché “i nemici, è sicuro, sono dentro di noi” per citare anche Battiato, che mi accompagna da sempre. Dobbiamo cominciare ad essere pacifici adesso. Saremo diversi? Non so. Abbiamo questa grande opportunità, spero non venga sprecata.