di ROBERTA CARBONI
Sono tanti i luoghi nel mondo in cui si parla di pirati e tesori nascosti. E la Sardegna non fa certo eccezione. Da sempre oggetto di conquista da parte dei popoli provenienti dal mare, tra il XII e il XVI secolo l’isola ha conosciuto continue invasioni, che costrinsero i governi dominanti – dai Pisani agli Spagnoli – ad armarsi di flotte sempre più potenti a difesa delle coste.
Per la sua posizione strategica al centro delle principali rotte del Mediterraneo, la Sardegna è da sempre stata oggetto di conquista da parte delle popolazioni più differenti per lingua, cultura e religione, subendo inevitabilmente le conseguenze delle varie dominazioni.
Cosa sarebbe successo se gli arabi fossero riusciti a penetrare stabilmente nell’isola per lungo tempo? Senz’altro non lo sapremo mai. Quel che è certo, però, è che gli arabi non cessarono mai di provare a conquistare la Sardegna. Ancora oggi molte rinomate località balneari conservano il ricordo della pirateria nella loro denominazione, come ad esempio Torre dei Corsari oppure Kal’e Moru.
Abbiamo notizie di frequenti incursioni tra l’VIII e il X secolo, a noi pervenute grazie alle cronache arabe del XII e XVI secolo. Da una di queste cronache sappiamo che nel 753, in seguito ad un attacco avvenuto sul versante orientale dell’isola, ai sardi venne imposto il pagamento della “gizyah”, una tassa che veniva applicata in tutti i territori conquistati e non convertiti alla religione islamica. Al pagamento erano assoggettati tutti i liberi adulti di sesso maschile socialmente attivi, ma non si sa per quanto tempo e a quali condizioni i sardi pagarono la “gizyah”.
Le incursioni arabe erano circoscritte unicamente ai
territori costieri, maggiormente esposti e più facilmente espugnabili.
Difficilmente da quanto avvenuto per i territori dell’interno, soprattutto la
Barbagia, che aveva resistito alle legioni romane e aveva contrastato le
signorie vandale e bizantine, le coste godevano di un’organizzazione meno efficiente,
e di un paesaggio naturale meno aspro e più incline agli attacchi. Senza la
Sardegna la conquista del Maghreb e dell’al-Andalus non avrebbe probabilmente
avuto luogo. Le spedizioni che interessarono l’isola erano occupazioni militari
circoscritte territorialmente che servivano come controllo sistematico dei
porti. Il fine era quello di neutralizzare le flotte bizantine che navigavano
in quei paraggi. Gli arabi utilizzarono la Sardegna come rampa di lancio verso
il Maghreb estremo, naturalmente senza mai andar via dall’isola a mani vuote.
In questo clima di carenza difensiva sul versante costiero, i nemici piombavano
improvvisamente dal mare forti della guarnigione di decine di navi, e prima
ancora che la difesa entrasse in azione incendiavano i porti, depredavano
abitazioni, chiese e palazzi e catturavano schiavi, seminando terrore tra la
popolazione. Solo quando le vedette scaglionate lungo le coste riuscivano ad
avvistare in tempo le navi era possibile darne avviso e predisporre le
resistenze: ma il più delle volte il nemico approfittava delle tenebre e
riusciva a sbarcare inosservato.
Col finire del dominio bizantino e l’avvento della fase giudicale, tra VIII-X secolo, la situazione sembrò migliorare. Sempre dalle cronache arabe apprendiamo che i sardi si organizzarono in eserciti navali, opponendo flotte a flotte.
Tra le continue incursioni, la più famosa nella storia sarda è senz’altro quella avvenuta tra il 1015-16 ad opera del temuto pirata Al-Amir Muhajd, passato alle cronache come “Museto”. L’invasione di Museto rappresenta il primo vero e duraturo tentativo di conquista da parte degli arabi, segnando un punto di svolta nella storia della Sardegna e condizionando inevitabilmente lo sviluppo degli eventi successivi.
Furono infatti le repubbliche marinare di Pisa e Genova, già impegnate nella lotta contro l’espansionismo arabo nel Mediterraneo, a fermare definitivamente la pericolosa avanzata delle forze musulmane nell’isola. Da qui si crearono le condizioni per il futuro insediamento pisano e genovese sull’isola. Ma questa è un’altra storia…
Durante il dominio bizantino, tra il VI e l’VIII secolo, gli arabi erano chiamati “saraceni”, termine che continua ad essere utilizzato anche fino al XIII secolo per indicare i popoli guerrieri provenienti dalla penisola araba. Forse fu proprio a causa delle continue invasioni sulle coste sarde che Bisanzio, col tempo, incapace di fronteggiare la minaccia dell’avanzata islamica, decise di abbandonare l’isola al suo terribile destino. Ma questa, tuttavia, rimane solo un’ipotesi.
I saraceni devastavano città e terre, profanavano luoghi di culto, uccidevano senza pietà, torturavano e schiavizzavano. Molte città, come Nora, Sant’Antioco e Tharros subirono danni frequenti la cui entità fu tale da causarne con il tempo l’abbandono.
Nel corso del Cinquecento cominciano a comparire i termini “moriscos” e “barbareschi”. I moriscos, o mori, erano gli arabi della regione dell’Andalusia che, a seguito della Battaglia di Alcoraz del 1096, assaltavano le navi nell’area delle Baleari. Si trattava di una parte consistente di musulmani che rifiutarono di convertirsi al Cristianesimo e per questo vennero espulsi dalla Spagna o sottoposti ad estreme rappresaglie, che culminarono con la politica repressiva intrapresa dal sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico sul finire del XV secolo.
A partire dal XVI secolo si cominciò invece a
riferirsi agli arabi con il termine “Barbareschi”, che designava i corsari
musulmani sostenuti dai Turchi-Ottomani, che si insediarono lungo le coste dell’Africa
settentrionale impadronendosi di Algeri, Tunisi e Tripoli. Qui i barbareschi
rovesciarono le antiche dinastie e diedero vita a vere e proprie città-Stato,
formalmente dipendenti dall’Impero ottomano, ma in realtà autonome e dedite
esclusivamente alla guerra di corsa. I Barbareschi erano però anche Turchi
provenienti dalle isole del Mediterraneo orientale, moriscos provenienti dalla
Spagna e animati da profondo spirito di rivalsa, schiavi cristiani, catturati e
islamizzati che col tempo avevano conquistato posizioni di primo piano nella
comunità. Le attività principali di questi corsari erano l’assalto e la cattura
delle navi cristiane e le spedizioni lungo le coste degli stati cristiani per
catturare schiavi da vendere nei mercati delle città barbaresche o per i quali
ottenere cospicui riscatti.
A fronte del pericolo ricorrente delle invasioni barbaresche nel Mediterraneo,
i sovrani spagnoli dovettero allestire due grandiose spedizioni che ebbero come
base di partenza la Sardegna (Cagliari e Alghero). Ma le spedizioni si
rivelarono sostanzialmente fallimentari, almeno ai fini della conclusione delle
incursioni.
La prima spedizione, nel 1535, ebbe come ultima base di partenza Cagliari, in cui l’imperatore Carlo V, si dice, sbarcò trattenendosi alcune ore. Si radunarono due flotte, una proveniente da Barcellona e una da Genova: oltre alla flotta spagnola e portoghese infatti era presente la genovese di Andrea Doria cui si aggiunsero rinforzi inviati dal Papa, ed anche un contingente di sardi, guidati da alcuni grossi esponenti della nobiltà locale, fra cui Salvatore Aymerich.
Il principale movente della spedizione doveva essere la distruzione della flotta del famoso corsaro Al- Khair, detto Barbarossa, il flagello delle popolazioni costiere.
La spedizione di Tunisi ebbe un esito fallimentare: sebbene dopo circa un mese di assedio la flotta del Barbarossa fosse caduta nelle mani dei cristiani che poterono occupare Tunisi e liberare ben 20.000 schiavi, la flotta imperiale era stremata. Emblematico, a tal proposito, il saccheggio della Basilica di San Gavino di Porto Torres.
A questo punto la politica spagnola da offensiva si fece difensiva: per bloccare in qualche modo le incursioni barbaresche che non dimostravano di voler cessare, Filippo II, diede l’ordine di fortificare le città e costruire oltre 150 torri costiere, che ancora oggi dominano le nostre coste.
La seconda spedizione ebbe luogo nel 1571 ed è passata alla storia come “Battaglia di Lepanto”. L’obiettivo era sconfiggere il sovrano musulmano Alì Pascià, a cui prese brillantemente parte il reggimento sardo chiamato “Tercio viejo de Cerdeña”.
La difesa organizzata attraverso le torri costiere era quasi sempre efficace: un piccolo contingente di soldati, insediato sulle torri, una volta avvistate le navi in arrivo, dava l’allarme ai villaggi vicini, permettendo così alle popolazioni, di predisporsi alla difesa o di mettersi in salvo. Sulla sommità delle torri erano sistemati grandi bracieri in ferro battuto sui quali venivano bruciati erica bagnata e bitume: si formava così un fumo denso e scuro, ben visibile da lontano.
Nel corso del Seicento, inoltre, fu instaurato un ulteriore sistema di difesa: nelle acque dell’Isola fu alloccata una piccola squadra di galee stanziata a Cagliari. Si trattava di navi pesanti armate di cannoni con il compito di sorveglianza e di difesa mobile delle coste sarde. Le torri rimarranno attive fino al 1815, quando dopo il Congresso di Vienna venne imposta agli stati barbareschi la fine della tratta degli schiavi.
In relazione alla pirateria si sono venute a costruire nei secoli numerose leggende popolari che parlano di tesori d’inestimabile valore nascosti sotto le fondamenta di castelli, nuraghi e pozzi sacri; luoghi inaccessibili e spesso pericolosi nei quali le persone, nel corso del tempo, si sono avventurate trovando la morte o cadendo in disgrazia.
In sardo campidanese i tesori si chiamano “scussorgius” o “scrixioxius” e sono legati a storie dai risvolti spesso macabri e misteriosi.
Questi racconti popolari si diffusero a partire del Medioevo, quando il sopraggiungere delle arti magiche e dell’alchimia resero la ricerca dei tesori una pratica occulta, spesso scoraggiata dalla superstizione popolare. In molte parti dell’isola esistevano uomini e donne dotati di poteri soprannaturali che potevano aiutare nella ricerca dei tesori.
L’Inquisizione Spagnola condannò aspramente maghi, streghe o rabdomanti che, sottoposti al carcere e alla tortura, dichiararono di aver cercato o dato indicazioni su come trovare tesori nascosti sotto la guida di spiriti dell’Aldilà. Alcuni di essi, i cui nomi sono conservati nei documenti d’archivio dei processi per eresia o stregoneria, rivelano di aver custodito diavoli all’interno di ampolle, sotto la guida dei quali avrebbero trovato ricchezze e tesori.
Interpretata come pratica demoniaca, la ricerca dei tesori continuò sottovoce, come un’arte tramandata di padre in figlio.
In Sardegna si narra che non siano gli uomini a trovare i tesori, ma siano proprio i tesori a rivelare agli uomini la loro esistenza.
E lo fanno attraverso la dimensione ultraterrena del sogno, popolato da parenti defunti o spiriti di cui non si conosce l’identità che si manifestano con lo scopo di dare delle indicazioni alla persona destinata a trovare il tesoro. Il sogno non è mai un episodio isolato. Ad esso seguono apparizioni fugaci ed ulteriori sogni nei quali lo spirito guida rivela precise indicazioni e rituali da compiere per il ritrovamento del tesoro. Rituali che, qualora non vengano rispettati ed eseguiti ad arte, porteranno alla morte o alla sventura eterna.
Si dice che solo poche persone siano destinate a conoscere il segreto e quindi riscuotere il tesoro nascosto, ma si sa, spesso la curiosità e la sete di potere esercitano un fascino irresistibile sull’uomo. Pertanto accade spesso che l’uomo riveli il contenuto del sogno ad amici o parenti, che a loro volta intraprendano per proprio conto o insieme ad altri una ricerca parallela. Ma il potere dell’occulto è assai più grande della cupidigia umana, e il tesoro cambia posizione per evitare di finire nelle mani sbagliate. In tal caso le punizioni possono essere diverse, dalla sventura economica abbattuta sulla malaugurata discendenza della famiglia fino, addirittura, alla morte di chiunque abbia preso parte alle ricerche. In questi sfortunati casi, la saggezza popolare ha da sempre indicato i “rimedi” per affrontare le situazioni più difficili della vita e, per quanto riguarda i tesori, consiglia di ricorrere ai cosiddetti “brebus” (preghiere-scongiuri) per aver sicurezza e garanzia di raggiungere il fine previsto o scampare alla maledizione. Raccomanda, inoltre, di rivolgersi a persone capaci e con provata esperienza, siano essi frati, preti, rabdomanti… insomma a chiunque sia in grado di consigliare ed assistere nella ricerca, ma senza mai rivelare il motivo per cui si richiedono tali informazioni. Si raccomanda di affrontare con particolare cautela simili argomenti e di non lasciarsi mai sfuggire il vero motivo. Solo così il tesoro potrà essere trovato!