di GIUSEPPE CORONGIU
Nonostante le documentate intuizioni di Gramsci, per decenni in Sardegna siamo stati perseguitati dal luogo comune che il bilinguismo fosse dannoso all’apprendimento del bambino. In particolare che “agire” il sardo fosse nocivo al corretto uso dell’italiano. Niente di più falso, eppure niente di più efficace, insieme al mito della lingua quale apripista della mobilità sociale, per convincere le famiglie ad abbandonare la lingua madre e optare per il monolinguismo italiano.
Rari gli intellettuali sardi che, nell’acceso dibattito linguistico della fine del secolo scorso e dell’inizio di questo, fossero sul pezzo rispetto ai vantaggi cognitivi già anticipati dal padre del concetto di egemonia culturale. Del resto, le uniche ricerche (molto datate) sul tema da parte della ricerca linguistica italiana, si basavano su pochi studi relativi a immigrati di origine etiope esuli politici in Italia, i quali manifestavano disturbi nell’integrazione.
Inoltre, la pedagogia prevalente italica, anche contro l’evidenza, consigliava da sempre tetragona il monolinguismo, non solo nei confronti dei presunti dialetti regionali, ma anche nel caso di genitori parlanti lingue colte europee affermate. La necessità di consolidare l’unità linguistica della patria travalicava e soverchiava qualsiasi dubbio razionale e scientifico.
Per fortuna, non tutti i sardi hanno obbedito a questa falsità. E neppure tutti gli italiani della Repubblica, sia essi facenti parte di gruppi minoritari, sia avendo essi uno dei genitori etero parlante, magari una lingua di grande cultura e spazialità (anche più del provinciale italiano). E per buona sorte, nel mondo, la ricerca scientifica e le buone prassi sui vantaggi cognitivi del bi-multilinguismo non si sono mai fermate.
Anzi, le risultanze hanno confermato le intuizioni di Antonio Gramsci, fornendo dati, ricerche e evidenze scientifiche a sostegno più che in abbondanza. Tanto che oggi sostenere che il bilinguismo provochi disturbo cognitivo dei bimbi è considerata un’eresia legata all’arretratezza culturale. Lo scambio scientifico globalizzato insomma ha ribaltato la credenza sbagliata del piccolo mondo italico di una volta, tutto chiuso e arroccato intorno alla sua piccola-grande lingua nazionale da tutelare e consolidare. A ogni costo.
Due recenti pubblicazioni di vasto interesse, disponibili ora anche in italiano, confermano questa tendenza di studi. Epicentro è il mondo anglosassone che, visto ormai il predominio dell’inglese quale lingua franca mondiale, poteva anche adagiarsi sul nuovo monolinguismo imperante, eppure non lo ha fatto.
Anzi, proprio lì dove l’inglese è lingua normale, sociale e istituzionale, ci si pone il problema di un altro monolinguismo, quello dominante, che se non arricchito da ulteriori diversità rischia di trasformarsi in una sorta di analfabetismo cognitivo-funzionale di ritorno. Le élites intellettuali anglossassoni questo lo sanno e non è un caso che lavorino comunque per l’affermazione del multilinguismo, nonostante non esistano per loro problemi di comunicazione internazionale.
Così, alla Fiera del Bilinguismo di New York, pochi mesi prima dello scoppio della pandemia, alla Fordham University School di Manhattan, una delle star della manifestazione è stata Fabrice Jaumont, manager di innumerevoli programmi di educativi, con il volume (che presto sarà distribuito in Italia) “La rivoluzione bilingue – Il futuro dell’istruzione bilingue” (TBR Books Brooklyn, 199 pagine), una sorta di guida per docenti e genitori in merito alle esperienze di insegnamento bilingui negli Stati Uniti e in particolare nella Grande Mela.
È ancora forte il desiderio delle élites della East Coast affinché i loro rampolli apprendano il francese (considerata una lingua distintiva), ma si affacciano all’insegnamento anche delle scuole pubbliche “nuove”’ lingue: russo, arabo, polacco, tedesco, giapponese.
Il libro di Jaumont analizza e descrive realtà diverse e ne tratteggia criticità e risultati in qualità di insegnante, manager culturale ed esperto numero uno di insegnamento dell’ambasciata francese. Un viaggio dentro il caleidoscopio americano visto attraverso lo sguardo delle tante comunità linguistiche che lo arricchiscono. E che non vogliono perdere né i vantaggi cognitivi né tantomeno l’eredità di tante culture. Un libro definito da Bill Rivers, noto direttore esecutivo del Joint National Commitee for Languages, “un capolavoro indispensabile per i leader dell’educazione negli Stati Uniti è in altri paesi”.
Anche l’italiano si è fatto spazio nell’universo multilingue di New York. Grazie all’associazione ‘In italiano”, animata dai sardi Francesco Fadda e Stefania Puxeddu, in compagnia di Benedetta Scardovi (traduttori dell’opera di Beaumont) che insieme a Giacomo Bandino dell’associazione Shardana hanno fatto entrare anche la questione della lingua sarda nella prestigiosa fiera newyorkese pre pandemia.
Ora che i nodi dell’epidemia sembrano sciogliersi, si prova a ripartire. Venerdì 5 giugno la United Nation Association di New York, agenzia connessa all’ONU, ospita un webwinar (ormai in sold out) di Antonella Sorace, docente di Linguistica Acquisizionale all’Università di Edimburgo. È una delle autrici del libro uscito di recente “Il cervello bilingue” (Carocci Editore, Le Bussole, pag. 142), oltre che punto di riferimento internazionale sulle ricerche in merito al bilinguismo cognitivo.
La Sorace, di madre sarda, origini a Pozzomaggiore e casa ad Aglientu, ha lavorato in questa occasione con due ricercatrici qualificatissime: Maria Garraffa e Maria Vender. Il volume, come quello di Jaumont, è imperdibile per chi si occupa di bilinguismo perché affronta di petto, con piglio metodologico, i nodi della questione.
Che cosa succede nel cervello di chi impara più lingue? Parlare più di una lingua può procurare dei vantaggi cognitivi nell’arco della vita? Esistono lingue più importanti di altre? È possibile imparare una lingua da adulti? Il bilinguismo può essere di ostacolo a chi soffre di patologie o disturbi specifici del linguaggio o dell’apprendimento? Che implicazioni ha per la società l’aumento della popolazione bilingue? E quali sono i fattori che possono favorire e sostenere il bilinguismo in bambini e adulti?
Questi sono alcuni degli interrogativi cui si intende rispondere in questo viaggio nel cervello bilingue, a partire dai risultati dei più recenti studi condotti a livello internazionale. Si parla anche di lingue deboli e minoritarie e le problematiche infittiscono. Si profila infatti da un lato un bilinguismo elitario di lingue forti e un bilinguismo debole o casuale, quando alcune lingue godono di scarso prestigio e non sono scolarizzate.
È il caso del sardo, manco a dirlo, una lingua ufficiale che esiste solo sulla carta e, inopinatamente, negli ultimi anni, è uscita anche dalla scuola senza stracciamento di troppe vesti. Segno di un degrado della sensibilità culturale di un ceto dominante sardo distratto. Eppure l’accademica Sorace, proprio lei, partecipò, dalle nostre parti, con tutto il suo bagaglio innovativo già alla Conferenza della Lingua Sarda di Macomer del 2008, ai tempi dell’assessora Maria Antonietta Mongiu. Non si può dire che le idee non abbiano circolato nè che si sia stati poco attenti al dibattito globale…
Evidentemente ancora non basta per provocare una reazione all’abbandono totale della lingua sarda da parte della politica e dell’intellettualità. Forse la lettura e la diffusione nell’isola di queste due opere da parte di chi si dovrebbe occupare dei problemi …chissà farà maturare qualche buon proposito. Non è detto che sia troppo tardi.