di PAOLO SALVATORE ORRU’
“Le cose cambiano ecco com’è: quello che c’era adesso non c’è”, ha salmodiato il cantautore Giovanni Lindo Ferretti. Oggi la Carlo Felice, la strada che congiunge la Sardegna da Cagliari a Portotorres c’è, ma sino al 1820 non era nemmeno nei pensieri della maggioranza dei sardi che anzi di quella strada ne avrebbero fatto volentieri a meno. Del resto, un popolo che per molto più di un millennio era stato abbandonato e sfruttato dai “signori” che di volta in volta si aggiudicavano lo sfruttamento dell’Isola (ricca di foreste, miniere e grano) che cosa ne poteva sapere di quanto poteva essere importante una strada di quella portata per la loro economia. I sardi erano conservatori, il contatto con il mondo esterno era, soprattutto nel Capo di sopra, se possibile, evitato più del coronavirus oggi.
Pastori, agricoltori, braccianti agricoli e minatori che tiravano a campare che ne potevano sapere di strade, ponti e cavalcavia? A loro bastavano i tratturi e i collegamenti che migliaia di anni or sono aveva realizzato il Genio militare dei romani. Prima della Carlo Felice la Sardegna era percorribile a piedi. Fortunatamente, 200 anni fa c’era chi credeva nel progresso. “Prima della realizzazione della strada reale le relazioni tra Cagliari e Sassari e il porto di Torres erano difficoltose. Si dovevano attraversare territori impervi tra boscaglie e acquitrini. Dell’antica strada romana restava qualche tratto sconnesso dopo l’abbandono per mancanza di lavori di manutenzione dopo il V secolo dopo Cristo. I reperti servivano almeno per indicare la direzione a chi andava a piedi e a cavallo. Senza carri, con grave limitazione alle attività di commercio sulle lunghe distanze. Solo nel corso del XVIII secolo si avvieranno progetti moderni per collegare i due Capi dell’isola, ma con esiti parziali”, ha spiegato a Sandro Roggio, architetto sempre attento alla storia e alla difesa delle bellezze naturali dell’Isola.
La “Statale” è stata pensata 200 anni fa. Ora nessuno, “le cose cambiano”, pensa che la “superstrada” sia una cosa inutile, ma la gestazione è stata lunga e il parto non è stato indolore: “A fasi di grande impegno seguivano lunghe sospensioni dovute alla mancanza di risorse o per la morte degli incaricati a causa dell’“aria insalubre”. E a poco serviva che il comando fosse affidato a illustri architetti, come al forestiero Giuseppe Viana che lamentava la mancanza di rilievi attendibili. O al marchese Vittorio Pilo Boyl, sardo stimato a corte, artigliere messo a capo dell’impresa nel passaggio di secolo con esiti di poco conto”, ha detto Roggio.
Poi c’è stata la svolta. Dopo una serie di scandalosi fallimenti (forse il danaro rimaneva appiccicato alle mani di qualcuno?), la decisione di Vittorio Emanuele I di affrontare virilmente la questione. Come? “Conferendo, nel 1820, un incarico speciale a Giovanni Antonio Carbonazzi. Sbarcato in Sardegna nell’agosto dello stesso anno per organizzare la prima fondamentale esplorazione muovendo da Cagliari, l’indagine che gli consentirà di trasmettere dopo 15 mesi il primo rapporto alla Capitale, Torino. La mossa primaria del programma d’intervento messo a punto nel 1820 in accordo con il governo e con il supporto di sardi influenti: Vittorio Pilo Boyl Stefano Manca di Villahermosa e il barone algherese Giuseppe Manno, segretario di Carlo Felice dal 1821”. Ed è stato il salto di qualità tanto auspicato.
Va subito detto che Carbonazzi è ingegnere preparato e sagace. “Il piemontese Carbonazzi era uno degli ingegneri del Regno con le maggiori credenziali. Studi a Parigi dal 1808, per qualche anno nelle prestigiose Scuole Politecniche. Un grande privilegio considerato il numero ristretto di allievi stranieri ammessi. Una ventina quelli provenienti dal Regno sabaudo che hanno potuto studiare in Francia durante l’occupazione napoleonica”, spiega ancora l’architetto. Carbonazzi aveva potuto studiare in Francia grazie a una delle tante intuizioni di Napoleone, secondo il quale “gli ingegneri sarebbero serviti alle necessità della guerra e anche in tempo di pace. Non solo esperti di infrastrutture per il transito degli eserciti. Ma competenti su quelle indispensabili per la vita dei cittadini. La tecnica al servizio della crescita economica del territorio. Strade e ponti, canali, porti, bonifiche e opere idrauliche, miniere e infine chemins de fer”, ha commentato ancora Roggio. Una intuizione che fu fatta propria anche dai Savoia. “Vittorio Emanuele I infatti ritenne opportuno potenziare l’impiego dei Corpi di ingegneri. In questa direzione un provvedimento del 1815 verso l’istituzione del Genio Pontieri, che si adeguerà rapidamente ai bisogni civili, pure con il concorso di Carbonazzi”.
Carbonazzi era un tecnico illuminato, i sardi però nutrivano pregiudizi sul valore reale di una strada così concepita, tant’è che la contrastarono esprimendo anche “opinioni bizzarre”. C’era chi, conferma l’architetto, pontificava “addirittura sulla inutilità delle strade in Sardegna, delle quali, dicevano i balentes, ‘non vorranno servirsene i sardi, perché avvezzi a cavalcare attraverso monti e valli’, e perché l’isola è attorniata dal mare, la più ampia e la più capace strada del mondo”. Altri, confutavano le tesi dell’ingegnere italo-francese l’ingegnere italo-francese con proposte alternative riguardo al tracciato, “preferendo ipotesi alternative in tutto o in parte difformi dalla spina dorsale decisa da Carbonazzi, cioè il percorso centrale, ricalcante grosso modo la via romana. La soluzione più ragionevole, e alla fine prevalente, ad esempio su quella di una viabilità in parte litoranea. Si riconosceva così il primato di un sapere tecnico che ha come presupposto l’osservazione”, ha osservato Roggio.
Carbonazzi aveva la possibilità di vedere le necessità dell’Isola con l’occhio oggettivo dello straniero (“istranzo”, dicono i sardi). “Per interrogarsi sulle cause delle difficili condizioni degli isolani, la cui povertà – in una terra ricca di risorse naturali – gli sembrava inaccettabile. Al pari di altri esploratori, come Alberto La Marmora, che in quel tempo prendevano le difese dell’isola sfortunata”. I Savoia ormai ci avevano messo la faccia, non potevano permettersi di essere derisi dai reali dei reami vicini. Carbonazzi decise che la progettazione seguisse il corso dei lavori: “Mentre si lavorava su un tratto del percorso si preparavano i disegni per il successivo lotto, e così via. Aveva con sé una squadra efficiente e che si spostava nel territorio in relazione alle necessita. Nel frattempo si era occupato di cercare in Continente chi fosse in grado di appaltare i lavori”.
La scelta era ricaduta su tre piemontesi, Giorgio Mosca, Felice Arri, Giorgio Gastaldetti, vincolati da un contratto, con fideiussioni e ipoteche sui loro beni. “Per cui già nel 1823 si poteva dare il via alle operazioni. Nella trattativa con gli imprenditori ha contato la disponibilità del governo a mettere a disposizione un migliaio di detenuti, con una contabilizzazione accurata di questa manodopera essenziale per ridurre i tempi. La conclusione nell’arco di circa 7 anni”, ha spiegato Roggio. Conterà la determinazione del governo a impegnare le risorse necessarie, in particolare di Carlo Felice, succeduto a Vittorio Emanuele. Al nuovo sovrano sono intitolati i 200 km di strada con una carreggiata di circa 7 metri, compresi “fossi laterali” e “banchine”.
Un corpo carrabile (spesso 40 cm in mezzeria) costituito da tre strati pietre-ghiaia-sabbia. Pendenza non oltre il 7%, cioè via libera al transito delle carrozze. Requisito indispensabile per rispondere agli standard più evoluti. Un segno importante della presenza dello Stato che compensava le grandi colpe dei regnanti verso l’Isola” ha rilevato il tecnico. Per costruire la strada sono stati spesi 4milioni di lire nuove. Una somma corposa, per mettere in funzione un’infrastruttura tanto evoluta quanto difficile da tenere in ordine. “Così, già prima della fine dei lavori, Carbonazzi raccomandava di assicurarne la cura. Da qui l’introduzione nel Regno di Sardegna della figura del cantoniere, addetto alla manutenzione continuativa, sperimentata nell’isola come in Francia. Le case cantoniere nei pressi della strada che chiamiamo SS 131, segnalano la presenza dell’antico tracciato che compare ogni tanto e che andrebbe evidenziato”, suggerisce Roggio.
Di questo miracolo tecnico esistono le carte. “C’era il racconto burocratico rintracciabile in documenti sparsi in vari archivi e la traduzione nei rapporti di Carbonazzi pubblicatati in due libri. Proprio l’ingegnere aveva deciso anche il programma di comunicazione supportato da immagini. Moderno e affidato a Giuseppe Cominotti – Enrico Marchesi, abili disegnatori nella squadra al suo comando, che hanno dato conto. con disegni acquerellati, dell’avventura in terra sarda. Quei disegni, oggi nella Biblioteca reale sabauda, diventati litografie stampate a Torino per esaltare i fatti, come facevano all’epoca pure i pittori di battaglie al seguito delle armate. La politica lo chiedeva pure allora. Dobbiamo la conoscenza dei fatti anche alla versione divulgativa e propagandistica dei lavori eseguiti.
Nel maggio del 1832 si svolgeva il “Congresso Permanente di Acque e Strade” nel quale “Carbonazzi ha relazionato sull’impresa con le 16 immagini della Raccolta di vedute a disposizione del pubblico. Un modo evoluto di comunicare (oggi si fa con PowerPoint) per spiegare la modernità di un’opera destinata a cambiare la vita e la mentalità dei sardi”. Oggi la Carlo Felice, la SS131, è un punto fermo dell’economia sarda. Carbonazzi lo aveva intuito proprio 200 anni fa.