di SERGIO PORTAS
Sono tempi questi di grande compassione: patiamo con gli altri (gli operatori sanitari lo fanno seguendo i dettami del loro mestiere che comporta, ora più che mai, il rischio della vita. Tanto più alto quanto impreparato lo Stato che non ha ben predisposto le sue armi per far fronte all’epidemia che sappiamo). E questo patire -con ci fa vedere meglio quanto sia indispensabile per il nostro esistere il rapporto con l’altro di noi. Quali siano i fili che ci legano gli uni con gli altri, quale mondo più povero ci resti dal dipartirsi di tanti “grandi vecchi”, ma non solo. E per evitare, se possibile, di rimanere schiacciati dalla conta quotidiana dei morti e infettati, per liberarsi dall’ansia che ci spinge ad un egoismo che ci vuole vivi a dispetto di tutto e tutti, ben vengano quelle figure d’artisti che hanno speso la vita, lasciando in eredità il loro lavoro, nel continuo interrogarsi delle domande che contano.E che ci facciamo finalmente anche noi. Noi sardi ne abbiamo una grande che in questo periodo è in grande spolvero, e come sia stata improvvisamente riscoperta in tutto il suo valore è argomento di discussione tra i critici d’arte. Diventando star internazionale, i suoi lavori (non che questo conti più che tanto) si impennano nei rilanci delle grandi aste che decretano quanto incredibile massa di denaro i ricchi della terra sono disposti a sborsare per assicurarsi il privilegio di avere in casa uno dei suoi manufatti. Maria Lai nasce a Ulassai, paese ogliastrino di pastori che faceva allora 2000 anime o poco più, nel settembre del 1919. E sin dalla sua infanzia da lì se ne è sempre voluta andare via, felice di stare da sola ad ascoltare il vento tra i ginepri più che a giocare coi compagni e fratelli. “Forse non ti vogliamo bene abbastanza”, le dicevano in famiglia con un a certa acredine. E benché sentisse invece che specie il suo babbo era quello che di bene le ne voleva un mare , da piccola si nascose in un carro di zingari, che erano rimasti in paese per più di un anno vivendo di lavori saltuari e di “spettacoli acrobatici”, quando questi infine ripresero il loro girovagare per la terra. Li sentiva essere diventati la sua vera famiglia. Scoperta dopo una giornata di cammino, con suo grande scorno, fu riportata a casa dove le venne ripetuta l’eterna domanda: “Ma non ti vogliamo bene abbastanza? ”La spingeva quel suo eterno bisogno di creare distanza da chi l’amava. “Il vero amore è quello che aiuta l’altro a essere libero” ha sempre affermato. A scuola fu fortunata, alle medie si imbatté in uno di quei “prof” che ti segnano per la vita: Salvatore Cambosu (quello di: “Miele amaro”), che era allora un trentacinquenne insegnante di italiano e latino, che le aprì la mente alla bellezza della poesia, e alla stupefacente bellezza del passato della cultura sarda dispiegata sempre, per chi avesse voglia di guardarla, davanti a sé, non già dietro le spalle come un qualcosa che è oramai passata. Una lezione che Maria non dimenticherà più, e che ci ripropone in ognuna delle sue opere. A parlarci di lei, era il 22 novembre a.V. (avanti Virus), al museo del ‘900 palazzo dell’Arengario di Milano, è Elena Pontiggia, milanese e critica d’arte, ha insegnato a Brera e al Politecnico, scritto una miriade di libri, presenta oggi il suo: “Maria Lai. Arte e relazione”. Ilisso editore, 2018. Uno di quei volumi che la casa editoriale di Nuoro sfodera curando grafica e fotografia con una professionalità oramai riconosciuta, ne viene fuori un prodotto unico e prezioso nel suo genere, a prezzo non propriamente popolare (65 euro su Amazon). A presentare l’autrice è la padrona di casa, Anna Maria Montaldo, che da due anni è a capo del Polo Arte moderna e contemporanea della città meneghina, lei che laureatasi a Cagliari in lettere e filosofia, dall’87 è stata a capo dei Musei civici cagliaritani. Sfodera oggi un paio di scarpe rosso fuoco che fanno pendant con la camicetta di seta, giacca e pantaloni rigorosamente neri: “Elena, dice, ha saputo cogliere, da milanese, tutto ciò che nell’arte di Maria era radicato della sua regione, del suo paese”. Una apertura di credito molto lusinghiera, venuta da una che nel 2014 aveva messo in piedi un progetto espositivo dei Musei Civici di Cagliari e del Museo Man di Nuoro a cui era stato dato titolo: “Maria Lai. Ricucire il mondo”. Ma Elena Pontiggia se lo merita tutto, capace di interloquire con una parlata precisa e sontuosa allo stesso tempo, ci dice di Maria attraverso le opere che hanno caratterizzato la sua poetica, innamorata com’è della Sardegna ogni tanto si lascia sfuggire una qualche esagerazione sentimentale: è convinta di una “gentilezza inimitabile dei sardi”. “La specificità di Maria, innestare la sapienza millenaria nella contemporaneità. La sua arte è concettuale, relazionale e anche classica, affonda le radici nel passato. Parlava come un oracolo, la sua tensione didattica tutta tesa a insegnare che cosa l’arte sia: un linguaggio, per poterla praticare quindi prima occorre conoscere la sua lingua. E’ venuta alla ribalta negli anni ’70, non più giovanissima, ma per voi sardi gli anni valgono la metà, il suo “Pastore con gregge” è del 1960. Già da allora ha in mente l’infinito. Tutta l’immagine va verso l’infinito. La prima opera che la pone nel centro dell’oggetto-paesaggio è del 1967. Ma già negli anni ’60 si inventa un telaio (non un vero telaio, lo fabbrica lei) e lo pone al centro dello spazio. E’ un “oggetto rifatto”, Pino Pascali farà qualcosa di simile coi suoi cannoni, le sue bombe, le sue mitragliatrici. Prende degli oggetti che abbiano una certa risonanza e li utilizza come opere concettuali. Maria quindi è vicina al mondo della ricerca più avanzata, ma lo fa con l’eco dei millenni, gioca il futuro con il presente. Da questo momento si mette ad utilizzare il filo (la parola linea del resto deriva da lino) “Telaio sole e mare (telai inventati ma rotti, spezzati) è del 1971. “Paesaggio al vento” del 1974. Anticipa tutti. È una caposcuola. Le chiedono un monumento ai caduti nella sua Ulassai? Nasce il progetto: “Legarsi alla montagna” (la bellezza che salva): quella bimba che si salva da un crollo di una grotta perché corre dietro ad un nastro di seta azzurra: 26 chilometri di tela di jeans. L’opera nasce dalla gente comune che così diventa attrice essa stessa. Un modo di pensare l’arte che non esclude, ma aggiunge significato. Il tutto nasce dalla sua civiltà sarda che la anima. Tanti artisti lavoravano al di fuori dei musei: Christo ( e la moglie Janne-Claude) avevano già cominciato a “legare”. Ma c’è tutto il calore di una millenaria sapienza nei lavori di Maria con il pane. E col filo che rimanda al lavoro altrettanto antico delle donne: quasi personaggi omerici, prefiche. E l’uso del pane diventa (nel 1981) un’altra forma d’arte, splendide le foto in bianco e nero di Berengo-Gardin. Il bimbo appena nato fatto di pane rimanda alle michette di Piero Manzoni, un’opera quasi metafisica. Ma invece è un’operazione tutta mentale. Cita Dante Elena Pontiggia, il canto XI del Paradiso: “Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo/ e ora ha Giotto il grido/ sì che la fama di colui è oscura”. Il grido di Maria è di usare il pane, aveva in mente quando per le feste le donne del paese si mettono ad intessere riccioli di farina su quei pani sontuosi che pare sin brutto spezzare, con alle spalle i millenni della Sardegna. Siate orgogliosi della vostra civiltà, dice ai numerosi sardi presenti (ha queste innamorate!), delle vostre poesie, dei canti, dei racconti. C’è il presidente del Circolo sardo di Milano, Giovanni Cervo, che ha portato e lo proietta un filmato inedito di 16 anni fa, quando Maria Lai era stata a Milano, invitata dall’allora presidentessa Pierangela Abis. In esso anche Giovanni Campus, l’artista di Olbia, che è qui anche oggi e si lascia andare ai ricordi di una vita: quell’anno del 1971 quando a Cagliari, c’era una sua mostra all’università, si imbatté nel lavoro della Lai: “Il pastore col gregge”, era un periodo in cui si cercavano linguaggi nuovi per l’arte: mi stupirono i lavori di un altro scultore di Isili: Luciano Muscu. C’era, negli artisti sardi, una ricerca proiettata sul sociale. Il tentativo di abbracciare l’insieme con un atto collettivo. La proiezione del pensiero era rivolta al futuro. Nel tentativo di afferrare il senso del tempo, quello che sfugge alla storicità. Inevitabile una certa nostalgia per un tempo in cui gli artisti si scambiavano la vita, quando Costantino Nivola, un “gigante di un metro e cinquanta” dormiva nel mio studio di via Solferino. Sedici anni fa anche il vostro cronista era rimasto fulminato dall’incontro con una personalità così singolare, ne fa fede l’incipit dell’articolo che mandò allora alla “Gazzetta”: “Finalmente l’ho incontrata una jana, una fata. Forse l’ultima che sta ancora calcando la terra dove è nata, da uno sciame di api, come vuole la tradizione. Dal nome dolce come miele d’asfodelo: Maria Lai, se ne va, con l’eterno sorriso pronto ad erompere dalle labbra strette, seminando la follia della sua estetica. Della sua poetica…riesco a rubarle un minuto per chiederle se senta nostalgia della Sardegna. “La vera nostalgia non è quella per un’isola. E’ l’ansia d’infinito”.