di SALVATORE TOLA
Il 10 maggio 2020 ricorre il secondo anniversario della scomparsa del professor Manlio Brigaglia. In questi due anni le comunità alle quali era più legato – Sassari in primo luogo, dove aveva trascorso tutta la vita, Tempio e Arzachena, dove affondava le radici la sua famiglia, Santa Teresa, dove trascorreva le vacanze con la moglie – si sono impegnate nel rievocare e fare onore a una personalità così ricca e sfaccettata.
E altre manifestazioni sono in programma: è solo rimandata causa epidemia la presentazione agli studenti del liceo di Sassari “Azuni” della seconda edizione di un originale libretto di istruzioni per la maturità che aveva regalato a suo tempo ai suoi allievi; le istituzioni culturali, dal canto loro, dovranno approfondire in appositi convegni i risvolti delle sue attività fondamentali: di storico, di giornalista, di “facitore di libri” come amava chiamarsi.
“Tottus in Pari” contribuisce a questo lavoro di rievocazione e di approfondimento pubblicando gli interventi di Salvatore Tola e di Paolo Pulina, che del professore sono stati allievi (il primo fuori dalla scuola, il secondo proprio all’“Azuni”, per tre anni); e il testo della bella intervista televisiva intitolata “Ottanta anni di storie” che il giornalista della Rai Tonino Oppes gli fece all’ottantesimo compleanno (2009).
Conoscevo il professor Brigaglia di vista. Lo ricordavo nei saloni affollati dei “Dibattiti del sabato” organizzati a Sassari dalla rivista “Ichnusa”; e lo vedevo spesso, quando andavo a curiosare negli incontri culturali, e anche nelle assemblee sindacali. E sapevo che quando circolava per la città nella tarda mattina era perché approfittava dei “buchi” del suo orario al liceo “Azuni” per raggiungere le tipografie (Gallizzi in via Brigata Sassari, Chiarella in via Al Carmine, Tas ex Dessì a pochi metri) dove aveva lavori in corso.
Il primo incontro ravvicinato fu a casa sua, nei primi anni Settanta: stavo scrivendo la tesi di laurea sulla rivista “Ichnusa” e lo intervistai per il ruolo – i ruoli – che aveva rivestito al suo interno (Antonio Pigliaru, il direttore, era scomparso nel 1969).
Il suo primo incarico mi arrivò nel 1977: la moglie, Marisa Buonajuto, che insegnava come lui all’“Azuni”, aveva pubblicato con alcuni alunni un’inchiesta su quella stessa scuola, e mi chiedeva di scriverne una recensione. Appena fatta gliela consegnai, dopo di che mi arrivò la telefonata: «Mia moglie ha detto che va bene». Conobbi così uno dei punti del suo metodo: poche lodi, e indirette.
La sua approvazione arrivò piuttosto con i nuovi incarichi. Il primo mi giunse nella tarda primavera del 1977: nel premio letterario “Ozieri”, l’unico allora di poesia sarda, era scoperto un posto: quello del giurato che, in rappresentanza del mensile degli emigrati “Messaggero sardo”, doveva occuparsi delle composizioni che arrivavano appunto dal mondo dell’emigrazione.
Il professore mi segnalava e io accettai. Il 29 luglio partecipai alla seduta: eravamo a casa del fondatore e segretario, Tonino Ledda, che mi guardava con sospetto perché la mia nomina era avvenuta a sua insaputa. Ma col tempo prese a benvolermi, e mi nominò membro a tutti gli effetti, chiamato a seguire anche le altre sezioni in cui il concorso si divideva.
Aveva così inizio la mia carriera di giurato: in seguito, quando altri premi si sono affiancati all’“Ozieri”, diffondendosi in tutta l’isola, sono stato ripetutamente chiamato, sino a entrare in una decina di giurie all’anno. Oggi, a più di quarant’anni di distanza, faccio ancora parte di quella prima (della quale sono il membro più anziano) e di altre due o tre.
Ma intanto la prima partecipazione all’“Ozieri” aveva avuto una ramificazione: al “Messaggero sardo” ricevevano dai lettori una quantità di poesie, per la maggior parte in sardo, e avevano bisogno di un collaboratore che le scegliesse e le mettesse in ordine per presentarle al pubblico. La proposta mi arrivò ancora una volta dal professore, che era collaboratore “storico” del giornale, e già sul numero di dicembre del 1977 usciva la mia nuova rubrica, intitolata “Parlando in poesia”. Avrei continuato per alcuni decenni, fino a compilarne più di 400.
Un altro incarico mi portò, qualche tempo dopo, a contatto con i grandi poeti – sempre in sardo – del passato. Morendo improvvisamente, nel giugno del 1980, Michelangelo Pira aveva lasciato a mezzo la preparazione di un’antologia del celeberrimo “Padre Luca” Cubeddu: doveva entrare a far parte della collana “I grandi poeti in lingua sarda”, cui Brigaglia aveva dato avvio con Pira nel 1975, ed era uno dei punti di maggiore forza delle Edizioni Della Torre (comprendeva già una decina di volumi).
Di Pira rimaneva, sia pure non portato a termine, un testo introduttivo, dove dava ancora una volta prova della sua competenza e della sua sensibilità verso quel genere di letteratura; il professore mi chiedeva di aggiungere una biografia del poeta e di scegliere le poesie. Il libro uscì nel 1982, e fu un altro inizio: in seguito, tra le proposte mie e i suggerimenti che mi sono venuti da Brigaglia e dall’editore, ho curato una mezza decina di antologie, più alcune altre in collaborazione con altri.
Ancora oggi mi chiedo come avesse fatto il professore a intuire la mia inclinazione verso la poesia sarda: non avevamo avuto occasione di parlarne, né la poteva cogliere dagli articoli che avevo iniziato a scrivere per “La Nuova Sardegna”: perché, come si usava allora, non seguivo un “filone” preciso ma mi occupavo di tutti gli argomenti che mi capitavano, persino di pittura e di teatro.
E intanto non aveva finito di indicarmi i campi che potevo zappare. Nel 1983, mi sembra in primavera, mi arrivò una lettera con cui mi incaricava di scrivere la voce sull’editoria per il terzo dei volumi sulla Provincia di Sassari che stava curando. Si rafforzava un altro mio centro d’interesse, che era già “nutrito” dalla rubrica “La Sardegna libro per libro”, avviata sulla “Nuova” l’anno prima, con la spinta del redattore della pagina culturale Stefano Del Re; e avrebbe trovato sviluppo nella collaborazione, come segretario, alle attività dell’Aes, l’Associazione degli editori sardi costituitasi a Oristano nel 1986. Ma fu ancora da Brigaglia che venne l’incarico di scrivere una sorta di rapporto sull’editoria sarda di quegli anni: lo voleva utilizzare per un seminario di studio che poi non si tenne, ma l’editore Delfino ne avrebbe fatto nel 1992 un “quadernone” a stampa.
In quegli stessi anni il professore mi chiamò al suo fianco nell’attività alla quale era più appassionato, quella di “facitore di libri”: che comprende, quando si collabora con piccole editrici come quelle isolane, tutte le operazioni necessarie alla stampa di un’opera: dall’editing alla correzione delle bozze, dalla stesura – molto spesso – della prefazione allo studio della copertina e alla formulazione del titolo.
Iniziai dalla gavetta: il primo incarico fu la correzione delle bozze del saggio di Nicola Tanda Letteratura e lingue in Sardegna, che la Edes pubblicò nel settembre del 1984. Poi, non senza qualche incidente di percorso e senza mai arrivare alla grafica delle copertine, fui avviato alle altre prove più impegnative. Così, mentre il maestro poteva contare su un collaboratore fedele e appassionato, io potevo consolidare una modesta ma per me gratificante attività di “professionista del libro”.
Nel ripercorrere queste memorie ho finito per parlare sin troppo di mie attività; ma vorrei sia chiaro che l’ho fatto per rendere omaggio al professore, e mettere in risalto una delle sue più grandi virtù. Quando si parla di un maestro (nel senso più ampio, intellettuale e umano, s’intende) si mette di solito in evidenza la validità delle cose che ha detto e scritto, l’efficacia degli insegnamenti che ha lasciato, l’esemplarità delle azioni che ha compiuto. È quello che si è fatto per lui in questi due anni successivi alla sua scomparsa, e si continuerà a fare in seguito. Le motivazioni e gli argomenti non mancano, di fronte a una personalità così ricca, a un’attività così intensa svolta per decenni, spesso in collaborazione con allievi e amici. Ma il mio intento era mettere meglio in luce un aspetto particolare della sua personalità: l’inclinazione a guardarsi intorno, individuare le capacità, i talenti di allievi, amici, semplici conoscenti, per poi promuoverli, uno per uno, proponendo attività concrete come una ricerca, la stesura di un articolo, la revisione di un testo; e poi magari reiterando, con un’opera di promozione molteplice e protratta nel tempo. È una sorta di generosità intellettuale che si trova molto raramente, anche nei maestri più noti ed amati. Io ne ho goduto ampiamente, come ho raccontato, e volevo renderne testimonianza.
Salvatore Tola Nato a Faenza nel 1940 da padre sardo e madre romagnola, è tornato in Sardegna con la famiglia a 14 anni. È stato insegnante, si è occupato di storia della cultura isolana e di poesia sarda, ha collaborato e collabora con editori e privati alla “fabbricazione” di libri.