IL TOTAL NOVEL “QUADERNO DI DISCIPLINA”: INTERVISTA AL CAGLIARITANO OTTO GABOS (MARIO RIVELLI) COAUTORE DEL TESTO CON LUIGI BERNARDI

ph: Otto Gabos

di FRANCO ARBA

Tempo di quarantena, tempo per noi e per le nostre famiglie. E tempo di letture. Sì, ma quali? La scelta è vastissima se pensiamo che nel 2018 ci sono stati ben 75.758 titoli pubblicati. La scelta si riduce se guardiamo a ciò che abbiamo acquistato negli anni e a cui, per varie ragioni, non ci siamo avvicinati. Tempo di quarantena, tempo di riscoprire. L’occasione è quella giusta per farsi prendere per mano da Quaderno di disciplina, di Luigi Bernardi e Otto Gabos, edizioni Tunué, pubblicato nel 2017.

Otto Gabos, all’anagrafe di Cagliari del 1962 Mario Rivelli, non ha bisogno di tante presentazioni, ma per i più distratti lettori possiamo dire che vive a Bologna da tanto tempo dove insegna Arte del Fumetto all’Accademia di Belle Arti. Artista, illustratore e scrittore, nel corso della sua carriera ha lavorato per numerose riviste, illustrato e scritto numerosi libri e fatto parte di alcuni tra i più importanti movimenti del fumetto. Tra gli ultimi lavori Gustav Klimt. La bellezza assoluta e Egon Schiele. Il corpo struggente, entrambi edizioni Centauria.

Della carriera di Otto Gabos ne parliamo partendo proprio da Quaderno di disciplina. Non un romanzo, non un fumetto, bensì un “total novel”, come da lui stesso ribattezzato. Racconta di un boss della criminalità organizzata che vive segregato per sfuggire ai nemici, e dei suoi due figli che si occupano della gestione delle finanze della famiglia. In una reclusione indotta, il boss stila un amaro bilancio della sua esistenza. È il frutto della collaborazione con Luigi Bernardi, nome tra i più importanti del panorama editoriale bolognese prima e nazionale poi, scomparso nel 2013.

Otto, chi era Luigi Bernardi e come nasce Quaderno di disciplina? Chi era Bernardi? Se ne potrebbe parlare per ore. Direi una figura fondamentale sia dal punto di vista intellettuale sia imprenditoriale. Ha iniziato a fare l’editore da giovanissimo con enorme coraggio o incoscienza. Era riuscito a pubblicare in Italia certi autori francesi che sarebbe stato solo impensabile ipotizzare. Con L’Isola Trovata si apre un’epoca in cui un certo tipo di fumetto che coniugava l’autorialità ricercata alla grande avventura viene proposto con regolarità al pubblico italiano. Il culmine di questo periodo Bernardi lo raggiunge con la creazione di Orient Express, rivista contenitore dove amplia lo sguardo e di fatto dà un nuovo ruolo a molti di quegli autori che erano noti a un pubblico vasto e popolare e che risultavano distanti e in certi casi indigesti alla critica. Roberto Saudelli passa dalle pagine di Lanciostory a quelle patinate, fa il suo esordio Roberto Baldazzini affiancato ai testi da Daniele Brolli che scrive anche per il raffinatissimo Antonio Fara. Compravo la rivista ogni mese, la affiancavo a Frigidaire e Alter Alter che offrivano storie diverse. Il tutto diventava la base della mia formazione e crescita di aspirante fumettista. Quando sulle pagine di Orient Express uscì con il marchio Bonelli un nuovo ciclo de Lo Sconosciuto fu apoteosi. Magnus per molti di noi, di sicuro per me, era il punto di riferimento assoluto, fu di fatto l’apoteosi. Bernardi era diventato l’Editore. L’ho incontrato per la prima volta in una lontanissima Lucca Comics quando non era una kermesse oceanica e autori, editori, venditori e pubblico erano confinati al Palasport. Bernardi era seduto sugli spalti che parlava a bassa voce – era molto discreto – con una giovanissima Vanna Vinci. Entrambi stavamo muovendo i primissimi passi nel mondo del fumetto. Uno sguardo tagliente con occhi a fessura, tipico, un saluto accennato e basta.

Il vero incontro fu a Bologna anni dopo, di fatto fu al telefono. Mi chiama e senza tanti preamboli mi chiede se volevo andare alla Biennale Giovani a Barcellona come autore della squadra di giovani artisti bolognesi. In definitiva quella telefonata inattesa mi riempì di orgoglio. A posteriori più per il fatto che Bernardi in qualche modo mi conoscesse come giovanissimo autore che per il festival. Per inciso il festival fu un’esperienza favolosa. Negli anni con Bernardi ci si vedeva per caso, a Lucca alle mostre, nella redazione gigantesca di Dolce Vita in piazza Galileo e poi soprattutto in Granata Press una delle realtà editoriali più creative dei primi anni Novanta. Decisiva direi.

Quel periodo era difficile per me. Mi stavo riprendendo dal disastro finanziario causato dall’avventura editoriale di Fuego, che uscito in edicola era andata malissimo (in seguito era arrivata la soddisfazione che quando si citava la rivista spesso le si accostava l’aggettivo “seminale”, più o meno come quando si parla di un musicista geniale che ha influenzato tanti altri artisti ma che non ha mai avuto successo). Mi ricordo che era notte fonda, di quelle notti di nebbia che ormai qui a Bologna non ci sono più. Stavo aspettando l’autobus in via Ugo Bassi e a un certo punto si materializzano dal nulla lui e Roberto Ghiddi, art director della neonata Granata Press. Mi fanno: “Dimmi un po’, ma ti farebbe poi così schifo pubblicare per noi?”

Quello di Granata Press fu un periodo bellissimo. La redazione, vero porto di mare, era luogo di incontro e fabbrica di idee. Ci passavo spessissimo e non solo per portare i nuovi capitoli di Tobacco, scritto da Pino Cacucci, che usciva ogni mese su Nova Express, erede aggiornata di Orient Express. Era bello incontrare altri autori, chiacchierare, progettare, scherzare. Quando arrivava Magnus, il Maestro come lo si appellava, era sempre festa grande. Bernardi era burbero o timido, se ne stava chiuso nel suo ufficio e quando mi riceveva ero sempre un po’ imbarazzato. Parlava poco e ti squadrava tanto. Non sapevi cosa ti avrebbe detto. L’opposto di Ghiddi che pur essendo altrettanto burbero sbottava, rideva, bestemmiava in modenese. La breccia per entrare un po’ nel mondo di Bernardi fu il calcio. Lui juventino, io cagliaritano. Quindi sulla carta odio mortale, atavico e insanabile. Furono scontri a colpi di sciabola, di sfottò, con una grande stima in comune per il divin codino, Roberto Baggio. Il calcio fu l’inizio della nostra amicizia. Una delle ultime volte che lo andai a trovare, quando stava ormai molto male, mi chiese cosa aveva fatto la Juve in Champions. Non sapevo se dirgli la verità o mentire. Scelsi la prima: “Ha perso”. Gli dissi la frase come l’avrebbe detta lui, con un tono tagliente privo di orpelli (quando scriveva limitava al massimo l’uso degli aggettivi). Lui capì e apprezzò abbozzando un sorriso. Bernardi mi ha insegnato tanto, di sicuro il rapporto con i testi, la gestione delle parole. Ho appreso il metodo per fare editing, la ricerca dell’errore che c’è sempre e sta in chi legge trovarlo, l’importanza della scelta delle parole. Poi quel periodo magico finì e Luigi smise di fare l’editore, si prese una lunga pausa dal fumetto e dal mondo del fumetto, ammise di essere scrittore e scrisse romanzi soprattutto dopo l’esperienza innovativa con Stile Libero Noir.

Ci vedevamo senza avere da chiedere, perché ci piaceva parlare. Una volta con Catacchio avevamo cercato di convincerlo a fare fumetti in veste di editore. Fu irremovibile. Ma ai fumetti ci tornò. Con Clelia C. Scritto per Grazia Lobaccaro, con Fantomax disegnato da Onofrio Catacchio e pensavamo di fare qualcosa insieme ma non sapevamo ancora cosa. Un giorno mi chiama e mi manda un file. Leggi, mi dice.

Era il primo abbozzo di Quaderno di disciplina. L’aveva scritto sotto forma di romanzo ma voleva riscriverlo trasformandolo in sceneggiatura. No, è bello così. Pensiamo a come svilupparlo con i disegni.
Così ci siamo messi a ragionare. Volevamo raccontare una storia glaciale e disperata, senza sconti, eliminando qualsiasi trappola retorica.

Decidiamo di usare, innestandolo nel noir, una modalità che avevo usato con Totally Americanized, reportage sulla comunità italo-americana del Westchester apparso sulla rivista Black e poi con Arrivano gli Gnummo Boys, romanzo per ragazzi per Giunti Junior. Passavo dal testo letterario all’illustrazione fino al fumetto a seconda delle esigenze narrative della storia. Ormai è una modalità che uso molto spesso e soprattutto con opere che sono scritte e disegnate solo da me. Una sorta di circuito chiuso che non ammette intrusi. Con Luigi era diverso. Alla fine eravamo così presi che Luigi per un attimo sembrava tornato a essere editore. Aveva preparato il timone, il menabò e stampato la prima bozza di impaginato. Poi si ammalò e sappiamo com’è andata a finire. Quella bozza è rimasta per qualche anno conservata in un cassetto come una reliquia. Poi parlandone con Marco e Ilde mi sono convinto che il libro doveva prendere forma ed era necessario che fossi io a prendermi la responsabilità. Luigi con il suo lavoro progettuale aveva già spianato la strada.

Il libro è ammantato da un’atmosfera cupa – non potrebbe essere altrimenti, data l’ambientazione della storia – evidente sin dalla copertina: una ragazza che pare sperduta nella vita e che cerca calore abbracciando un lampione. L’ho detto prima. Quaderno di disciplina è una storia disperata. I noir sono disperati. Qua non si salva nessuno, forse a tratti il boss autorecluso nel bunker che fa un bilancio della sua vita criminale. La copertina l’ho finita dopo e Luigi non l’ha mai vista finita. C’è la terapia dell’abbraccio, ma non si stringono gli alberi, nel palo della luce non c’è il calore della vita, c’è il gelo della morte. Lo sguardo di lei che fissa la camera e ti penetra tra sfida e grido di dolore riassume quello che poi affiorerà tra le pagine.

Il libro è uscito fuori collana per Tunué che ha pubblicato con coraggio un’opera inusuale, difficile da etichettare. Come si può definire questa tipologia di narrazione? Non è solo romanzo, non è solo romanzo illustrato e nemmeno solo fumetto. Non esiste, che io sappia, nemmeno un temine in inglese che di solito esiste ormai per quasi tutto. Con Luigi c’eravamo messi di impegno a trovare una definizione. Era seguito uno scambio di proposte. Lui aveva trovato quella giusta. Purtroppo me la sono dimenticata e nonostante abbia cercato in mail, messaggi o appunti non ne è rimasta traccia. Solo la sua voce che me lo dice ma i suoni e le parole sono disturbati dalle interferenze. Così mi sono preso la responsabilità di chiamarlo in maniera transitoria Total Novel. Perché di fatto si abbattono i confini linguistici.

A stilare la tua carriera ci si perde nei diversi titoli pubblicati, sia da solista sia in collaborazione con altri, tra i quali mi piace ricordare Roberto Perrone per Banana Football Club e Pino Cacucci per La giustizia siamo noi. Sono i narratori ad avere bisogno delle tue matite oppure sono incontri casuali? Con Pino per La Giustizia siamo noi non è stato affatto casuale. Dopo l’esperienza con Tobacco ci siamo più volte ripromessi di rifare di nuovo qualcosa insieme. Tra i due libri sono passati nel mentre quasi vent’anni.

È stato un rientro a casa e uno degli aspetti più interessanti nel lavorare dopo un lungo periodo ha preso forma nella modalità di composizione e della tematica. Nel tempo era cambiato tutto. Quando lavoravamo a Tobacco non c’era ancora stata Tangentopoli e il crollo del Muro aveva illuso l’occidente che davanti ci sarebbe stato un futuro entusiasmante. La Giustizia siamo noi arriva dopo che era cambiato tutto. C’era molta amarezza, molta rabbia. La si respirava in giro e l’abbiamo intercettata cercando poi di raccontarla. Ci siamo visti parecchio, abbiamo discusso e poi Pino ha scritto un lunghissimo trattamento, che poi ho sceneggiato e disegnato e infine la palla è ritornata a Pino che ha scritto i dialoghi. In definitiva abbiamo lavorato con le varianti del caso applicando il metodo Marvel creato da Stan Lee per velocizzare i tempi. Nel nostro caso è stato proprio un espediente letterario che diventa strategia narrativa. Invece la versione a fumetti di Banana Football Club ha avuto un percorso decisamente diverso. Sul finire degli anni Dieci mi chiama Beatrice Masini che dirigeva la collana Rizzoli Oltre, dedicata ai ragazzi, e mi racconta che c’era l’idea di ricreare in qualche modo Il Corriere dei Piccoli. Conoscendo la mia passione per il calcio mi propone di realizzare una storia con quell’argomento. Si trattava di fare una trasposizione di Banana Football Club di Roberto Perrone, scrittore e giornalista sportivo. Accetto con entusiasmo perché oltre al calcio mi piace raccontare storie di bambini e sono affascinato dalla sfida della trasposizione letteraria. L’avevo già fatto in precedenza con Un sacchetto di biglie di Joffo. Purtroppo il nuovo Corrierino non si è mai tradotto in realtà (aggiungo con grande rammarico di tutti noi che ci avevamo sperato) ma con Beatrice abbiamo deciso di portare avanti il progetto che avevo iniziato. Sarebbe uscito in volume. A questo punto avevo fatto la mia proposta: preferirei non incontrare Perrone fino alla conclusione e volevo avere autonomia sul testo. Volevo sentirlo mio fino in fondo, libero di essere fedele e di tradire. Così ho letto il libro un paio di volte, l’ho disseminato di post it con appunti vari, l’ho in pratica riscritto sotto forma di sceneggiatura, spostando eventi, dando maggior enfasi a certi, ho sviluppato alcuni personaggi che erano marginali, creato qualcuno come il massaggiatore che guarda caso è sardo. Mi ricordo quello come un periodo magico. L’ho scritto e disegnato nel garage della casa dei miei suoceri nel Westchester nello stato di New York, ascoltavo una radio universitaria che trasmetteva musica d’avanguardia. Mi relazionavo con lo staff che era dislocato tra Milano, Brescia, Palermo e Cagliari dove viveva Laura Congiu che ha realizzato buona parte dei colori. Durante quell’estate sono diventato presbite ed è cambiato il mio modo di confrontarmi con il foglio da disegno. Perrone poi l’ho conosciuto quando abbiamo presentato il libro. È stato bello parlare di calcio con un grande esperto.

Se non erro l’unico tuo titolo ambientato in Sardegna è L’illusione della terraferma, ambientato nel Sulcis degli anni trenta, in piena epoca fascista. Tornerà il commissario Ettore Marmo? Prima di Terraferma ho realizzato per Kappa con uscita su Mondo Naif un’altra storia, Loving the Alien, che è ambientata a Cagliari negli anni Settanta, quando c’era l’austerity e la psicosi degli avvistamenti UFO. C’erano diverse parti autobiografiche sul mio passato di nerd che amava i fumetti e la fantascienza.

Terraferma è stato un approdo ineluttabile. Sono confluiti la mia ossessione per gli eventi del ventennio fascista e i ricordi del Sulcis attraverso i racconti di mia madre che ha insegnato in quella zona per tanti anni e che a volte mi portava con lei in treno. Il viaggio mi sembrava infinito e il momento più bello era quando si costeggiava il castello dell’Acquafredda dove pare fosse stato rinchiuso il conte Ugolino. Ogni volta che passavamo lì mi si apriva un mondo fantastico. Terraferma è stato uno spartiacque. L’avevo scritto pensando di non disegnarlo io. Pensavo a un disegnatore dal segno realistico, poi per una serie di circostanze il progetto non decollava mai e a malincuore l’avevo lasciato perdere. Ma la storia era forte e mi chiamava. Alla fine ho preso la decisione di provarci io, perché era infinitamente più facile entrarci direttamente io in quelle atmosfere piuttosto che spiegarle a un’altra persona. Così mi sono messo a studiare. Libri di storie, di storia del costume, aneddoti del periodo, i romanzi gialli scritti in quel periodo da De Angelis con il commissario De Vincenzi, poi Lucarelli, Gadda. Sono tornato nel Sulcis dopo anni. L’ultima volta era stato per Nuvole Parlanti a Carbonia. Sono sceso in miniera a Serbariu, mi sono sepolto nell’archivio minerario di Monteponi a Iglesias. Ho preso un’infinità di appunti prima di iniziare a disegnare e con il disegno è arrivata la vera prova di forza.

Il personaggio di Ettore Marmo, il protagonista, non mi veniva. Ce l’avevo ben impresso a mente ma c’era qualcosa che non tornava. Era un incrocio tra Pietro Germi, Amedeo Nazzari e il calciatore cileno Pinilla, ma era sempre troppo perfetto, troppo finto. Alla fine gli ho rotto il naso, l’ho disegnato con una gobba ed era finalmente lui. Ho approfittato di quella gobba, per raccontare in un racconto inedito del perché del naso spezzato. Prima o poi lo pubblicherò. Lo spartiacque si è definito quando ho capito che potevo raccontare anche storie di genere, o imparentate con il genere, con il mio segno che è tutto fuorché realistico. Il libro l’ho portato ovunque con reading musicali culminati con la serata nel museo della miniera di Serbariu dove era iniziato tutto. Spero di riuscire a fare il secondo volume che è ambientato a Cagliari durante la guerra sotto le bombe.

Tu, Igort, Pasquale Ruju, Bruno Enna, Vanna Vinci, Bepi Vigna e la lista dei fumettisti sardi di fama consolidata è ben più lunga. Perché così tanti sardi sanno fantasticare bene? Penso sia anche per essere nati in un’isola. Da piccolo mi sembrava una maledizione perché tutto ciò che era interessante avveniva lontano al di là del Tirreno. Con il passare del tempo ho visto invece questa condizione originaria come un privilegio. Chi sta in un’isola è portato a guardare oltre, a impadronirsi dell’orizzonte. Ha una visione identitaria molto più forte e definita e quando te ne vai resti comunque legato alla tua terra madre. Rispetto alla nostra generazione devo dire che eravamo tutti molto determinati, ossessionati. Questo desiderio di riuscire è stato decisivo.

Dalla tua cattedra all’Accademia di Belle Arti riesci ad anticipare qualche nuovo nome da aggiungere alla lista di prima? Di sicuro Gabriele Peddes. Lui è oriundo da parte di padre. Un grandissimo talento con il quale ho realizzato uno dei volumi di Storia della Sardegna a fumetti, Alternos, dedicato alla figura tragica di Giovanni Maria Angioy. Un’altra in rampa di lancio è Martina Sarritzu, romagnola giovanissima con padre di Monserrato. Si appena diplomata con noi. Sta uscendo un suo volume per Canicola Edizioni scritto da Tono Pettinato. Sarritzu spacca!

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