di BENEDETTA PIRAS
Sas prendas sonoi gioielli sardi da sempre legati in modo indissolubile a una tradizione millenaria, impregnati di poteri magici e religiosi allo stesso tempo e tramandati di madre in figlio.
Il mondo del gioiello sardo si è nel tempo arricchito di significati e forme, ognuna di queste novità una piccola quanto meravigliosa eredità di popoli come i cartaginesi, i romani, i bizantini e molti altri.
Dalla piccola filigrana di oro e corallo al bottone e l’orecchino, la storia che si nasconde dietro questi monili che oggi vediamo distrattamente nelle gioiellerie o indossiamo come souvenir di viaggio è in realtà un racconto di magia e folklore tutto da scoprire.
Tutto ha inizio nel Neolitico (dal 6000 a.C. al 2700 a.C. circa), quando i più antichi gioielli mai scoperti sull’isola vengono creati. In alcuni casi si tratta di semplici lische, ciottoli o conchiglie forati e realizzati a guisa di collane, in altri di zanne di predatori.
L’idea che soprattutto questi ultimi siano stati realizzati come amuleti di vigore e abilità nella caccia fa capolino nella mente degli studiosi, ma è con i primi e veri ritrovamenti risalenti alla civiltà nuragica e all’età del bronzo intorno al 1800-900 a.C. che queste supposizioni vengono confermate.
La civiltà nuragica, del resto, è fatta di guerrieri e divinità dedite alla caccia e al culto della forza. È in questo periodo che vengono adorate figure come il Sardus Pater, padre degli dei e dio della foresta, degli animali e della virilità. Così, anche veri e propri amuleti e ornamenti guerreschi o estetici fanno capolino tra le produzioni di questo periodo.
Dai bracciali ai bottoni in rame, bronzo o argento fino alle collane di ambra, questi gioielli già finemente lavorati saranno portati al livello successivo soltanto dai fenici. Con le loro tecniche di esperti lavoratori dei metalli introducono con il loro arrivo le tecniche oggi diffusissime della filigrana, dell’incisione e dello sbalzo, dando vita ad una produzione colorata e raffinata.
Con l’avvento dei Romani prima e degli aragonesi poi, l’utilizzo dei gioielli subisce un drastico calo a causa di alcune leggi emanate dall’amministrazione romana e poi mantenute che impedivano l’ostentazione della ricchezza in luoghi pubblici.
È specialmente in questo periodo con l’influsso della religione cristiana che alcuni colori e materiali acquisiscono nuovi significati, si intrecciano alla fede e alla superstizione per non perdere mai più questi nuovi “poteri” ad essi donati dal popolo, diventando simboli della protezione di un santo o della Vergine Maria.
Dal 1720, la legislazione sabauda che permetteva solo ai nobili di usare i gioielli viene abrogata dai piemontesi, permettendo così una nuova fioritura dell’arte e diffusione del gioiello sardo che lo porterà alla sua fama odierna.
Il gioiello, specialmente per la donna sarda, non era solo un’attestazione di ricchezza o un ornamento estetico. Ogni monile era soprattutto un portatore di significato religioso o magico, un modo per dichiarare la propria devozione ad un santo o per difendersi dal male e dal malocchio, uno strumento prezioso e impregnato di potere soprannaturale.
I gioielli in Sardegna venivano realizzati almeno fino alla fine dell’800 con le materie prime della terra. L’argento prevaleva tra i metalli impiegati perché le cave dell’Iglesiente ne erano ricche, mentre per impreziosire ogni filigrana o monile veniva spesso usato il corallo, abbondante sulle coste dell’isola o altre gemme preziose come i granati o la madreperla. Bottoni di oro e argento, catene con appese reliquie, croci e gemme e indossate per le cerimonie, orecchini e collane sono solo alcuni dei gioielli della tradizione, ma dovevano venire indossati con un criterio molto rigido che ancora oggi rimane in alcuni paesi più legati alla tradizione.
Ce ne parla la stessa Grazia Deledda in una delle sue tante ricerche: «Le vedove non possono portare gioielli e neppure l’anello nuziale. Allo scollo della camicia portano piccoli bottoni neri. Anche le ragazze non possono ornarsi di nulla; tutt’al più recano lo stuzzicadenti con la catenella d’argento, semplici pendenti e un cordoncino di seta nera ravvolto a collana nel collo. La bottoniera che è necessaria a tutti i zippòni per allacciare la spaccatura delle maniche dal gomito in giù è composta di sei o di dodici o di più bottoni a filigrana (si chiama perciò sa filugrana) d’argento, con una catenella. Le ragazze devono portarla quanto più semplice, e semplici e piccoli i due bottoni a filigrana, d’oro o d’argento, necessari per congiungere i due occhielli della camicia. Le maritate invece si riempiono le dita di anelli, recano grossi bottoni d’oro al collo e d’argento nelle maniche, hanno nel rosario grosse croci e medaglie d’oro costosissime, e ricchi pendenti di corallo che si scorgono dietro la benda. Le ricche portano spille alla benda, fermagli, filograne d’oro, e chi può braccialetti e junchillu cioè catenelle d’oro con o senza l’orologio».
Semplice decorazione o simbolo di devozione cristiana? Talismano contro il malocchio o simbolo di buona fortuna? Sono tanti i significati che i gioielli sardi hanno acquisito nel corso del tempo, da quella ormai lontana preistoria in cui i denti di animali e l’ambra venivano usati come portafortuna durante la caccia fino ad arrivare, con i romani, al legame indissolubile con la fede cristiana. Anche oggi, tra le bancarelle di paese e le gioiellerie dell’isola, è facile trovare amuleti preziosi o meno il cui scopo è portare fortuna e benessere proteggendo il portartore dal male.
Del resto, la fede e la magia si sono sempre intrecciate nel folklore sardo, al punto che anche nelle storie e nelle leggende la figura del diavolo e quella dei demoni si sovrapponevano e scambiavano così come quelle delle figure cristiane, delle fate buone o di altre entità. Così il rosso e nella fattispecie il corallo si collegano alla figura di Gesù come uomo, il bianco e i cristalli si intrecciano con le materie del divino, mentre i gioielli di donne e bambini acquisiscono spesso proprietà magiche, proteggendoli dal malaugurio e dal Diavolo. Il verde ha poi una funzione di portafortuna, ne è un esempio il braccialetto di tessuto verde che si regala ad un nuovo nato per il suo battesimo. L’accessorio infatti nasce proprio in Sardegna e serve a proteggere i bambini e riservare loro la buona sorte.
Che dire poi del famoso su kokku, la sfera di ossidiana nera oggi diffusa in tutte le gioiellerie dell’isola? Anche su kokku è un monile di buon auspicio che protegge dal malocchio, può essere di corallo, ossidiana o onice e solitamente è racchiuso tra due “coppe” di argento e si regala soprattutto alle future mamme. E c’è di più: dice la leggenda che quando il gioiello si rompe significa che ha protetto il suo proprietario da una maledizione. Sarebbe quasi impossibile elencare tutti i monili che fanno parte della tradizione sarda e i significati dietro questi ultimi, tuttavia viaggiando per l’isola scoprirai che ogni piccolo ornamento, spilla o bottone porta con sé una tradizione antica di secoli. Quando ne indosserai o vedrai uno, cerca di scoprire quale sia la sua storia, non resterai deluso!