di ALESSANDRA GUIGONI
Siamo nel 1837 e la Sapa di fichidindia (Saba ‘e figumorisca) viene descritta in uno scritto intitolato Sulla confezione del fico d’Indie dell’accademico conte don Pietro Pes, in Memorie della Reale Società Agraria ed Economica, Cagliari 1837.
Ma prima parliamo di oggi; queste testimonianze da noi raccolte si riferiscono al 2002 e sono contenute nel libro ALLA SCOPERTA DELL’AMERICA IN SARDEGNA. VEGETALI AMERICANI NELL’ALIMENTAZIONE SARDA, edito da AM&D edizioni 2009.
«”Tagliavamo il ficodindia, li pulivamo, si dice crestai per pulire, toglievamo la buccia… li prendevamo cun sa cannuga, mundausu, e una volta ripuliti si schiacciava la polpa con le mani, e si faceva cuocere… una volta cotta veniva colata prima nello scolapasta, poi in tovaglioli a forma di imbuto, perché aveva molti semi. Una volta colata si rimetteva a cuocere in modo che diventava più denso, una volta cotto si aggiunge la buccia d’arancia ed è pronto” (P.A., 81 anni, f., Teulada).
“Ci voleva molto a fare sa saba. Voleva bollita, poi passata nel colino per i semi, ci voleva un giorno intero per farla. C’erano i proprietari di vigne che la facevano di vino, ma chi non ne aveva andava a cercare fichidindia” (G.B., 75 anni, f., Teulada).
“Si faceva anche la saba col ficodindia, è dolce dolce. Vuole sapere come si faceva? Si raccolgono a fine estate, si tolgono le spine, abbiamo una scopa apposta, vuole lavato, li apriamo e li mettiamo a cuocere, dopo si fanno colare e si tolgono i semi. Invece la saba di mosto si cola prima, non dopo la cottura come quella di ficodindia” (T.F., 67 anni, f., Assemini).
Alcuni testimoni hanno sottolineato il fatto che, essendo il ficodindia un frutto autunnale ed invernale, era naturale usarlo al posto (o con) la sapa di mosto di vino, che costituisce uno degli ingredienti tipici dei dolci autunnali sardi, confezionati soprattutto ad Ognissanti fino a Carnevale inoltrato.
“Si faceva sa saba di fichidindia?
Sì, io la facevo. Per farla si lasciano maturare i frutti sul carrucciu [pala o cladodio] poi si prendono, si puliscono, come quando li mangiamo, si mettono in una bacinella, e poi vengono schiacciati, passati al setaccio per togliere i semi, e la polpa si lavorava con le mani, fino a quando usciva il liquido. Poi si metteva a cuocere. Si facevano i dolci per tutti i santi, come il pan’e saba. Era molto indicato e molto buono. Prima si usava il succo dell’uva, l’uva, poi se diminuiva, al posto dell’uva si prendeva il succo del ficodindia. Si faceva anche per Santa Greca, l’ultima settimana di settembre. La facevo a casa mia e a casa di mia mamma, e anche dopo che mi sono sposata l’ho fatto” (L.M.S., 90 anni, f., Assemini).
“Usavamo sa saba per sant’Antiogu, che è la festa del patrono di qui, e per sant’Isidoro, che è patrono degli agricoltori, e a Teulada lo festeggiamo a maggio, prima di mietere il grano, e a settembre, per ringraziarlo del raccolto. Si fa su pani ’e saba e si usa anche per incorniciare le corna dei buoi. Si facevano anche i coccoi de saba, belli, con sa cappa e le traggera” (P.A., 81 anni, f., Teulada)» (in Guigoni 2009: 267-268).
La ricetta che segue è del conte Pes e non si discosta molto da quella che si fa ancora oggi in varie zone della Sardegna.
Preparazione: «Colto il Fico Moresco in quantità proporzionata al prodotto che si desidera […] [mondato della buccia] collochisi in largo catino, ove dee tritarsi in modo da ridurlo in pasta tendente al liquido o meglio liquida soluzione. Accolto quindi tutto il tritume in apposito pannolino, facciasi colare il liquido, col mezzo ancora della pressione, in sottoposta pentola, od altro vaso da fuoco, meglio stimisi separando così gli ossicini che alla polpa trovansi frammisti. Poscia spargendovi alquanto di polvere aromatiche come di cannella e garofano, promuova sia piccolo calore una lenta ebollizione che va talora prolungata per cinque, sei o sette ore fino a tanto che acquisti quel certo grado di condensazione o consistenza che alle più cognite conserve addicesi […] Travasato allora a quei più gentili recipienti nei quali vuolsi tenere in serbo, ne risulterà con raffreddamento una confezione al pari di ogni altra appropriata ai domestici usi, non men gustosa che quella che da le susine o pesche ottiensi; e ciò che più monta men dispendiosa e per le minori preparazioni che esige e per la totale assenza dello zucchero coloniale che non ammette il cui costo non dee negligentarsi nei calcoli della famigliare amministrazione» (1837: 369-370).
Il resto della ricetta, con il procedimento moderno ed altre info ecc. è contenuta nel libro CIBO IDENTITARIO DELLA SARDEGNA, Isre, Nuoro, 2019.
Una bellissima pratica della tradizione sarda, per ottenere un eccezionale sostituto dello zucchero. Grazie per le testimonianze Alessandra Guigoni🥰 Con un po’ di tecnologia si possono semplificare dei passaggi e ottenere un nettare di riserva per diverse preparazioni. 🍹🎂🍰🥧🍦