di CLARA ALVAU MORALES
Ormai Undici mesi fa, decisi di abbandonare le tue rive dorate, il tuo cielo azzurro, la tua vegetazione selvatica e il tuo mare cristallino. Decisi di abbandonare il tuo profumo di casa, il tuo sapore di serenità e la tua carezza d’amore. Decisi di farlo, con coraggio, curiosità e anche con consapevolezza. La consapevolezza che purtroppo, non mi avresti potuto garantire delle possibilità, possibilità che in quel momento, ma anche ora, ricerco. Ho migrato verso altri lidi, lidi da cui ora ti scrivo. Avevo immaginato, sognato e sperato tanti possibili scenari. Tantissimi. Ma Sicuramente non questo. Avevo immaginato di scriverti cartoline d’amore, con foto soleggiate e contrastate, con il cuore colmo di gioia e speranza e un bel francobollo estero. Ma sicuramente non una lettera piena di tristezza e rabbia. Avevo immaginato di tornare spesso a trovarti, cercando di portare sempre qualcosa di nuovo con me, per arricchirti anche solo con un chicco di sabbia in più. Ma sicuramente non di passare mesi, semestri, senza la possibilità di calpestare le tue rive e attraversare i tuoi cieli. Avevo immaginato di ricredermi sulle amarezze, le tristezze, i rancori e le rabbie provate nei tuoi confronti, e soprattutto di chi dovrebbe tutelarti.
Ma sicuramente non di provare vergogna, disprezzo e sdegno, nel leggere il tuo bollettino medico. E invece si, mi trovo qui a scriverti una lettera, da un lido straniero a te (o solo in parte), in uno scenario mai preso in considerazione (d’altronde, come avrei potuto), distante da te da diversi lunghi mesi (e consapevole che ne passeranno altrettanti), ma soprattutto, carica di rabbia, delusione, vergogna e si, paura. Perché Cara Sardegna mia, te lo dico sinceramente: temo per te.
Ci troviamo così, in bilico, fragili e soli. Impauriti, increduli e privi di qualunque certezza e fede nel vedere come granello dopo granello, il mondo si sgretola e noi gli andiamo appresso. Ma al contempo, così estremamente grati, uniti e speranzosi. Così deboli e vulnerabili, da trovare però la forza e le risorse per poter reagire, lottare e per evitare di continuare a cadere giù, come un chicco di sabbia dentro una clessidra, una clessidra che rischia di esaurirsi troppo velocemente. E sono tante le persone, le figure, le terre, i cieli che lo hanno capito. Che hanno capito che qui si salva chi reagisce per primo. Che qui si salva chi si adopera per il cambiamento. Che qui si salva chi si mette a nudo, cade e lotta.
Che qui si salva chi urla a gran voce che vuole vivere. E tu? Vuoi vivere? Tu sì, tu vuoi vivere. Ma siamo sicuri che chi dovrebbe tutelarti e chi con grande orgoglio dice di amministrarti, vuole vivere, o meglio vuole farti vivere? Incollata allo schermo di un computer e bombardata da informazioni di ogni continente, ogni nazione, ogni città. Sento storie di eroi senza mantello (e spesso senza mascherine e camici) che ogni giorno si adoperano per salvare (ognuno con le sue risorse) ogni singolo angolo del mondo, di salvare noi. Beni e risorse che vengono prodotti in tempo record, per poi essere pronti a viaggiare per il mondo per poter salvare, o garantire la vita, le nostre vite. Provvedimenti, restrizioni, controlli, sacrifici, volti a preservare, tutelare e garantire la sicurezza, la nostra sicurezza. Un bollettino di guerra che si aggiorna e continua ogni secondo a mostrare numeri, cifre, conti e stime. Dove quei numeri, quelle cifre, quei conti e quelle stime, siamo noi, le nostre vite. E poi però, mentre in tutto il mondo ci si piega davanti a questa situazione, ci si mette a nudo, si mostrano le proprie debolezze, criticità, difficoltà e si chiede aiuto a gran voce, sento un silenzio assordante, troppo assordante: il tuo.
Sardegna mia, dove sei? Che ne è di te? Che ne è di noi? Noi che popoliamo le tue terre? Dove sono i tuoi numeri, le tue ferite? Perché non urli? Perché non ti fanno urlare? Ti hanno imbavagliato, ti hanno censurato, ti hanno zittito. Hanno cessato le tue parole, i tuoi dati, i tuoi numeri, i tuoi danni. Hanno isolato te, hanno isolato i tuoi figli, più di quanto già lo fossero. Hanno ostacolato la tua terapia, la tua cura e ti hanno sottomesso. Proprio chi, tanto si vantava di prendersi cura di te, di tutelarti, di rappresentarti, chi si appendeva e si appende le medaglie al petto. Ahimè ad ogni scala. La verità è una purtroppo, ad oggi, purtroppo ribadisco, continua a prevalere l’ignoranza sulla saggezza e il buon senso. Continua ad avere la meglio una lunga lista di promesse farlocche piuttosto che un singolo fatto concreto e veritiero. Continua a prevalere il singolo interesse piuttosto che il bene della comunità. Ma soprattutto, continua a regnare l’omertà, la negligenza, l’opportunismo e la speculazione.
Parole dure da incassare, da accettare. Parole dure, come è duro sapere che la propria terra affonda lentamente in quello che è il mare che l’ha sempre cullata; per causa di alcune di quelle mani che ci avevano promesso trasparenza, virtù e giustizia. Così, dall’altra sponda, davanti a te, io ti guardo, ti guardo affogare, inerme, lontana, triste, piena di rabbia e odio, per tutti coloro che hanno usato le tue rive dorate, il tuo cielo azzurro, la tua vegetazione selvatica e il tuo mare cristallino, solo per costruirsi un piedistallo, un piedistallo da cui poi vederti sopperire in maniera vorace, inconsapevoli (chissà!), che prima o poi, l’acqua arriva anche nella vetta più alta. Cara Sardegna mia, te lo dico sinceramente: temo per te.