di LUCIA BECCHERE
«Mi è caro pensare che esista il paradiso delle madri» (B. Albanese a Salvatore Satta) «Ho versato infinite lacrime quando ho perso la mia dolce e triste madre. La morte di una madre è la fine di ogni cosa. È un tormento umano indicibile, e durerà tanto quanto la vita» S. Satta all’amico B. Albanese – 1973.
«Donna Vincenza stava in un angolo avvolta nei suoi panni neri, come si conveniva ai suoi 50 anni, esausta ingrossata dalle maternità. Ciascuno di quei figli era ancora dentro le sue viscere, e nel suo silenzio ascoltava le loro voci come i moti segreti e misteriosi di quando erano nel suo seno. Essi erano la sua vita, non la sua speranza. Perché donna Vincenza era una donna senza speranza» (Il giorno del giudizio). Parole che lasciano trasparire tutta la sofferenza di un figlio per non averla saputa sottrarre a quel destino che la relegava ad una inutile presenza. «Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto» (don Sebastiano).
Satta aveva descritto le donne nuoresi «giovani ricche che intristivano dentro antiche case civili e che apparivano dietro i vetri come fantasmi» di cui i giovani rampanti stranieri cacciatori di dote, individuato il valore e l’eredità, andavano all’assalto dei fortini signorili per accasarsi. Erano lo specchio di una Nuoro senza speranza dove anche le donne dei Corrales sapevano attenersi al principio fondamentale della vita. «Quel che fa il padrone è ben fatto».
Non era dato sapere cosa c’entrasse l’amore che è cuore e sentimento con i matrimoni combinati con la logica. Ma l’amore era il matrimonio e le ragazze di allora erano fatte per il futuro e quindi non dovevano avere passato e nemmeno presente. Per donna Vincenza la gita all’orto di Istirita era una «favolosa avventura», passato, presente e futuro perché la felicità per una donna sta nell’amore e nella capacità di amare che niente ha a che fare con il calcolo. L’amore è libertà, è intelligenza «vera sola misura della donna e dell’uomo». Donna Vincenza era arrivata al matrimonio senza conoscere l’amore, tuttavia era intelligentissima e perciò traboccava d’amore. Aveva amato anche don Sebastiano, ma la vendita di quell’orto di Istiritta aveva forse segnato uno spartiacque fra lei e il marito che intendeva sottrarle perfino i pensieri ancor più se sensati. Escludendola dal dominio maschile, non l’ascoltava e perciò non esisteva. La donna-moglie rappresentava uno strumento di esigenze di vita e quindi del marito e della famiglia. Concezione questa che mascherava un complesso di inferiorità dell’uomo. L’intelligenza di donna Vincenza si scontrava con la superiorità del potere dei Sanna, due mondi che viaggiavano paralleli senza mai incontrarsi. Lui avrebbe concesso tutto a patto che gli venisse chiesto, lei mai si sarebbe piegata a questo. Lei che custodiva perfino i fiammiferi spenti che i figli raccoglievano nelle strade, si teneva stretta i ricordi come reliquie. Dietro ogni suo piccolo gesto, un infinito mondo d’amore. Una stranezza per lui. Sensibilità che faceva la differenza.
Quando un giorno i figli, prendendo le difese della madre, si erano ribellati alla solita terribile frase: «Tu sei al mondo perché c’è posto», per la prima volta il padre li incontrava cogliendone tutto il peso delle sue parole.
Donna Vincenza era l’intelligenza esasperata dalla solitudine «sola nella profondità del suo animo perché la famiglia, questo mistero in cui la nostra persona si moltiplica, non vince ma accresce la solitudine», trasferiva nel presente che era l’avvenire, le angosce del passato e nel passato non c’era posto per la provvidenza. Dal seggiolone a cui era costretta, scrutava e vigilava ansiosa l’indole e le tendenze di ciascuno dei figli mentre don Sebastiano masticava il brodo. La sua acutissima intelligenza suppliva al declinare dei sensi e perciò dalla sua poltrona a braccioli dove abbandonava il suo corpo devastato viveva intensamente la vita della casa e leggeva il volto dei figli.
Quando l’Italia entrò in guerra vennero chiamati alle armi Giovanni e Peppino. Questi tornò in famiglia per cominciare il suo declino verso la morte. Donna Vincenza capì che la morte entrava in quella casa e davanti a questa madre sola nel sepolcro di casa, si aprì il baratro della solitudine. Anche l’ultimo nato (Sebastiano-Salvatore) lasciò la casa per andare fuori a studiare rifiutando il viatico, fu per lei il rifiuto di un atto d’amore. Il figlio lo avrebbe capito molti anni dopo e questo doloroso rimorso lo avrebbe segnato per sempre. Ma questo donna Vincenza non lo sapeva. Immersa nella sua solitudine, le erano rimasti solo i lamenti del marito. Quella differenza di età di 10 anni che correva fra loro, faceva sentire il suo peso e lo scettro del comando passava a lei che se ne valeva per la più crudele vendetta: lo ignorava, non gli rivolgeva la parola. Di questo lui si lamentava senza rendersi conto che per tutti giunge il momento in cui si sta al mondo perché c’è posto e questo momento era ora giunto per lui. I figli che erano rimasti e quelli che ritornavano sempre più raramente nella casa erano tutti per la madre e il più ostile a lui era Sebastiano/Salvatore, quel «merdoso ultimo» così lo chiamava don Sebastiano, che pure aveva trafitto il cuore della madre nel rifiutare quell’atto d’amore.
Oggi, donna Vincenza vive per sempre nel capolavoro del figlio che col naso schiacciato contro la finestra posa ancora il suo sguardo da bambino «al di là dai vetri di quella stanza remota mentre la neve malinconica e leggera si posa sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra di noi», così come appare in un piccolo arco di cielo illuminato dal tramonto, giunta dal «paradiso delle madri»: immobile sulla poltrona, ricurva distrutta (La Veranda).
È una madre che non chiede, non interroga, ma osserva e percepisce: «Figlio mio!» lo invoca a sé con struggimento. «Mamma, mamma!» Lui vorrebbe correre a lei, ma qualcuno lo trattiene costringendolo a trascinarsi per sempre il doloroso e bruciante peso di una ferita ancora aperta.
per gentile concessione de https://www.ortobene.net/
Bellissimo di commozione