di ALESSANDRA GUIGONI
I culurgiones o culurgionis (e altre varianti lessicali) sono una pasta fresca ripiena, tipo ravioli. Si utilizzano farce diverse, che spaziano dalla semplice ricotta, alla ricotta aromatizzata al limone o all’arancia, al ripieno di formaggio e bietole, di cipolle, con un pizzico di zafferano sardo, sino ai culurgionis d’Ogliastra, così chiamati dal nome dell’area storica di cui sono originari, con ripieno di patate, formaggio, strutto o olio Evo e menta, che da poche settimane sono diventati IGP, prodotto a Indicazione Geografica Protetta.
Il formaggio usato nei culurgionis ogliastrini è un mix particolare, indicato anche nel disciplinare di produzione: alcune ricette riportano solo il formaggio fiscidu, un pecorino salato locale, altre riportano l’aggiunta di altri formaggi, pecorini e caprini, compreso il pecorino stagionato grattugiato.
La ricetta varia di paese in paese, chi la individua con l’aglio o meno, chi con la menta e chi senza, e via discorrendo, una versione di Villagrande riporta un pizzico di basilico, c’è chi mette le cipolle, altrove.
Un’altra particolarità è offerta dalla chiusura a “spighita”, ossia a spiga di cereale, ottenuta pizzicando i due lembi del dischetto di pasta, che contengono una pallina di farcia appunto, sino a sigillarli completamente, come un ricamo prezioso, e dando così la forma a goccia a questa tipologia di pasta.
Chi cerca vetustà in questa pasta sbaglia, nel senso che sicuramente la parola è antica e anche la tipologia di pasta, ma il ripieno risale ‘appena’ all’Ottocento, cioè al periodo di diffusione del Solanum tuberosum nelle zone montagnose dell’Isola, in primis Barbagia, Gallura interna e Ogliastra appunto, dove la presenza secolare di orti, il clima la ricchezza d’acqua permise a questo tubero andino di introdursi nell’alimentazione sarda.
Dunque questa tipologia di pasta risale con probabilità al primo trentennio dell’Ottocento. L’etimologia storica del nome è molto dibattuta; personalmente mi convincono due etimi, quello dell’esperta di lingua sarda Manuela Ennas, che fa risalire a “culleus”, sacchetto di cuoio, l’origine del nome, e quello che fa risalire il nome a “cuna”, culla e anfratto. Entrambe le parole accompagnano la forma di questa tipologia di pasta così speciale.
In un documento del 1811 compaiono in un elenco di pietanze sarde “il pane di vin cotto, le zippole ed i culurgionis de casu”, una delle prime testimonianze scritte su questo prodotto.
I culurgiones tradizionalmente costituivano un piatto festivo, tardo autunnale e invernale, ritenuto un lusso, di contro ad una alimentazione quotidiana fatta di minestre e zuppe di legumi e verdure, salutare ma senza sfarzi. Dalle testimonianze raccolte presso le anziane ogliastrine sono emersi tre usi particolari nella tradizione, quello di lasciare un piattino di culurgiones la sera di Ognissanti, per onorare la memoria dei defunti (is animas) per la loro commemorazione il giorno successivo, di offrirli al vicinato, come dono prezioso, e infine di farne l’elemosina, visto il valore del prodotto.
Un’altra curiosità consiste nel fatto che le donne ogliastrine avevano inventato un attrezzo rudimentale per schiacciare le patate e ridurle a purea, la quale veniva utilizzata ampiamente in cucina, per arricchire l’impasto del pane, ad esempio, o nei culurgiones appunto. Questo “streccapatata” o “sciasciapatata”, era simile agli antichi ferri da stiro, in legno di castagno. Alcuni esemplari sono ospitati nei musei etnografici locali.
Al giorno d’oggi i culurgiones vengono presentati in diverse varianti più contemporanee oppure classicamente conditi con salsa di pomodoro fresco, ma tradizionalmente si consumavano anche cotti al forno o fritti, senza altro condimento. Queste ultime due versioni sono da tenere d’occhio come possibile rifunzionalizzazione dei culurgiones anche in versione street food.
I Culurgiones all’Ogliastrina con ragu’ di pecora, basilico liquido, crema di pecorino e tartufo di Laconi dello chef Giuseppe Barracu del ristorante Trattoria Moderna di Olbia
I culurgiones sono in compagnia degli IGP: Cappellacci di zucca ferraresi, Pasta di Gragnano, Pizzoccheri della Valtellina e Maccheroncini di Campofilone. A livello di paste alimentari ‘tradizionali’ il Mipaaf ne registra molte nella propria banca dati, comprese le sarde (malloreddus, fregula, lorighittas, andarinos ecc.) ma le IGP sono ancora relativamente poche, se si pensa al fatto l’Italia è storicamente una delle patrie della pasta, e al giorno d’oggi chi dice pasta dice Italia, come ha ben chiarito la giornalista Eleonora Cozzella nel suo libro Pasta Revolution.
Stupisce infine anche che non ci siano Dop tra queste paste, evidentemente per l’insufficienza di materie prime esclusivamente locali, quali una Dop richiede, mentre per i prodotti certificati l’optimum sarebbe ovviamente chiudere la filiera, o almeno provarci.