di DIEGO BONO
Alcune persone vivono la natura e l’ambiente in modo diverso, divenendo nel bene e nel male, tutt’uno con essa, cogliendo con gli occhi di un artista quella bellezza visibile da tutti, eppure da troppi non percepita, del proprio territorio. Domenico Ruiu, fotografo naturalista nuorese (classe 1947) ha stretto il suo primo rapporto con la bellezza della natura locale come cacciatore, una carriera che ha protratto per trent’anni, sin quando, ammaliato dallo splendore della fauna sarda vista da un’ottica differente, al posto del fucile ha deciso di impugnare una macchina fotografica per consacrare nel tempo gli animali più caratteristici non solo della nostra Isola, ma di tutta Italia. I suoi scatti genuini, ma eleganti, che hanno il potere di trascinare lo spettatore in un affascinante contatto diretto con volpi, cervi, aquile e tante altre creature, valgono a Ruiu le prime collaborazioni con riviste, quotidiani e programmi televisivi tematici. Oggi, considerato massimo esperto del mondo fotografico naturalista, è autore di più di quindici libri, tra cui la celebre raccolta “Il fotografo dei rapaci” (unico libro da collezione di carattere ambientale mai pubblicato in Europa), distribuita in quattro lingue (tra cui il sardo). Nel 2014 l’Università di Sassari celebra la sua importanza con la consegna di una laurea magistrale ad honorem per gli “importanti meriti scientifici della sua attività”, mentre nel 2015 gli viene attribuito il riconoscimento nazionale di “Maestro della Fotografia” (Premio Le Gru), inoltre ad oggi è l’unico fotografo del settore presente nella prestigiosa Galleria Internazionale Alidem – L’arte della fotografia di Milano. Per conoscere al meglio l’uomo che abbandonò la carabina per armarsi di Canon Mark III (con ottiche dal grandangolo da 500 millimetri), abbiamo posto a Domenico qualche domanda.
Domenico, per prima cosa, come è nata la passione per la fotografia? Sembrerà strano ma mi ci sono avvicinato senza esserne appassionato, ma semplicemente perché volevo riprendere gli animali, che invece erano e sono la mia grande passione.
Quale è stato il suo percorso di crescita e apprendimento di quest’arte? Assolutamente da autodidatta sino all’incontro a metà degli anni ottanta con Giuliano Cappelli che è stato il vero pioniere della fotografia naturalistica in Italia. Lo accompagnai in giro per la Sardegna per un reportage e ne nacque una profonda amicizia che ci legò sino alla sua recente scomparsa. Fu lui il mio grande maestro. Senza forzature mi accompagnò nel difficile passaggio dalla foto cruda e violentemente spettacolare della natura, che era la componente principale delle mie immagini, alla composizione delicata e armoniosa dell’animale piccolo piccolo inserito nel paesaggio, possibilmente con luci tenui e soffuse; questo è il genere di fotografia che tutt’ora prediligo.
Come è passato da cacciare gli animali ad immortalarli su pellicola? Preciso subito che non si è trattato di un “pentimento” ma di una evoluzione. Quando ero ragazzino nessuno mi ha insegnato il rispetto per questi esseri viventi, anzi, allora più uccidevi più “balente” eri. Ho cacciato molto e di tutto sino a quando la cattura della selvaggina mi ha dato emozioni, ma quando ho iniziato a provare pena ho smesso perché non si può uccidere per gioco.
E le due passioni possono coesistere? Per anni hanno utilizzato le mie foto per le riviste venatorie, ma la coesistenza tra le due attività è sempre stata molto problematica. Una forte spinta per la scelta definitiva arrivò dalla schiettezza senza mediazioni dei bambini delle scuole elementari. Spesso venivo invitato per far conoscere loro la fauna sarda. Ricordo quanto mi mettevano spalle al muro domande tipo: “Ma se ti piacciono così tanto perché li uccidi?”.
Come agisce per uno dei suoi scatti? Il punto più importante è conoscere gli animali che si intende riprendere. Poi decidere come fotografarli. Se si sceglie quest’arte bisogna sapersi muovere nel modo più naturale possibile nell’ambiente dove le specie vivono. Mentre per le riprese dal capanno è necessario conoscerne molto bene le abitudini per posizionarlo al momento giusto nei punti più favorevoli.
Ci sono lavori che le hanno dato maggiore soddisfazione? Le foto di una Cerva minuta nella vastità delle dune di Piscinas e del suo mare, di un Astore sardo in una giornata di nebbia e neve nei boschi del Gennargentu e di un maschio di Gallina prataiola nel tripudio dei colori della primavera sarda sono state utilizzate nella prima mostra sulla biodiversità del Mediterraneo, tenutasi a Roma una decina di anni fa, diventandone icona.
Quali sono i soggetti che preferisce ritrarre? La mia grande passione sono sempre stati gli uccelli rapaci. La fotografia agli uccelli da preda richiede una conoscenza molto approfondita delle caratteristiche comportamentali delle diverse specie; con quelle più sensibili occorre una grande capacità di autocontrollo per saper valutare il limite sin dove si può arrivare: nessuna immagine giustifica il superamento di tale limite.
Ci può descrivere le differenze principali che ha riscontrato tra il territorio sardo e gli altri? Tenuto conto delle ovvie differenze climatiche e di vastità territoriale, il livello di naturalezza presente in molte parti della nostra isola è decisamente alto e giustifica l’idioma “Sardegna quasi un continente”. Inoltre il progressivo abbandono delle montagne e delle località più isolate sta facendo aumentare notevolmente tale livello e rendendo di difficile accesso molte zone che stanno diventando sempre più selvagge.