di ALESSANDRA GUIGONI
Una delle pagine più memorabili sul gustoso porco arrosto sardo la firmò lo scrittore Massimo Bontempelli nel 1931 quando, dopo averlo assaggiato in Barbagia, affermò di aver capito “per la prima volta nella vita il peccato della gola” e che “l’arte culinaria, esattamente come la poesia, nasce perfetta all’origine e non può nulla imparare dalla esperienza dei secoli”.
In Sardegna del resto l’allevamento del maiale è una pratica millenaria: ritrovamenti significativi di ossa di suini nei siti archeologici sardi si attestano sin dal 5000 a.C. diventando via via più importanti nel tempo. In epoca nuragica alcuni bronzetti raffigurano scrofe gravide e maialini, probabilmente sin da allora su porcheddu (detto anche porceddu o proceddu) oltre a essere una leccornia era anche oggetto di sacrificio cultuale alle divinità.
In epoca romana i maiali sardi venivano esportati a Roma, insieme al sale, al grano, alle pelli. Nel Medioevo l’allevamento del maiale era regolato da precise leggi, alcune delle quali contenute nella Carta de Logu. Nell’Ottocento il viaggiatore Bresciani rimane piacevolmente stupito dall’arte di arrostire sarda, quando osserva che “diviso un capretto, un agnello, un maialetto in due, li infiggono in stecchi verdi e così … tanto li girano e rigirano che, condito del proprio adipe e talor spruzzato di buon vino, abbia fatto crosta e buona cottura” e un altro viaggiatore coevo, Luciano Baldassarre, chiosò che in Sardegna “la vivanda nazionale consiste nei teneri porci da latte arrostiti intieri sullo schidione”.
Nei secoli il legame tra il maiale e le credenze religiose popolari non sono venute meno e ancora adesso una popolare leggenda sarda attribuisce a Sant’Antonio Abate il dono del fuoco agli uomini, grazie anche all’aiuto di un maialino che lo accompagnava sempre, e con cui viene infatti raffigurato.
Con la solennità di Sant’Antonio si apriva ufficialmente la stagione dell’uccisione del maiale domestico, allevato come fonte di proteine animali, determinante per le famiglie contadine sarde di un tempo, a cui seguiva l’inizio del Carnevale, dove i fritti salati e dolci (nello strutto) e il consumo di carne proseguivano gioiosamente sino allo stop imposto dalla Quaresima.
I salumi sardi più importanti naturalmente sono a base di carne di suino e la carne di suino adulto viene utilizzata per una quantità di piatti tradizionali, stufata, arrostita, lessa, in padella, macerata nel vino. Il suino da latte sardo -secondo la scheda PAT del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali- deve avere un’età compresa tra i 30 e i 45 giorni, pesare tra i 5 e i 9 kg, con carne soda, compatta, buona colorazione del muscolo, grasso di copertura consistente di colore bianco o rosato e leggera marezzatura.
La pratica di arrostire carni, e in particolare di arrostire il suinetto da latte è uno degli elementi più conosciuti della cultura gastronomica sarda. Gli arrostitori d’esperienza conoscono tutti i trucchi relativi alla cottura, per rendere la carne del suinetto tenera e gustosa, e la cotenna croccante e saporita.
Ciascuno ha il proprio metodo e tempo di salagione delle carni, a metà o verso fine cottura, l’uso di eventuali condimenti, come del lardo fatto gocciolare lentamente sulla cotenna in cottura per renderla ancora più croccante e stuzzicante, o ancora il tipo di brace scelta, la distanza dal fuoco, lo spiedo, orizzontale o verticale, manuale o meccanico, e altri parametri. Nulla è lasciato al caso nell’isola e nelle occasioni importanti, come sagre, feste, matrimoni, ci sono arrostitori rinomati che vengono chiamati apposta, per ottenere un risultato impeccabile e a regola d’arte.