di MARIO GIRAU
La situazione a Parma è degenerata molto rapidamente, prima ancora che fosse imposto il lock-down. “Questo ha comportato – dice il giovane medico – che l’ospedale venisse sommerso da un numero di pazienti molto maggiore rispetto alla disponibilità. La risposta dell’ospedale di Parma è stata rapida ed efficace, ed ha coinvolto anche noi specializzandi, responsabilizzandoci ulteriormente e chiedendoci giustamente un aiuto in un momento di forte destabilizzazione della normale struttura. Come molti dei miei colleghi mi sono domandato cosa potevo fare. Se effettivamente potevo rendermi utile in qualche modo e se ero pronto per la situazione. In questo genere di mestiere gli errori si pagano cari e il pensare di dover prendere delle decisioni in pazienti così gravi può spaventare. Devo comunque dire che nonostante la maggiore responsabilizzazione, abbiamo il costante supporto di medici più esperti che ci coadiuvano e accompagnano in tutte le decisioni. Senza di loro, che lavorano ormai senza sosta da metà febbraio, la situazione sarebbe estremamente più complessa”.
Quando il Covid19 ha fatto irruzione nella sua vita? “Devo essere sincero, non ricordo il giorno esatto in cui ho cominciato a lavorare con questi pazienti. Attualmente sono impegnato solo nelle terapie intensive, dove un po’ viene a mancare il rapporto classico tra medico e paziente. I nostri ammalati sono spesso intubati e sedati profondamente per non provare sofferenza e riuscire a tollerare meglio le cure. Sono percorsi terapeutici molto impegnativi sia per i pazienti sia per i medici. E’ stato strano trovarsi bardati come degli astronauti in una struttura dove normalmente tutti lavoravamo con delle classiche divise. La malattia ha un grado di gravità estremamente variabile, passando da completamente asintomatica a quadri di gravità estrema e purtroppo talvolta irrimediabile. Adesso credo sia ancora troppo presto per farci un’idea precisa su quanto spesso questa si presenti con quadri gravi. Tuttavia, vorrei che la gente potesse aver visto quello che abbiamo visto noi medici impegnati con questa emergenza, per capire quanto sia importante per noi e per loro che venga limitata il più possibile la diffusione”.
Momenti drammatici sicuramente non sono mancati, non solo per i pazienti. “Assolutamente si, anche perché l’iniziale diffusione dei contagi è stata enorme e questo ha portato un afflusso di ammalati molto superiore al normale. Fortunatamente i vertici ospedalieri, coadiuvati da un personale collaborante e determinato, sono riusciti a riorganizzare molto velocemente la nostra struttura, gestendo una situazione difficile, imprevista e drammatica. E’ nato un triage respiratorio per i casi sospetti, sono stati impegnati interi padiglioni, per curare e prendersi cura dei malati, tenendo sempre dei percorsi puliti per i malati non infetti (non dobbiamo dimenticare che le altre malattie non sono andate in vacanza, e chi era malato prima di questa crisi non ha smesso di esserlo), e i posti di terapia intensiva sono stati aumentati in maniera rilevante. Questo è stato possibile grazie al lavoro costante di chi organizzava ed alla collaborazione assoluta degli operatori sanitari”.
L’impegno lavorativo, quindi particolarmente intenso. “Le mie ore di lavoro sono molto variabili a seconda delle situazioni che si vengono a creare (per un medico è inevitabile), le necessità ospedaliere e il numero di turni da coprire. Non le ho mai contate, ma son comunque tante, questo anche perché oltre a lavorare in ambiente ospedaliero, cerco di dare una mano a coprir presidi sul territorio, in quanto molti medici si sono ammalati nelle fasi iniziali della malattia”.
Paura del contagio? “Credo sia umano avere paura di un contagio, soprattutto quando si opera a strettissimo contatto con i malati e si vede cosa può comportare la malattia. Tuttavia quando si lavora ci si concentra sui malati e difficilmente si ha il tempo di fermarsi a pensare alla paura di essere contagiati. Il mio pensiero e la mia preoccupazione vanno principalmente ai miei genitori che sono in Sardegna e dei quali non posso prendermi cura per via della mia lontananza. Vorrei comunque sottolineare l’ammirazione che provo per i miei colleghi più anziani, che nonostante siano ultrasessantenni e dunque corrano un rischio maggiore, continuano a lavorare anche dieci ore al giorno per dare il loro preziosissimo contributo”.
Che cosa pensa un giovane medico di fronte alle situazioni create dal coronavirus? “E’ difficile esprimere con le parole quello che si prova e si pensa davanti ad una situazione come questa. Da giovane medico sto vivendo una situazione lavorativa che non pensavo avrei mai affrontato (neppure i medici più avanti con gli anni si erano mai trovati davanti ad una situazione come questa). Credo che lascerà in tutti noi dei segni indelebili, ma spero si riesca a sensibilizzare le persone sull’importante ruolo del nostro SSN”