di SERGIO PORTAS
Si fa presto a dire giorno della memoria, la memoria di chi? Di quelli che come noi attoniti assistono alla recrudescenza dei comportamenti nazi-fascisti in mezza Europa, la memoria dei nostri figli e nipoti manifestamente debole e incapace di un senso di condivisione per le vittime di quei tempi tristi, cosa che noi davamo per scontato? Al circolo sardo di Milano, sabato 18 è andata in scena la memoria di un soldato sardo, un finanziere per essere più precisi, travolto dalle vicissitudini che, come lui, ogni componente l’esercito italiano dovette subire dopo il fatale 8 settembre del 1943. Giuseppe Deiana, già insegnante di lettere e filosofia nei licei milanesi, sardo di Ardauli, presidente dell’associazione Puecher, inquadra la situazione storico-politica in cui si svolgono i fatti: dopo che l’esercito tedesco era stato respinto dalla resistenza russa per Stalingrado nel febbraio del ’43 (c’eravamo anche noi italiani, coi rumeni e gli ungheresi), in luglio lo sbarco alleato in Sicilia, il giorno 18 e, giusto una settimana dopo, il fatale 25 il cavaliere Benito Mussolini, Duce d’Italia per un ventennio, veniva arrestato dai reali carabinieri del re, improvvisamente ricordatosi che era lui Savoia a comandare e a dettare i destini del paese. Peccato non avesse dato loro l’ordine di disperdere con una salva di mitragliatrice la combriccola di disperati, armati di coltello e bomba a mano, che componevano la banda della risibile “marcia su Roma”, che aveva messo in mano ai fascisti il paese (il loro “duce” era vicino al confine con la Svizzera e vi si sarebbe precipitato in un baleno). Passato neanche un mese ( Mussolini liberato sul Gran Sasso, prima l’avevano parcheggiato alla Maddalena), l’8 settembre ( il re, la regina, i principi, i generali, i gioielli della corona, tutti scappati a Brindisi il giorno dopo) l’esercito italiano si scioglie come neve al sole, è l’armistizio, i milioni di baionette che il duce aveva diligentemente fatto crescere al fine di ripristinare il romano impero alleandosi con i nazisti di Adolf Hitler, rimane senza ordini superiori. Non si capisce più chi deve ancora combattere, e soprattutto con chi. I tedeschi si impossessano delle armi italiane quasi senza colpo ferire, fucilano a più non posso i “traditori” (vedi i fatti di Cefalonia) poi si mettono d’accordo con Mussolini che si era nel frattempo riscoperto fervente repubblicano ( come ai bei tempi del fascismo nascente in piazza Santo Spirito, a Milano) e aveva messo su una repubblichina a Salò : la RSI, repubblica sociale italiana (quella che in storiografia viene definito come stato fantoccio, che il vero comando l’avessero i tedeschi non vi era dubbio alcuno). Dei nostri militari, i più si sbarazzano dell’uniforme e si danno alla macchia, alcuni in montagna coi partigiani, agli altri viene proposto un dilemma dei più duri: o arruolarsi nel “nuovo esercito fascista repubblicano”, o finire in Germania a lavorare nell’industria bellica tedesca, desolatamente priva dei suoi uomini migliori, tutti arruolati nella Wehrmacht schierata a difesa su in Normandia, a oriente contro l’armata rossa di Stalin, nella linea Gotica in centro Italia. Naturalmente si fece prima una distinzione fra militari ebrei (8564, ne morirono 7555) e militari “politici” (circa 22.000, ne morirono la metà): questi finirono ad Auschiwitz e negli altri campi di sterminio.
Dei 600.000 che si trovarono impantanati in questo ginepraio, e con essi l’eroe sardo di stasera, il 90% scelse la fedeltà alle stellette ( che son disciplina, come dice quella canzone) e non al nuovo ordine in camicia nera e basco funebre col teschio dei “boia chi molla”. Furono inquadrati come IMI, acronimo che sta per Internati Militari Italiani, meglio di loro stavano i prigionieri di guerra, che almeno avevano la Convenzione di Ginevra a riconoscere loro alcune garanzie e venivano visitati dalla Croce Rossa, i soldati italiani invece erano costretti a lavorare “volontariamente”, gli ufficiali ne erano esentati e comunque come loro facevano la fame. Di questo Pietro Tola, da Thiesi, nord di Sassari, Mielogu, sappiamo le vicissitudini perché i due figli, Salvatore (scrittore, pedagogista, insegnante, cultore di poesia sarda col “Messaggero”, intellettuale a tutto tondo) e Giuseppe, finalmente incuriositi di alcuni quaderni a grafia fitta che il padre aveva riportato dalla guerra, si resero conto di quanto fossero preziose le informazioni che contenevano. Erano un vero e proprio diario di prigionia. Scritto giorno dopo giorno in quei due anni che gli toccò di lavoro forzato nei campi di concentramento tedeschi. “ Il Lager nel bosco” si intitola (Soter editrice), perché all’inizio lui venne rinchiuso nel nord della Francia, in una sorta di fattoria, e solo in seguito finì in una fonderia di alluminio, bombardata un giorno sì e l’altro anche dall’ aviazione alleata. Aveva solo la terza elementare papà Tola ma sentite come scrive a pag.98 quando sa che dovrà abbandonare il bosco: “Addio aria libera, aria sana, dove i polmoni respiravano a pieno agio, addio aria salubre profumata di resina: nella misera che ci ha colpiti, i pensieri correvano nello spazio verso le persone care, verso la mia amata compagna e il mio caro Salvatore”. Davvero ricorda, come dice Giuseppe Deidda la Lucia del Manzoni in fuga da Don Rodrigo: “Addio, monti sorgenti dall’acque; cime inuguali, note a chi è cresciuto fra voi…”. Era il secondo di sei figli Pietro, nato nel 1905, da una famiglia di piccoli pastori e contadini. Come molti sardi trovò nell’arruolamento in un corpo militare il modo di sfangare la vita. Si sposò una romagnola a Faenza (dove nacque Salvatore) nel ’39, che allora per “avere il permesso” occorreva compiere 35 anni di età, altro che quota 100! E quando tornò a casa in Sardegna, a fine guerra, si portò dietro per ricordo una forchetta, ed era quella l’unica cosa rimasta alla famiglia. Dice meglio di me Manlio Brigaglia nella prefazione: “In questo paesaggio di quotidiana crudeltà, in questo abisso di disprezzo e di barbarie, le pagine di Pietro Tola spirano un’aura di serenità perfino nei momenti in cui manca il pane o mancano le notizie di casa…”. Non li voleva stare ad ascoltare nessuno, questi reduci “che avevano collaborato coi nemici”, né loro erano granché motivati a raccontare. “Il Lager nel bosco” è prezioso nel rendere finalmente giustizia a un militare italiano, uno per tutti gli altri 600.000, sardo “di quelli che dividevano i pacchi con gli altri”, perché la memoria di quegli anni, di quei fatti, ci sia d’aiuto a riconoscere nelle proposte politiche dei nuovi nazifascisti i semi guasti che portano alla crescita di piante malate, dove possono ancora nascondersi i lager del nostro tempo.
Grazie a Sergio per la consueta splendida esposizione di fatti a noi cari.
Complimenti per l’ iniziativa e l’attività dei circoli sardi in Italia e nel mondo.