CONTUS DE ARREJOLAS: PICCOLE GRANDI STORIE NEL CUORE DI CAGLIARI

di IRENE BOSU

«Scusi, cosa vendete qui?», chiede un passante incuriosito da quell’uscio con una porta in ferro battuto addobbata con vasi di fiori. «Io non vendo niente. Distribuisco cultura, diffondo storie» risponde ferma Mercedes. Ed è la verità. Mercedes racconta la storia di una città, di un regno, dei suoi abitanti. Racconta in particolare le storie di Castello, quartiere storico di Cagliari, e lo fa attraverso mattonelle di ceramica. Cinquecento, per la precisione. Cinquecento frammenti di ceramica decorata, ognuna con una vicenda da narrare ma parte di un racconto condiviso: Contus de Arrejolas, racconti delle riggiole, così si chiama il piccolo museo di via Lamarmora, 67. Uno scrigno che contiene piccoli tesori, un luogo fuori dai percorsi del turismo di massa della città. Eppure lì, a un passo, alla portata di chiunque spinto da un pizzico di curiosità vuole conoscere storie fuori dall’ordinario.

Contus de Arrejolas si trova al piano terra di un palazzo del Seicento, che tra gli altri, fu anche della più importante imprenditrice tessile sarda, benefattrice e stilista del ‘700: Francesca Sanna-Sulis. Celebrata all’estero e mai degnamente ricordata in patria. Un’altra storia sarda, insomma, che si va ad aggiungere alla trama di vicende e personaggi che permeano questi muri e che rendono magico questo sottano.

Il museo è piccolo e accogliente. Le sue pareti sono mattoni ricavate da roccia calcarea, antica come la città. È qui che sono issati piedistalli e cornici che sostengono le preziose arrejolas, impreziosite da calde luci che rendono l’atmosfera ancora più incantata. Ceramiche colorate e decorate con figure mitologiche, stemmi araldici, fiori, giochi geometrici. Sono ipnotiche. Le ha curate, pulite, catalogate, studiate, incorniciate Mercedes Mariotti.  Cagliaritana, ex professoressa e artista, è lei che ha avuto l’idea creare questo piccolo museo. «Ho acquistato questo locale nel 1992 con l’aiuto dell’ingegner Governi per realizzare un laboratorio di ceramica – racconta Mercedes con gli occhi sognanti – mai, però, avrei immaginato di trovare all’interno oggetti di uso quotidiano, cocci, resti di vasellame e mattonelle di maiolica».

Al suo arrivo, il pavimento era ricoperto di terra battuta, mista a piastrelle, per contrastare l’umidità che saliva dal terreno. Molte di queste, ancora intatte, le ha trovate anche in una antica cisterna del palazzo, forse di epoca romana, ma su questo gli archeologi non si sono mai messi d’accordo.  «È un palazzo che risale al 1650 della nobiltà Cagliaritana», continua Mercedes, «ci sono tre piani. Quello intermedio comprendeva l’abitazione principale, perché era più comoda: più calda d’inverno e più fresca d’estate e soprattutto senza tante scale. Il terzo piano era riservato alle cucine e all’alloggio della servitù. Infine, nel piano terra si trovavano le cantine per le riserve alimentari della famiglia. In tempi più recenti, prima del mio acquisto, questi spazi sono stati affittati a famiglie molto povere ma tanto dignitose. So questo per certo perché ho avuto la visita di due anziane signore che mi hanno raccontato la loro vita qui».

Durante gli anni di Far Ceramica (così si chiamava il laboratorio), Mercedes ha collezionato centinaia di riggiole di Castello. Spesso salvate dalle ruspe, altre volte lasciate da chi voleva liberarsene. La collezione personale si è col tempo ampliata grazie a donatori provenienti dal quartiere, consci che Mercedes avrebbe provveduto a studiarle, catalogarle, valorizzarle. Questa particolarissima collezione, frutto della tenacia e del lavoro certosino e accurato della sua curatrice, è stata riconosciuta di eccezionale interesse storico-artistico dalla Sovrintendenza per i beni culturali.

Contus de Arrejolas è un museo piccolo ma multiculturale: si trovano riggiole napoletane, liguri, spagnole e sarde. La provenienza è spesso difficile da inquadrare e avviene attraverso i dettagli, i motivi o i marchi degli artigiani che le hanno create. «Guardate qui, questa è una riggiola spagnola che chiamiamo mattonella parlante, perché racconta tante cose», spiega Mercedes. «È stata trovata nello scantinato di un palazzo del quartiere e donata da un’amica. Lo stemma disegnato, un cervo, è quello della famiglia di un fante catalano inviato in Sardegna nel 1323 per cacciare i pisani e mai più andato via. Lo stemma diventò poi regale quando un membro di questa famiglia divenne viceré». 

Mercedes si riferisce a Guillem Cervellón Cornel, arrivato in Sardegna al seguito dell’Infante Alfonso per cacciare i pisani e perfezionare l’acquisizione del Regno di Sardegna e Corsica e al suo discendente Bernardo Matias de Cervellón, tre volte viceré nel Seicento.

Mercedes mostra altre mattonelle della collezione. Ci sono quelle con lo stemma dei padri domenicani, fatte arrivare dalla Spagna, alcune delle quali sono ancora nella chiesa di san Lucifero. Poi quelle con lo stemma della Città di Cagliari nell’epoca aragonese, come le due torri incastonato nei quattro pali rossi in campo oro, presenti in ogni regno della Corona.  «Questo non è un piccolo museo in cui sono esposti freddi oggetti, la gente che entra qui si emoziona. Intanto, perché degli oggetti conosce le storie, poi perché ne aggiunge continuamente. Mi affidano i loro pezzi per raccontarli e farli conoscere al pubblico».

Mercedes ammalia chi le fa visita con la sua voce antica, aristocratica. Pesa ogni parola per restituire al suo interlocutore tutta la densità del vissuto di quei frammenti di ceramica decorati con cura. Ha il dono del racconto. Lo si percepisce immediatamente. Lo si capisce, ad esempio, quando prende impercettibili pause per cercare le parole più adatte per illustrare la storia delle riggiole che impreziosivano i palazzi nobiliari di Cagliari. O quando, subito dopo, dà qualche dettaglio di quelle persone capitate lì per caso e gli avevano affidato una storia, la loro storia, da far conoscere. «Vivevano qui durante i bombardamenti del ’43. Cinque bambini in una piccola stanza – che ora è il retrobottega del museo. Quando sentivano la sirena scappavano per raggiungere il rifugio, ma era lontano: due, trecento metri. Mica poco sotto le bombe. E allora il padre ha costruito un buco nel muro e nascondeva lì i suoi figli. “Almeno moriamo tutti assieme”. È lì, vedete», racconta Mercedes mentre illumina un buco nella parete ora chiuso con mattoni rossi e coperto da una credenza di legno scuro.

In questo piccolo grande museo sono conservati oggetti ma soprattutto storie, che senza la passione della curatrice, andrebbero perse per sempre.

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