di ROBERTA CARBONI
Un tempo popolato da pescatori, famoso per caratteristiche capanne di giunco che fino alla Seconda Guerra Mondiale si allineavano l’una accanto all’altra sulla costa oristanese, il borgo di San Giovanni di Sinis è oggi una tra le più belle località balneari del Golfo di Oristano, tutelata come area marina protetta.
Sorge a sud della Penisola del Sinis, nella parte centro-occidentale della Sardegna: un luogo antico e magico che colpisce per i suoi colori sgargianti e i panorami costieri di grande effetto scenografico.
Lungo l’antica strada che conduce alla città di Tharros e, più a sud, alla torre spagnola e al promontorio di capo San Marco, in un contesto paesaggistico di dune di sabbia, rocce di arenaria e basalto, si erge la bella chiesetta di San Giovanni Battista con le sue forme orientaleggianti.
Immersa in un luogo ambientale di suggestiva bellezza, la piccola chiesetta bizantina è forse una tra le più antiche della Sardegna. Colpisce per le sue forme levigate e sinuose e per la caratteristica colorazione bianco-giallastra data dall’arenaria e dal calcare locale, proveniente in buona parte dall’antica Tharros, abbandonata intorno all’XI secolo.
Il primo impianto è databile al VI-VII secolo, ma scavi recenti hanno messo in luce un precedente edificio paleocristiano. L’impianto fu poi modificato nel corso dell’XI secolo, mescolando gli influssi dell’architettura bizantina con quelli dell’architettura romanica e provenzale.
L’edificio bizantino presentava una pianta a croce inscritta, databile al VI-VII secolo, della quale rimangono il corpo cupolato e i bracci trasversali. Degna di nota è soprattutto la cupola emisferica, costruita con una perizia riscontrabile anche in altri edifici bizantini dello stesso periodo come la chiesa di San Saturnino di Cagliari, la chiesa di Sant’Antioco nell’omonima cittadina sulcitana e la chiesa di Sant’Efisio a Nora, il cui modello fu con tutta probabilità la chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli.
In questi edifici lo spazio quadrato della navata sottostante, delimitato dai pilastri, è raccordato con l’imposta circolare della cupola mediante pennacchi o scuffie, soluzioni architettonico-decorative al contempo ardite ed eleganti, che permettono l’innesto di una cupola su un corpo poligonale, adattando la pianta circolare a quella quadrata o poligonale.
In epoca protoromanica, intorno all’XI secolo, la chiesa subì un primo ampliamento che coinvolse l’abside e gli archi ciechi addossati ai fianchi delle navate laterali. Appartiene a questa fase anche l’ampliamento della chiesa con una trasformazione – comune a molti altri edifici bizantini, tra cui quelli già citati – della pianta a croce greca in una pianta a croce latina, tipica delle chiese romaniche. L’ampliamento longitudinale della chiesa comportò il rifacimento di alcune parti: tra queste la facciata e le navatelle laterali.
L’aula, di forma rettangolare, è suddivisa in tre navate coperte da volte a botte e un transetto ugualmente voltato a botte. Le navate laterali comunicano con quella centrale mediante tre archi poggianti su pilastri. L’illuminazione interna è assicurata da tre piccole aperture quadrangolari e, in corrispondenza dell’abside e del transetto, da bifore.
La facciata si presenta semplice e austera, scandita da tre arcate cieche, appena ravvivata nella parte centrale da un oculo ubicato al di sopra della porta d’ingresso. In occasione di recenti restauri è stato individuato alla base dell’abside un lacerto di intonaco dipinto in bruno e rosso su fondo bianco, raffigurante parte di un tendaggio; tale elemento, che doveva far parte di una decorazione parietale più ampia, trova confronti in contesti extrainsulari datati tra l’VIII e il IX secolo.
Nel corso degli stessi lavori è stato evidenziato al di sotto della chiesa e immediatamente a sud di essa un preesistente edificio con abside orientata ad est e la presenza nell’area di numerose sepolture, tra cui alcuni sarcofagi ancora presenti al di sotto del piano pavimentale, che hanno portato ad ipotizzare la presenza di una basilica funeraria paleocristiana.
Un contributo fondamentale nell’ampliamento della chiesa si deve ai monaci benedettini dell’abbazia di San Vittore di Marsiglia, documentati in Sardegna a partire dal 1089. A quest’epoca si riferiscono alcuni importanti lasciti da parte dei giudici di Cagliari e Gallura, i quali affidarono ai monaci provenzali il compito di ripopolare le campagne e latinizzare il culto.
Sul finire del X secolo la Sardegna visse un processo di graduale emancipazione politica da Bisanzio, il cui controllo durava fin dal VI secolo. Questo graduale distacco portò la creazione intorno alla metà dell’XI secolo di quattro regni autonomi, chiamati Giudicati: Cagliari, Arbores, Torres o Logudoro e Gallura.
Si trattava di entità statutarie e giuridiche autonome, rette da un sovrano – detto judex – e suddivise in porzioni di territorio più piccole dette “curatorie”. Ogni stato, o “logu”, era quindi autonomo come un vero e proprio regno e ogni giudice era a tutti gli effetti un re.
Nel 1054, con il grande Scisma d’Oriente, la Sardegna dovette affrontare un problema significativo in termini politico-religiosi: che direzione seguire? Quella orientale dettata da Bisanzio o quella occidentale dettata dalla chiesa di Roma? La scelta ricadde sul papato romano, già coinvolto nella causa legata alle incursioni saracenesull’isola all’inizio dell’XI secolo e capace di legittimare il potere giudicale.
È in questo contesto che si colloca la volontà dei giudici di rinsaldare un vecchio legame con la chiesa di Roma e l’esigenza di riqualificare l’isola nel segno della devozione e del monachesimo occidentale. A questo si legava l’intento di rilanciare il culto dei martiri locali, testimoni della fede cristiana e esempi di bontà e virtù.
Dietro esplicita richiesta dei giudici al papa, quindi, giunsero in Sardegna sul finire dell’XI secolo benedettini, camaldolesi, cistercensi e così via. Naturalmente ognuno di questi ordini era legato a particolari maestranze responsabili della costruzione di nuovi edifici di culto e monasteri.
L’arrivo dei monaci, a conti fatti, si tradusse in un periodo di crescita culturale, economica e socialeper l’isola. Non solo questi ultimi contribuirono all’alfabetizzazione del clero e di alcune fasce della popolazione, ma impiantarono un sistema fatto di unità organizzate, di piccole cellule nate come aziende agricole autosufficienti, in grado di far progredire economicamente il tessuto locale. In particolare nel Giudicato di Cagliari i Vittorini svolsero un ruolo di primo piano nella gestione della politica culturale ed economica. A Cagliari ebbero il controllo delle saline e dei porti per l’imbarco del sale, un centro nevralgico del tessuto produttivo cagliaritano.
A partire dal 1089 circa il giudice di Cagliari Costantino Salusio II donò ai Vittorini numerose chiese, affinché vi impiantassero i monasteri. Alle prime tre chiese di San Saturnino di Cagliari, Sant’Efisio di Nora e San Giovanni di Sinis si aggiunsero quella di San Giorgio di Decimoputzu e numerose altre, fino all’ultimo inventario del 1338 che consiste in un censimento dei beni dell’ordine dei Vittorini in Sardegna. In quel periodo l’ordine era in forte decadenza e fu sostituito nella sua funzione politica da francescani e domenicani che da qualche decennio costituivano la forza emergente nel contesto della società europea.
Poco distante dalla chiesa di San Giovanni si trova l’area archeologica di Tharros, fondata tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. dai Fenici in un’area già frequentata in età nuragica. Di questa fase oggi rimangono alcuni resti nella collina detta Su Murru Mannu (in sardo “grande muso”). La parte fenicio-punica e romana si estende verso la parte opposta, conservando importanti tracce di abitazioni, necropoli, edifici termali e luoghi di culto, nonchè due necropoli di diversa estensione.
La visita dell’area archeologica ha un ticket di 5,00€, ma è possibile usufruire di un biglietto cumulativo che permette di visitare anche la torre spagnola e il museo archeologico di Cabras, che custodisce i celebri Giganti di Mont’e Prama.
Lasciata l’area archeologica, si raggiunge la vetta alla volta della Torre spagnola. Detta anche torre di S. Giovanni, per la vicinanza con la chiesa di San Giovanni di Sinis, fu costruita tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo sulla sommità dell’altura che sovrasta l’area archeologica di Tharros. Di notevoli dimensioni e con ampio dominio visivo sul Golfo di Oristano e verso il mare aperto, era armata con cannoni e spingarde e presidiata da una guarnigione di soldati ed arcieri. Si suppone sia stata costruita sui resti di un nuraghe monotorre e di una torre punica, con pietre di spoglio della città di Tharros. Dalla sommità della torre si gode di una vista a 360 gradi sulla penisola del Sinis e sull’antica città di Tharros, osservando le differenze tra il cosiddetto “Mari Mortu” (o Mare Morto, così chiamato per la presenza costante di un mare calmo e piatto) e la spiaggia di San Giovanni di Sinis, il cui mare cristallino è spesso soggetto a correnti.
Proseguendo lungo la SP6 si incontra il villaggio di San Salvatore, che si anima durante la settimana dedicata alla festa che culmina con la celebre corsa degli scalzi. Proseguendo sulla SP7 si raggiunge il centro storico di Cabras. Qui il Museo Archeologico Giovanni Marongiu propone un ricco allestimento e custodisce importanti testimonianze del territorio dalla preistoria al Medioevo. Dai reperti provenienti dal vicino insediamento nuragico di “Cuccuru is Arrius”, dalla città di Tharros e dal relitto romano di Mal di Ventre, affondato nella prima metà del I secolo a.C. e ritrovato nel 1989. Una menzione importante merita l’allestimento dedicato ai “Giganti di Mont’e Prama”, colossali sculture di pietra rinvenute nell’omonima località nel 1979 ed esposte dopo il restauro dal 22 Marzo 2014. L’allestimento, che trova diretta corrispondenza con quello del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, presenta sei sculture di “Giganti” (tre pugilatori, due arcieri e un guerriero), e quattro modellini di nuraghe.