di FEDERICA CABRAS
Trentanove anni, 23 libri all’attivo, altri importanti progetti in pentola e una grande passione: la Sardegna.
Filo conduttore della sua scrittura è, infatti, questa nostra bellissima terra raccontata in tutte le sue sfumature. Leggendo Gianmichele Lisai, si potrà scoprire il versante esoterico dell’Isola, quello criminale, quello misterioso. Le leggende, le realtà sconosciute ai più, le curiosità, le cose da fare: ogni singolo angolo di questo lembo di terra è scandagliato, analizzato, descritto e regalato, infine, ai lettori. Ma ancora ha, Lisai, da raccontare: facciamo un tuffo nella sua carriera, dagli esordi ad oggi, con un occhio al futuro.
39 anni e più di venti libri alle spalle. Quando e come nasce la sua passione per la scrittura? Il Gianmichele Lisai bambino voleva fare della scrittura un mestiere o preferiva pensarsi adulto in un altro modo? La mia iniziazione alla scrittura è stata accidentale. Diversi anni fa, sedici o diciassette, quando ancora vivevo a Bologna, un amico che muoveva i primi passi nel mondo dell’editoria decise di curare un’antologia che raccogliesse le voci di autori più o meno emergenti. Io al tempo scrivevo canzoni, ed ero molto più concentrato sulla musica, ma avevo anche un racconto. Questo amico, Marco Nardini, oggi agente letterario, mi chiese di leggerlo, gli piacque, e mi propose di partecipare al suo progetto. Pubblicata questa antologia fui letto, arrivarono altre proposte e curai a mia volta con Gianluca Morozzi un’altra antologia. L’editor che seguì questo secondo progetto, Cristiano Armati, passò poi a lavorare in Newton Compton, casa editrice che stava avviando la collana sulle “101 cose da fare…” in diverse parti d’Italia, e mi propose di scrivere “101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita”, libro da cui è partito poi il mio vero e proprio percorso autoriale, grazie al successo della pubblicazione e alla fiducia nel tempo di Raffaello Avanzini, il mio editore. Quanto al me bambino non ho ricordi precisi in questo senso, probabilmente in una certa fase sognavo di diventare campione olimpionico di nuoto, perché ero particolarmente portato. Finito il liceo puntavo alla carriera di musicista professionista, vedendomi più come il chitarrista di qualcuno che come autore, ma mi mancava la costanza necessaria. Nella scrittura questa costanza l’ho trovata, o forse ho solo avuto l’opportunità di sviluppare un metodo, essendo diventata ormai un lavoro: i libri all’attivo sono 23, diventeranno 25 nel 2020, se si conta la collana in 12 volumi che ho curato per «La Nuova Sardegna».
Come avviene il suo lavoro di ricerca per un nuovo volume? Dipende dal tema. Si va dalla ricerca archivistica e bibliografica alle testimonianze dirette, passando per i sopralluoghi in diversi territori dell’isola.
Dai delitti alle location mozzafiato, dai modi di dire alle curiosità più antiche… magia, realtà e leggenda: i suoi libri spaziano tantissimo ma protagonista assoluta è sempre la nostra Isola. Praticamente, raccontata in tutte le sfaccettature, è la Sardegna. Come mai questa scelta? Scrivere il primo libro sulla Sardegna mi ha fatto comprendere quanto poco l’isola sia conosciuta, in media, anche da noi che la viviamo. La fortuna di poterla raccontare mi offre prima di tutto la possibilità di scoprire sempre cose nuove, e soprattutto il privilegio di divulgarle nei limiti delle mie competenze e del potenziale del mio editore. Per questo anche se alla fine di ogni libro mi sento stanco, poi trovo in qualche modo le energie per farne un altro.
Come si arriva, ad esempio, a raccontare ciò che (quasi) nessuno conosce? Mi riferisco ai volumi “Forse non tutti sanno che in Sardegna”, “101 storie della Sardegna che non ti hanno mai raccontato” e “Le incredibili curiosità della Sardegna”. Non è difficile come si potrebbe pensare, navigando appunto in acque tra terre poco diffusamente esplorate. Ancora nell’ultima presentazione che ho fatto lo scorso anno, la maggioranza del pubblico non conosceva l’altare preistorico di Monte d’Accoddi, per quanto in moltissimi ne scriviamo ormai da decenni e da diversi punti di vista. Le “chicche” solitamente arrivano da qualche testimonianza che poi verifico, dal momento che sulla Sardegna girano anche molte leggende sia rurali che metropolitane. Questo non significa che non si possa parlare dei miti e in certi casi anche esaltarli, purché si precisi che si tratta, appunto, di miti.
È stato impegnativo, entusiasmante o entrambi raccontare la nostra terra tramite centinaia di luoghi, alcuni insoliti (come lei stesso li definisce)? Entrambi, senza dubbio. La cosa per me più gratificante, ma che va oltre i luoghi, è stata riuscire a retrodatare il primo sequestro di persona di cui si abbia traccia storica, non commesso per altro da un sardo bensì da un catalano.
Anche la parte cupa dell’Isola pare interessarle molto: delitti, misteri, culti. Ci spiega questo suo dualismo? Tutto contribuisce all’unicità del territorio, ed è tutto necessario per avere un quadro più o meno completo dell’isola. Io non ho competenze specifiche, ed è chiaro che se parliamo di grotte uno speleologo sarebbe la persona più adatta a trattare il tema, ma nel momento in cui si cerca di restituire, appunto, un’idea più generale di Sardegna, è necessario spaziare il più possibile, cercando di ritagliarsi un profilo che consenta di parlare di archeologia e di miniere senza la pretesa di avere più competenze di un archeologo o di un ingegnere minerario, ma sapendo che difficilmente un ingegnere minerario potrebbe scrivere – con competenze omogenee per quanto inevitabilmente sotto la media di uno specialista sul tema preciso –, un libro che spazi, appunto, dai delitti ai retabli della scuola di Stampace, passando magari per la medicina popolare. È una necessità dettata dalla mia collocazione editoriale, se fossi stato un archeologo probabilmente avrei scritto piccoli volumi sui singoli scavi eseguiti, o più corposi su un determinato periodo, ma sarebbe stato tutt’altro mestiere, strettamente legato alla professione e svincolato dalla più generica divulgazione. Per esempio io non sono un grande appassionato di esoterismo, ma ho trattato quel tema perché imprescindibile al contesto. Trovo molto interessanti, date le loro peculiarità, la storia criminale dell’isola, quella giudicale e senz’altro, andando indietro nel tempo, i periodi prenuragico e nuragico.
“101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita”: le ha fatte tutte? Quali sono, secondo lei, le tre più importanti? Le ho fatte tutte, sì. Sono anche passati più di dieci anni dalla pubblicazione di quel libro e in ognuno di questi anni ne avrei potute fare altre cento. Le più importanti probabilmente le ho scoperte in seguito, e più che “da fare” sarebbero forse da sapere. Riportandole solo a titolo di esempio, penso a cose come la scoperta da Nobel di Giuseppe Brotzu, cui si deve la classe di antibiotici ancora oggi più diffusa al mondo, e che dovrebbe avere dedicate vie e piazze anche fuori dalla Sardegna, mentre pressocché nessuno, tranne forse gli studenti di farmacia, conosce la sua vicenda professionale. Un’altra cosa da fare, a mio modesto parere, sarebbe valorizzare di più ciò che di unico abbiamo e di cui abbiamo certezza, senza affidarci troppo ai succitati miti sperando che possano ottenere un effetto più dirompente di quello che dovrebbe avere, per l’intera cultura europea, non solo nostra, il primato della civiltà nuragica nell’Occidente mediterraneo. La terza cosa da fare, senza dubbio, difendere questo concreto patrimonio ambientale e culturale con tutte le risorse a nostra disposizione. Queste ultime due cose non sono in nessuno dei miei libri, ma sono la base imprescindibile perché quanto riportato nei miei libri abbia una dignità. Una visita, per dire, a Barumini, a Goni o a Monte d’Accoddi, ha senso se fatta con consapevolezza, e non solo per mera presenza, per dire “l’ho visto” o per postare una foto d’effetto sui social.
“La bella decapitata nel bosco” e “Giallo Natale” (raccolta di otto autori): ci può parlare del suo versante giallo e fantasioso? Quando e come sono nati questi progetti così diversi da tutti gli altri? A dire il vero io ho iniziato proprio con la narrativa, con i brevi racconti cui faccio riferimento nella prima domanda. Quel percorso, anche per via del fitto impegno sui saggi divulgativi a tema sardo, non l’ho potuto seguire con la stessa costanza. Il racconto dell’antologia Giallo Natale è nato su richiesta del mio editore che voleva da me un commissario sardo, ed effettivamente ho sviluppato in questa direzione tre o quattro romanzi, che ho poi cestinato senza nemmeno proporre perché non convincevano me per primo. Non era il momento, non ero minimamente maturo per produrre qualcosa di credibile nella veste di narratore. Ora sto ultimando un romanzo giallo che per il momento mi convince, ma fino all’ultima revisione non saprò dire se continuerà a convincermi o se lo cestinerò come i precedenti, né se sarò mai in grado di portare alla pubblicazione qualcosa di presentabile in questo genere.
A quale, tra le sue numerosissime opere, è più affezionato? Direi “Guida curiosa ai luoghi insoliti della Sardegna”, per due motivi: 1) Solitamente considero l’ultimo libro scritto quello venuto meglio, perché porta con sé un pezzetto di crescita in più; 2) Perché, come già “Il giro della Sardegna in 501 luoghi”, l’ho scritto con Antonio Maccioni, cui mi lega visto dall’esterno un rapporto di concorrenza, ma in realtà siamo molto amici e in grande sintonia pur avendo formazioni molto diverse, visioni in certi casi distanti e anche approcci alla scrittura abbastanza lontani. Quando lavoriamo insieme queste differenze si traducono in elementi complementari e, almeno per quanto mi riguarda, credo colmino le lacune di altri miei libri.
Potrebbe regalare una citazione dei suoi libri ai lettori? Sceglierei un passo che ribadisce un concetto già espresso in questa intervista, preso dal capitolo dedicato alla Civiltà Nuragica presente in “Forse non tutti sanno che in Sardegna…”: «Nella costante ricerca di risposte, relative al nostro passato ancora in gran parte sconosciuto, trovano legittimità molte teorie, a volte verosimili, ma spesso incredibili e piegate, forse, a un tanto comprensibile quanto superfluo desiderio di riscatto: se l’esistente e il dimostrabile sono già sufficienti a certificare la grandezza di ciò che siamo stati e, di conseguenza, siamo diventati, non c’è alcun bisogno di generare miti, spesso fragili rispetto alla logica prima ancora di essere posti in discussione dalle evidenze storiche e archeologiche. Ancora più fragili appaiono, ovviamente, se generati dagli stessi sardi. Perciò ha fatto bene il linguista nuorese Massimo Pittau – che ha dedicato vari studi alla storia antica dell’isola – a ricordare l’oggettiva grandezza dei nostri antenati con le parole di Giovanni Patroni, un non sardo “che aveva definito la Sardegna, in virtù della sua civiltà nuragica, ‘la perla dell’occidente mediterraneo’».